Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
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IL MINISTERO DELL’INTERNO PERSEVERA ! - (Articolo di Angelo Vicari)

(Seguito dell'articolo RINNOVO DELLA LICENZA DI PORTO DI PISTOLA; QUALCHE VOLTA ANCHE IL SUDDITO PUO’ AVERE  RAGIONE

Il Ministero dell’Interno, non contento di aver difeso “a spada tratta”, ma con esito negativo, l’atto illegittimo con il quale, recentemente, è stato negato ad un cittadino il rinnovo della licenza di porto di pistola (si veda in questo stesso sito la nota a sentenza “Vicari. I prefetti devono motivare bene!”), a distanza di soli due mesi, ci riprova.
La commedia, o forse meglio “operetta” ha sempre lo stesso svolgimento;
-titolo: “Il gioco delle parti”;
-personaggi: i “soliti noti”, cioè un cittadino/suddito, un Prefetto, un Giudice amministrativo, il Ministro dell’Interno, il Consiglio di Stato;
-trama: richiesta di rinnovo della licenza del porto di pistola; atto di rifiuto dell’istanza, nonostante sia stata rinnovata per diversi anni e persistendo i soliti motivi per il “dimostrato bisogno”; accoglimento del ricorso giurisdizionale; ricorso in appello del Ministero dell’Interno che, come al solito, non si preoccupa minimamente di prendere in considerazione la possibilità che il Prefetto possa avere sbagliato; respingimento del ricorso, ma, purtroppo, sempre “spese processuali compensate”.
Quindi, niente di nuovo sotto il sole, se non la non trascurabile opportunità di evidenziare che, in materia di rinnovo della licenza di porto di pistola, la giurisprudenza del Consiglio di Stato sta diventando costante nel riconoscere le legittime aspettative del cittadino.
Entriamo, dunque, nei particolari della vicenda.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sede di Catanzaro, Sez. I, sentenza n. 1125, 22 aprile 2005) accoglie il ricorso di un cittadino, annullando il decreto del Prefetto, con il quale è stata respinta l’istanza di rinnovo della licenza di porto di pistola per difesa personale.
Il decreto di rifiuto si è basato sulle seguenti motivazioni:
-“l’istante non ha fornito elementi sufficienti atti a dimostrare l’effettivo bisogno di andare armato;
-non sono emersi particolari elementi che facciano temere l’insorgere di gravi pericoli per la sua incolumità o per l’integrità del suo patrimonio;
-lo stesso è stato notato in compagnia di persone con pregiudizi penali nominativamente individuate;
-l’attuale situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nella Provincia di Catanzaro non consente incondizionate concessioni di licenze di porto di pistola tenuto anche conto delle direttive emanate al riguardo dal Ministero dell’Interno in data 27 settembre 1990 tendenti ad introdurre un maggior rigore valutativo circa la necessità di circolare armato”.
Ci sia consentito, prima di esaminare le motivazioni della decisione del T.A.R., di rilevare come, oramai, i Prefetti motivano quasi tutti i loro provvedimenti di diniego con il riferimento “all’attuale situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nella provincia”. Quest’ultima stereotipata formula, tradotta in volgare, vuol dire che, siccome in provincia le Forze di polizia tengono sotto controllo la delinquenza, non è necessario che il privato cittadino sia munito di licenza di porto d’arma, non avendo necessità di difendersi da solo.
Ammesso, con beneficio di inventario, che una provincia possa essere come il” paese di Alice”, come potrà sentirsi sicuro il cittadino costretto, per lavoro, a spostamenti in altre province, dove l’ordine e la sicurezza pubblica non sono palesemente sotto controllo?...
Dunque, non ha senso logico far riferimento alla “attuale situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nella provincia”. Semmai si volesse insistere su questo motivo, potrebbe essere giustificata una valutazione ampliata a tutto il territorio nazionale, ma, fatti alla mano, sostenere ciò sarebbe un falso!......
Altro motivo comune a tutti i decreti di rifiuto di rilascio e rinnovo della licenza di porto di pistola è il richiamo alle direttive emanate dal Ministero dell’Interno nel 1990 che sollecitavano gli uffici dipendenti ad un “maggior rigore valutativo”.
In merito è da rilevare che trattasi di “direttive” e non di “ordini”, per cui viene lasciata ampia discrezionalità valutativa ai Prefetti di come operare per meglio raggiungere l’obiettivo di ridurre le licenze di porto di pistola. La convinzione dei Prefetti di emettere atti di rifiuto basati su tali direttive è una convinzione errata in fatto e diritto, perché il Ministero non ha dato l’ordine di togliere a tutti, indistintamente, le licenze di porto per difesa, ma ha invitato i Prefetti a valutare più attentamente i motivi del “dimostrato bisogno”. 
Nel caso di specie, il T.A.R. ha riconosciuto che l’interessato “ ha addotto elementi sufficienti diretti a dimostrare l’effettivo bisogno di andare armato”. Infatti, lo stesso è sempre stato titolare “di un’avviata concessionaria per la vendita di auto e moto e di una agenzia per disbrigo delle relative pratiche” per cui “si trova nella disponibilità di ingenti somme di denaro”, tanto è vero che la stessa Prefettura ha rilasciato per gli stessi motivi la licenza in questione nel 1988, rinnovandola fino al 2003.
Il T.A.R., quindi, ha ritenuto che “l’Amministrazione sia incorsa in contraddizione rispetto ai suoi comportamenti precedenti”, “senza giustificare in modo adeguato le nuove scelte”. Lo stesso Giudice osserva che nessun valore giustificativo del rifiuto può assumere il richiamo al “maggior rigore valutativo” introdotto dalle direttive del Ministero con la circolare del 27 settembre 1990, poiché la Prefettura ha rinnovato la licenza dal 1988 “nella piena consapevolezza delle nuove direttive” e sussistendo i motivi del “dimostrato bisogno” di cui all’art. 42 del T.U.L.P.S..
 Né può essere preso in considerazione il “riferimento alla circostanza che il ricorrente è stato notato in compagnia di persone con pregiudizi penali nominativamente individuate”, avendo valutato il Giudice di primo grado che si era trattato di “ episodi isolati”, essendo il ricorrente “in relazione della propria attività, continuamente in contatto con potenziali clienti ai quali non è tenuto a chiedere il certificato penale”.
In considerazione di tali censure, il T.A.R. ha accolto il ricorso, ritenendo “illegittimo” l’atto del Prefetto, come al solito, per “mancanza di motivazione”, poiché,”quando, come nel caso di specie, è stata sempre riconosciuta la necessità di portare la pistola, l’Amministrazione deve motivare in modo adeguato il proprio mutamento di valutazione”.
Come da prassi, oramai consolidata, il Ministero dell’Interno ha impugnato la sentenza del T.A.R. davanti al Consiglio di Stato, siccome, a suo dire, la decisione di primo grado “non aveva tenuto conto che l’atto era stato adottato sulla base di un dato, proveniente dalla Questura di Catanzaro, secondo il quale, avuto riguardo alla complessiva situazione ambientale, sociale e familiare, l’interessato, pur titolare di esercizio commerciale, non necessitava del porto d’arma. L’errore consisteva semmai nelle pregresse abilitazioni legittimate dall’amministrazione; esse erano emendabili in autotutela. Ne discendeva comunque la correttezza dell’azione amministrativa contestata, fondata su complessive valutazioni,incentrate anche sulla circostanza che l’appellato si era accompagnato con pregiudicati”.
Da queste ultime motivazioni traspare come il Ministero si senta sempre incondizionatamente “obbligato” a ricorrere, pur essendo convinto (almeno vogliamo sperare !) che difendere molti atti illegittimi delle Autorità locali sia una battaglia persa. Ciò si può evincere dalla stringata, stereotipata motivazione a sostegno del proprio ricorso:
- si fa sempre riferimento a dati acquisiti, correttamente, dalla Questura, ma che vengono trascritti asetticamente nel provvedimento del Prefetto, senza alcuna doverosa “valutazione” (il classico “scaricabarile” degli uffici pubblici, per confondere il nemico e non lasciare individuare il responsabile);
- ci si appella sempre ai principi di “autotutela” della pubblica Amministrazione e della sua incondizionata “discrezionalità”, non volendo capire (o facendo finta di non capire!..) che tali principi sacrosanti del diritto amministrativo, posti a salvaguardia della collettività, non equivalgono a giustificare il “libero arbitrio” degli organi della P.A., ma devono essere applicati, di volta in volta, ai casi concreti per contemperare le esigenze della tutela degli interessi pubblici con quelli del privato, secondo logica ed imparzialità.
Questa volta il Consiglio di Stato (Sez. VI, sentenza n. 901, del 3 dicembre 2010), non ci sembra abbia avuto particolari perplessità nel riconoscere l’appello del Ministero “infondato e, quindi, respingerlo. Infatti, leggendo la sentenza, ci si accorge che le motivazioni e la giurisprudenza richiamata sono quelle della sentenza n. 8220, emessa dalla stessa Sezione il 12 ottobre 2010, richiamata in premessa.
Nel caso di specie il Consiglio di Stato rileva che il T.A.R. ha “esattamente colto la contraddizione dell’azione amministrativa” riscontrabile nel rilascio e rinnovo della licenza in questione per diversi anni e nell’attuale rifiuto, pur sussistendo gli stessi motivi e non avendo l’interessato abusato del titolo.
Inoltre, in nessun conto devono essere tenute le informazioni relative a relazioni che l’interessato avrebbe trattenuto con persone pregiudicate, siccome riferite a solo due saltuari episodi, tra l’altro con persone che “non avevano precedenti penali”.
Il Consiglio di Stato evidenzia, quindi, che “esattamente il primo giudice ha ritenuto che l’Amministrazione ne avesse compiuto una valutazione eccessiva: e ciò per l’effettiva scarsa, se non assente, valenza dimostrativa”, riscontrando nell’atto del Prefetto “l’assenza di adeguata motivazione”, se non “generiche considerazioni”.
Infine, si rileva che l’atto di appello del Ministero “fa generico riferimento alla lata discrezionalità posseduta dall’Amministrazione in materia, ma in concreto non indica elemento alcuno che giustifichi in modo convincente la mutata valutazione”.
Purtroppo, solito neo delle due sentenze è l’adozione della formula “spese processuali compensate” che, per un ricorso giurisdizionale, equivalgono a diverse migliaia di euro.
In merito, si ritiene opportuno ricordare che il cittadino può anche risparmiare tutti questi soldi, provvedendo, senza l’obbligo di assistenza di un legale, a presentare “ricorso gerarchico” al Ministro, contro gli atti delle Autorità locali.
Ma se questo rimedio amministrativo, posto a tutela degli interessi del cittadino, che dovrebbe anche evitare l’ingolfamento della giustizia amministrativa, è così semplice ed economico, perché, oramai, sempre più raramente se ne fa uso?
La risposta ci pare scontata : come fa l’uomo della strada a ritenere “imparziale” il Ministero che, per partito preso, persevera nel voler difendere anche gli atti palesemente illegittimi delle Autorità provinciali ?!..........
Errare è umano, ma perseverare nell’errore non assicura il rispetto dei principi costituzionali del “buon andamento e imparzialità dell’Amministrazione”.

 


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