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NOTA di Edoardo Mori
Premetto la mia nota perché essa serve di guida per seguire la complessa dimostrazione contenuta nella sentenza. Attenzione, essa è di circa 130 pagine.
Il diritto delle armi italiano è cresciuto per sedimentazione ormai secolare in strati formati da norme legislative (troppo spesso frutto di emergenze), da circolari, da prassi, da interpretazioni nate nelle caserme di polizia, da decisioni giurisprudenziali troppo spesso ancorate a soluzioni tradizionali. L’esperienza quotidiana delle aule di giustizia ci insegna che chi è accusato di un reato in materia di armi si ritrova a giudizio in base alle informazioni che sulla materia un maresciallo o un commissario o un artificiere hanno fornito al PM, le quali, sempre per esperienza quotidiana, sono errate o approssimative, così come fuorvianti sono gran parte delle perizie affidate a volonterosi ma ignoranti periti a cui il giudice, con cieca e mal riposta fiducia, affida troppo spesso anche quesiti giuridici!
A ciò si è aggiunto che negli ultimi decenni la tecnica legislativa è peggiorata, che gli estensori hanno solo vaghe conoscenze della materia, che il testo originario viene interpolato al di fuori di ogni logica sistematica; e così l’interprete rimane con il dubbio costante se la soluzione letterale sia voluta dal legislatore, oppure se sia un semplice errore di formulazione.
La sentenza del Tribunale di Lanusei (est. Claudio Lo Curto) ha colto l’occasione di una imputazione banale (omessa denunzia di alcune cartucce e porto illegale delle stesse), una di quelle che normalmente si chiudono con l’oblazione, per un riesame globale del problema della denunzia e detenzione di polveri e munizioni, con risultati sorprendenti. Con sorpresa, dai fanghi dei sedimenti è infatti riemerso un filo logico nella volontà del legislatore, spesso mal formulato, spesso inconscio, ma non così occulto da non essere percepito ed applicato dalla Cassazione ogni qual volta ha preso a cuore il problema sottopostole ed ha evitato di rimasticare i vecchi massimari.
Per giungere a questo risultato la sentenza ha dovuto ricostruire tutto il sistema, a partire dal T.U. di Pubblica Sicurezza in poi, ed è divenuta imponente; ma deve essere studiata perché su ogni punto affrontato ha saputo dire qualche cosa di nuovo ed illuminante. I molti argomenti affrontati non sono obiter dicta, ma le tessere di un ampio ragionamento.
In questa nota mi limiterò ad esporre il filo logico seguito dalla sentenza perché i profani, come recita un proverbio tedesco, potrebbero “non vedere il bosco perché ci sono troppi alberi”.
L’iter argomentativo parte esponendo i motivi per cui si deve ritenere che l’art. 699 C.P. regolante il porto delle armi bianche, è stato abrogato con l’entrata in vigore dell’art. 4 L. 110/1975 il quale ha regolato ogni possibile ipotesi, comprese quelle aggravate di cui al secondo e terzo comma. Essendo state escluse le armi bianche dal novero delle armi da guerra, è venuta meno anche la necessità di prevedere l’aggravamento di pena (con un risultato che finisce per punire più gravemente il porto di una baionetta rispetto al porto di una pistola) per il porto di quelle armi di cui è vietato il porto in modo assoluto, originariamente stabilito per le armi da guerra, bianche o da sparo.
Viene meno quindi l’assurda costruzione giuridica per cui in relazione al porto illegale di armi comuni da sparo si realizzerebbero due distinti reati: uno delittuoso per il porto in luogo pubblico o aperto al pubblico (art. 4 L. 497/1967) e l’altro contravvenzionale per il porto fuori della propria abitazione in luogo privato! Chiaro è invece che l’espressione usata dal legislatore nel 1967 era rivolta a rendere punibile solo il porto di armi in luogo almeno aperto al pubblico e che l’espressione fuori della propria abitazione o sue appartenenze, riutilizzata dall’art. 4 L. 110/1975, non vuole vietare il porto in luoghi privati, ma solo in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Oppure si vuol sostenere che il legislatore del 1967 voleva consentire il porto di armi da guerra in luoghi privati?!
Chiaro comunque che nessuna norma punisce il porto di munizioni per armi comuni da sparo e che la legge 497/1967 vietava il porto delle sole munizioni da guerra (la legge giustamente non parla di munizioni per armi da guerra, poiché un’arma da guerra può usare tranquillamente munizioni per armi comuni, visto che le armi leggere militari impiegano generalmente munizioni comuni, salvo l’uso di particolari proiettili meno lesivi, imposti dalle convenzioni umanitarie). Inoltre la stessa introduzione della nozione di porto di munizioni è solo un sofisma concettuale perché sul piano pratico non si può distinguere il porto dal trasporto di oggetti non aventi possibilità di impiego autonomo (una pistola può essere utilizzata anche scarica, quantomeno per minacciare), tanto che per l’art. 97 Reg. TULPS il trasporto delle munizioni legalmente detenute è considerato irrilevante ai fini della sicurezza pubblica. Era quindi più logico e sufficiente vietare il trasporto di munizioni da guerra.
In molte decisioni giurisprudenziali si coglie poi l’errore concettuale di dare connotazione civilistica alla detenzione delle munizioni, intesa come semplice relazione di fatto con le munizioni o l’arma così che dal semplice possesso di un’arma carica si deduce la sussistenza del reato di illegale detenzioni di munizioni. Questa è invece una condotta necessariamente volontaria che si realizza solo in presenza di determinate condizioni (detenzione oltre un certo tempo, ad. es.) e che presuppone una precisa e duratura relazione di fatto tre le munizioni ed un luogo di detenzione e non tra le munizioni ed una persona e che deve trovare un preciso supporto probatorio, non sostituibile da semplici presunzioni. Problema che del resto si pone anche per le armi: dal porto di un’arma non denunziata non deriva automaticamente il reato di omessa denunzia di arma; ad esempio se l’arma è stata ricevuta sul luogo del delitto poco prima di esso.
L’elenco delle decisioni della S.C. che peccano di supina accettazione di superate opinioni tradizionali, vere leggende metropolitane, come quella che le pistole dei soldati italiani fossero di eccezionale potenza o che la baionetta sia un’arma da guerra, oppure che accettano la soluzione di problemi giuridici affidati a tecnici incompetenti, è molto lungo e la sentenza in esame ne fa ampia rassegna.
Si deve però anche concludere che l’art. 4 L. 110/1975, regolando solo il porto delle armi proprie ed improprie, ha inteso abolirne la loro denunzia, così come la denunzia delle armi antiche, reintrodotta solo con il regolamento di esecuzione del 14 aprile 1982. Vale a dire che anche l’art. 697 C.P. si deve interere abrogato. Questo in piena coerenza con l’elaborazione giurisprudenziale, che ha escluso la denunzia di balestre e loro dardi, e con la successiva normativa che ha escluso la denunzia delle repliche di arma ad avancarica: sarebbe ovviamente assurdo che il legislatore abbia ritenuto irrilevanti armi di costruzione e materiali moderni, controllate al banco di prova, previste per un uso intensivo, ed abbia invece conservato la denunzia della stessa identica arma costruita tre secoli fa ed in cui nessuno si arrischierebbe mai a sparare.
VI -La sentenza passa poi ad esaminare se l’obbligo posto dall’art. 38 TULPS fare denunzia di munizioni o materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità sia davvero così categorico e dimostra agevolmente che è vero il contrario.
Premesso che quando si parla di munizioni ci si riferisce alla munizione intera ed efficiente e non alle sue parti (bossolo, innesco, proiettile), che sono di libera detenzione, e fatta ampia e convincente disanima dei motivi per cui è insostenibile la tesi della Cassazione secondo cui i bossoli di munizioni da guerra sarebbero riutilizzabili, la sentenza rileva che la legge di PS considera non problematici ai fini della prevenzione di scoppi, quantitativi pari a 5 kg di polvere da sparo, di 1500 cartucce per arma lunga e di 200 cartucce per arma corta e che l’art. 98 TULPS esenta da denunzie e licenze di PS i bossoli innescati e gli inneschi per munizioni per armi di piccolo calibro, con ciò intese quelle fino a 19,1 mm.; vale a dire dagli 11 mm in su, armi tipicamente militari. Anzi attualmente i bossoli privi di innesco, anche se per armi di grosso calibro, sono esclusi dal novero dei materiali esplodenti, il che rendo problematico il considerarli parti attive di munizioni da guerra, visto e considerato inoltre che essi possono essere caricati solo con operazioni industriali non alla portata di singoli.
Questa conclusione spiega anche per quale motivo involucri di mine e gusci di bombe e simulacri di questi oggetti, siano di libera detenzione, nonostante le contrarie affermazioni di consulenti tecnici improvvisati.
Per quanto concerne le armi bianche, la sentenza rileva che dalla abrogazione implicita delle figure contravvenzionali di cui agli artt. 697 e 699 C. P. si dovrebbe poter concludere che è venuto meno l’obbligo di denunzia per tutte le armi diversi dalle armi comuni da sparo (armi bianche, armi antiche) così ripristinando nel comportamento del legislatore un filo logico altrimenti spezzato: se i legislatore liberalizza armi ad aria compressa, armi ad avancarica, armi da bersaglio da sala teoricamente letali, se ogni denunzia è ricolta ad individuare e controllare oggetti ben identificati da marchi e matricole, come può essere pretesa la denunzia di pezzi di ferro assolutamente generici e di pericolosità infinitamente minore di quella delle armi liberalizzate? Che senso ha denunziare la detenzione di due pugnali se il detentore li può sostituire in ogni momento con due pezzi di ferro appuntiti e se il pugnale è pericoloso quanto un coltello?
VII - La sentenza affronta il problema del rapporto fra l’art. 38 TULPS che impone la denunzia delle materie esplodenti e l’art. 46 che impone la licenza per i loro depositi e il rapporto fra queste norme le quelle del codice penale (art. 679 e 697) che precisano le condotte e comminano le sanzioni. Fermo restando il regime speciale delle munizioni, assimiliate quanto a denunzia alle armi, l’art. 679 C.P. puniva l’omessa denunzia di materie esplodenti solo se pericolose per la loro quantità o qualità: chiaro pertanto che quando nel 1940 il Reg. al TULPS ha dichiarato non pericolosi quantitativi fino a kg 5 di polvere da sparo o da mina, a 1500 cartucce per arma lunga e a 200 per arma corta, ed a 25 kg. di artifici, intendeva delimitare l’ambito di applicabilità degli artt. 678 e 679 C.P. ed escludere tali quantitativi (a parte le munizioni) sia da denunzia che da licenza di deposito o trasporto. Conclusione che conserva la sua piena validità e ragion d’essere per tutte quelle materie esplodenti che non si considerano rientrare nella legge del 895/1967, proprio perché non micidiali per la loro quantità o qualità (Cass. 10901/1986); principio questo che ha trovato rituale conferma in tutti i successivi provvedimenti ministeriali in materia di classificazione e regime di esplosivi (per altro inficiati da errori ed incongruenze intollerabili) e in sentenze della Cassazione (talvolta incomprese per l’inadeguatezza della massima che non ha colto il rapporto normativo fra detenzione e deposito). Fermo restando che certi esplosivi si considerano micidiali per definizione (mezzo grammo di fulminato di mercurio è sufficiente per innescare una carica di esplosivo!) così che la modestia del quantitativo rileverà solo ai fini dell’attenuante di cui all’art. 5 L. 895/1967).
Applicazione del principio generale ora visto in materia di sostanze esplodenti è stata fatta dal legislatore anche in relazione all’obbligo di denunzia delle munizioni, stabilendosi l’esenzione da denunzia delle munizioni da caccia spezzate fino al numero di mille (art. 26 L. 110/1975).
Disposizione contorta linguisticamente e concettualmente, frutto delle nozioni approssimative dei legiferatori (è noto l’aneddoto secondo cui mandarono un usciere del Parlamento in armeria a comperare una scatola di cartucce perché non sapevano quante ve ne fossero in una confezione!), il che rende arduo individuare quali armi rendano legittima la detenzione della cartucce (la sentenza propende per la tesi che occorra detenere anche armi da caccia a canna liscia), specie se si considera che le armi da caccia possono essere prese in comodato per cui non è necessario detenerle contemporaneamente alla armi.
La sentenza rileva anche la correttezza del dato ormai acquisto fra gli esperti, secondo cui la dicitura “munizioni per armi da caccia” equivale alla dicitura “munizioni per armi lunghe” e che la distinzione fra esse e le munizioni per arma corta va fatta su basi tecniche e storiche e non in relazione all’arma occasionalmente destinata ad impiegarle. Chiarisce che la licenza di deposito va richiesta quando si superi il quantitativo di legge anche in relazione ad una sola categoria di munizioni (ad es. 201 cartucce per arma corta).
In complesso una normativa caotica e senza un filo logico, che spende inutili energie per controlli di PS su di un prodotto di rapido ed incontrollabile consumo e ricaricabile al di fuori di ogni possibilità di controllo!
E’ quindi incomprensibile perché tanti uffici di PS si affannino ad imporre limitazioni alla facoltà di acquistare munizioni nella misura necessaria mediante timbri apposti sulle licenza di porto d’armi; timbri del tutto illegittimi per la mancanza di motivazione e per la modifica del contenuto della licenza normativamente previsto; ma gli uffici di PS non sono nuovi a queste illecite forzature della legge in danno dei diritti dei cittadini; si pensi ai tentativi fatti (e giustamente stroncati dalla Cassazione) negli ultimi 30 anni, alterando con timbri il modello ufficiale della licenza di porto di fucile per attribuirgli valore solo di licenza di caccia, mentre la legge prevede espressamente che esso abbia valore anche per uso di caccia.
Chiudendo i cerchio del ragionamento, la sentenza rileva come correttamente la Cassazione, sia pure con qualche incertezza nella indicazione delle norme e con un errato collegamento all’art. 26 L. 110/1975, abbia colto il principio per cui la denunzia della polvere da sparo fino la quantitativo di 5 kg non è mai dovuta.
Infine il quadro normativo complessivo porta a concludere che la limitazione della esenzione delle munizioni da caccia da denunzia sia stata limitata dalla legge 110/1975 a quelle spezzate solo per una errata valutazione della situazione globale, con conseguente disparità di trattamento fra due tipi di munizioni da caccia del tutto analoghi, così che una interpretazione conforme ai principi costituzionali dovrebbe portare ad affermare che la legge sulla caccia 157/1992, rimodulando la definizione di munizione da caccia, ha esteso l’esenzione ad ogni tipo di munizione consentita per uso venatorio in Italia.
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
Con decreto penale emesso il 25/5/2005, notificato il 9/6/2005, il Giudice per le indagini preliminari in sede condannava **** Giovanni alla pena di €. 100,00 di ammenda per detenzione illegale di n. 16 cartucce cal. 12 caricate a palla, avendone omesso la denuncia in violazione di quanto prescrive l’art. 38 T.U.L.P.S. il cui assetto sanzionatorio è disciplinato dall’art. 697/1° c. C.P..
A seguito di rituale opposizione, proposta in data 14/6/2005, il ****, con decreto emesso il 4/7/2005, veniva citato a comparire avanti a questo Tribunale in composizione monocratica per rispondere del reato contestato con il provvedimento opposto.
In esito all’odierno pubblico dibattimento, revocato il decreto penale di condanna, il P. M., esposti i fatti oggetto dell’imputazione, chiedeva ammettersi l’esame dei due testi di lista. Analoga prova in controesame riservava il difensore. Ammesse le prove, il P. M., espletato l’esame di uno dei due verbalizzanti, rinunciava, nulla opponendo il difensore, all’esame dell’altro e produceva documentazione. Indi, le parti rassegnavano le conclusioni trascritte a verbale.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I
All'esito della compiuta istruzione dibattimentale, ritiene questo decidente che il **** debba essere mandato assolto dal reato ascrittogli con la terminativa specifica dell’insussistenza del fatto non essendo dato di ravvisare nella sua condotta alcunché di illecito penalmente rilevante: e ciò in conseguenza di un’interpretazione coordinata, sistematica, logica e letterale scaturente dal combinato disposto dell’art. 26 L. 110/75 e dell’art. 13, 1° c., L. 157/92 (vertente sulla disciplina dei mezzi per l’esercizio dell’attività venatoria) che rende lecita l’inclusione, ratione materiae, tra le mille cartucce indicate dall’art. 26 cit. - per le quali non vi è obbligo della denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. allorché si possiedano armi regolarmente denunciate – non soltanto di quelle a munizione spezzata ma anche, alla medesima condizione, di quelle a palla “unica” o “asciutta” o “slug”, espressioni con le quali viene generalmente denominata la cartuccia allestita con un solo proiettile. Per essere più precisi la prima (palla unica) viene indifferentemente riferita sia alle armi lunghe e corte con canna ad anima rigata, mentre la seconda (palla asciutta) – derivata da un’impropria traduzione del termine anglosassone “slug” – è ormai entrata con quest’ultimo significato nel linguaggio comune per indicare le cartucce a palla unica adoperate ricorrentemente nelle armi lunghe ad anima liscia per la caccia agli ungulati e, segnatamente, al cinghiale.
Dalle dichiarazioni rese dal verbalizzante è emerso che questi, nel corso di un servizio finalizzato al controllo del territorio, fermata l’autovettura condotta dall’odierno imputato, notava al suo interno la presenza di un fucile semiautomatico cal. 12 marca Winchester e di una cartucciera ove erano alloggiate n. 16 cartucce di identico calibro caricate a palla. Richiesto in tal senso, il **** esibiva valida licenza di porto di fucile per arma lunga a più di due colpi per difesa personale. Effettuati gli accertamenti di rito, emergeva che il fucile risultava regolarmente denunciato unitamente ad altre armi; non così il munizionamento a palla a corredo dell’arma (le 16 cartucce, cioè), donde il sequestro delle stesse e la conseguente imputazione elevata a suo carico per il reato di detenzione illegale di munizioni di cui all’art. 697 C.P.scaturente dall’asserita violazione dell’art. 38, 1° c., T.U.L.P.S..
Tale situazione veniva documentata in dibattimento dalla produzione di copia della denuncia delle armi ove, per l’appunto, risultava annotato soltanto il possesso di due armi lunghe (una delle quali quella portata dal **** in macchina) e di una pistola semiautomatica, ma non quello delle cartucce a palla cal. 12 sottoposte a sequestro.
II
Prima di passare ad illustrare le ragioni sulle quali fonda la pronuncia assolutoria, ritiene questo decidente che la vicenda offra lo spunto per ribadire ancora una volta in via generale l’autonomia normo-concettuale e processual-probatoria della condotta giuridica di detenzione rispetto a quella di porto nei termini di un assoluto divieto di presunzione della sussistenza della prima desunta dalla realizzazione della seconda, in difformità, pertanto, del ricorrente orientamento espresso al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità.
Nello specifico, l’impostazione accusatoria si è snodata proprio nella direzione della cennata autonomia posto che, pur muovendo dal contesto di un’accertata condotta di porto di munizioni, è risultata basata – attraverso una serie di elementi probatori convergenti - sulla dimostrazione dell’effettiva esistenza di una pregressa condotta di detenzione delle munizioni secondo il vigente schema normativo, con esclusione, pertanto, di qualunque presunzione della sua sussistenza mutuabile da quella di porto. Ciò che basta, come si diceva, per soffermarsi ad esaltarne la correttezza e per sottolineare le ragioni della assoluta non condivisibilità del riferito indirizzo giurisprudenziale, riguardante, ancor prima delle munizioni, le armi e le materie esplodenti in genere.
Come emerge dalla descrizione dei fatti, la condotta venuta in considerazione nell’immediatezza è stata quella di porto di munizioni comuni che, tuttavia, non ha formato oggetto di contestazione (oltre quella di porto dell’arma, risultata lecita). La vicenda in esame offre pertanto anche l’opportunità di verificare se tale omissione sia ascrivibile alla mancanza di una previsione normativa che vincoli tale condotta al rilascio di una preventiva licenza da parte dell’Autorità di P.S. e, quindi, non ad una mera dimenticanza dell’organo d’accusa. Peraltro, anticipandosi sin d’ora l’esclusione di quest’ultima evenienza, un dato certo è che l’argomento - pur di non secondaria rilevanza a motivo del frequente verificarsi di persone trovate a portare addosso o nell’autovettura munizioni comuni – non ha mai formato oggetto di elaborazione giurisprudenziale, se non di tipo episodico; situazione scaturente proprio dal cennato orientamento giurisprudenziale, fondato sulla sistematica individuazione nella condotta di porto della presunta coeva sussistenza di quella di detenzione, refluente, con riguardo alle munizioni comuni, in un’inammissibile rimedio sanzionatorio per una condotta che ne è priva in quanto lecita (è punita, infatti, soltanto quella di detenzione illegale di munizioni comuni giusta la previsione di cui all’art. 697/1° c. C.P.).
III
Prendendo le mosse dalla seconda opportunità che offre l’argomento in trattazione, va detto che le uniche condotte di porto disciplinate dal Codice Penale nel § 4 del Libro III erano quelle previste dall’art. 699 C.P., riguardante esclusivamente le armi da sparo comuni (699/1° c.) e da guerra(699/2° c.), il bastone animato (artt. 699/1° c. - 42/3° c. T.U.L.P.S. ) e le armi da punta e da taglio da guerra (artt. 699/2° c. -33/1°c. Reg. al T.U.L.P.S. ), ma non le munizioni, né comuni né da guerra.
Deve brevemente darsi conto che la ragione per cui dell’art. 699 C.P.si parla al passato è che tale norma deve ritenersi di fatto abrogata in ogni sua parte dalle speculari disposizioni introdotte successivamente dalle leggi speciali in materia, dal momento che:
- il porto illegale delle armi da sparo c.d. “comuni” già previsto dall’art. 699/1°c. C.P., è infatti oggi disciplinato dall’art. 14/1° c. L. 497/74 (che ha sostituito l’art. 7/1° c. della L. 895/67);
- quello delle armi da sparo c.d. “da guerra” già previsto dall’art. 699/2° c. C.P. è oggi disciplinato dall’art. 12/1° c. L. 497/74 (che ha sostituito l’art. 4 della L. 895/67). La previsione in seno all’art. 699/2°c. C.P. delle armi da sparo c.d. “da guerra”, per le quali, come oggi, non è ammessa licenza nemmeno ministeriale, era conseguente all’omissione della disciplina del loro porto in seno all’art. 28 del T.U.L.P.S., che invece regolava tutte le altre condotte che le concernono (si rammenta che la legge-delega relativa al T.U.L.P.S. veniva emanata nel gennaio 1928 e che il Codice Penale veniva approvato nell’ottobre del 1930 con entrata in vigore nell’anno successivo).
- le ipotesi aggravate di porto disciplinate dall’ultimo comma dell’art. 699 C.P., sono state sostituite rispettivamente da quelle riportate nell’art. 12/2°c. L. 497/74 (che ha sostituito l’art. 4/2° c. della L. 895/67) per le armi da sparo c.d. “da guerra”, e ancora dall’art. 14/1° c. L. 497/74 (che ha sostituito l’art. 7/1°c. L. 895/67) quando il fatto si riferisce alle armi c.d. “comuni”;
- quello del porto delle armi c.d. “bianche” autorizzabile con licenza (l’unica tipologia è quella desueta dei bastoni animati indicata dal 3° comma dell’art. 42 T.U.L.P.S. ), previsto e punito dal 1° comma dell’art. 699 C.P., è oggi disciplinato dall’art. 4/1° c. L. 110/75 (“Salve le autorizzazioni previste…”;
- quello del porto delle armi c.d. “bianche” da guerra (sciabole, baionette, etc.) previsto dall’art. 33 Reg. cit. e sanzionato dall’art. 699/2° c. C.P., unitamente, a tutto concedere - in ragione di orientamenti giurisprudenziali che mutuavano argomenti in merito dall’art. 42/3 c. T.U.L.P.S. - al porto delle armi c.d. “bianche” comuni (pugnali, stiletti, etc.), di cui agli artt. 30 n. 1 T.U.L.P.S. e 45/1° c. del relativo Regolamento, non autorizzabile, come le prime, e, quindi, vietato in assoluto, è oggi disciplinato (previa opportuna purgazione a mezzo dell’art. 1 L. 110/75 della qualifica “da guerra” ad ogni arma c.d. bianca) dal 1° comma dell’art. 4 della L. 110/75 ove tali manufatti vengono per l’appunto qualificati “armi” ed ivi indicati unitamente agli oggetti di cui all’abrogato 1° comma dell’art. 42 T.U.L.P.S. di cui, come per i primi, è assolutamente vietato il porto;
- l’ipotesi aggravata, infine, di cui all’ultimo comma dell’art. 699 C.P., concernente – sempre a tutto concedere – anche il porto delle armi bianche, sono state sostituite, in seno all’art. 4/4° c., L. 110/75, da due ipotesi autonome di reato che sanzionano esclusivamente il loro porto, con e senza licenza, nelle “pubbliche riunioni” (che, a scanso di equivoci, è espressione di evidente specialità rispetto a quella più ampia e generica di “luogo ove sia concorso o adunanza di persone” di cui al 3° c. dell’art. 699 C.P.).
Con specifico riguardo poi alle armi c.d. bianche il cui porto è vietato in modo assoluto (se ne parla per introdurre la prospettiva di un’operatività prescrizionale dell’art. 38/1° c. T.U.L.P.S. anche nei riguardi di tali manufatti che, per le ragioni di cui si dirà a breve, deve ritenersi del tutto esclusa), emerge invece una posizione esegetica giurisprudenziale che continua a collocare la condotta del loro porto illegale in seno al richiamato art. 699/2°c. C.P..
Tale indirizzo, che a seguito dell’entrata in vigore della L. 110/75, risulta sorretto da una patente artificiosità, ha in sostanza inteso attribuire un’operatività residuale alla norma codicistica in questione (all’art. 699/2° c. C.P., cioè), correlata tuttavia alle sole “armi” il cui porto è vietato in modo assoluto, con tale specifica espressione globalizzate nel 1° c. dell’art. 4 L. 110/75 (e, cioè, quelle c.d. “bianche” come baionette, sciabole, pugnali, stiletti e tutte le altre che, a prescindere dall’eventuale meccanismo di cui potrebbero essere dotate per l’apertura della lama, al riguardo ininfluente, ne ripropongono l’assetto strutturale, estrapolandole dagli altri oggetti indicati nel medesimo comma, il cui porto è ugualmente vietato in modo assoluto. Per le prime si è enunciato infatti - nonostante data per ammessa la loro inequivocabile previsione precettiva in seno al 1° comma dell’art. 4 cit. rappresentata per l’appunto dall’adozione del termine “armi” – un’autonoma diversa dislocazione di sanzione, individuata, come detto, nell’art. 699/2° c. C.P. (v., ad es., Cass. Pen., Sez. I, 31/8/94, n. 745, Natilla), laddove - in ossequio all’implicito principio di immediata interazione che, salvo puntuali ed espresse eccezioni, deve esistere tra precetto e sanzione, quest’ultima risulta invece sistemata nel corpo dello stesso art. 4 cit. e, più precisamente, nella prima parte del suo terzo comma. Quanto poi un’interpretazione del genere sia pure affetta da evidente dismorfia sistematica, si coglie in tutta la sua portata dovendosi constatare che, in un primo momento, l’operatività sanzionatoria residuale dell’art. 699/2° c., C.P., era stata riferita anche a tutti gli altri “ oggetti “ indicati nel 1° c. dell’art. 4 cit. (e ciò, pur nella sua persistente incongruenza, poteva apparire quanto meno coerente con l’interpretazione adottata); ma non appena ne è stata minata la consistenza osservandosi agevolmente che la previsione dell’attenuante della “lieve entità” di cui al successivo 3° comma era riferibile al solo porto degli oggetti atti ad offendere (Cass. Pen., 30/1/1980, Rigamonti) per cui non era dato di comprendere di quali altri oggetti il porto rimaneva escluso da tale beneficio se non, per l’appunto, di tutti gli altri indicati nel primo comma, punibile, pertanto, con la pena prevista nella sua prima parte, l’indirizzo in questione è stato, come si è detto, inspiegabilmente limitato alle “armi” indicate nel 1° c. dell’art. 4 cit. (pugnali, stiletti, etc.) per le quali si è continuato a sostenere la persistente vitalità del regime sanzionatorio dettato dall’art. 699/2° c., C.P.., in assenza di un qualunque minimo addentellato normativo che in qualche modo potesse legittimare una siffatta interpretazione. La quale si rivela vieppiù incomprensibile se si considera che quando il legislatore ha voluto differenziare il trattamento sanzionatorio per le sole “armi” c.d. bianche lo ha fatto esplicitamente, ma sempre in seno all’art. 4 della L. 110/75, in un quadro volto a disciplinare unitariamente la materia: ciò che è accaduto, per l’appunto, con riguardo al loro porto nelle riunioni pubbliche, tenuto distinto, in tale contesto, sia dal porto degli strumenti di cui al comma 1 pure assolutamente vietato, sia dal porto ingiustificato di quelli indicati nel comma 2.
Finalità colta dagli stessi Giudici di legittimità (Cass. Pen., Sez. I, n. 5052/1984, Linaroli) in altra precedente decisione che dà ragione di quanto si sostiene e della conseguente situazione paradossale creata dall’orientamento che si avversa, nella quale, con lucida esposizione e con percorso argomentativo ineccepibile sotto il profilo logico e giuridico, era stata già messa in evidenza la chiarissima (una volta tanto) volontà legislativa di disciplinare ex novo la materia blindando all’interno dell’art. 4 cit. tutto ciò che concerne la sola condotta di porto delle armi c.d. “bianche” e degli oggetti il cui porto è vietato in modo assoluto, degli strumenti da punta e da taglio e degli oggetti e strumenti atti ad offendere, affrancando la loro mera detenzione da qualunque autorizzazione di P.S. od obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. stante che il divieto, assoluto o relativo che sia, risulta ristretto soltanto alla condotta di porto (contrariamente a quanto sostenuto da Cass. Pen., Sez. I, 27/11/89, n. 1839, Cenacchi), non si comprende infatti a quali dati identificativi ex 57 e 58 Reg. al T.U.L.P.S. dovrebbe farsi riferimento in denuncia dal momento che le armi c.d. “bianche” di norma non ne possiedono, il che canalizza irreversibilmente la certezza che l’art. 38 T.U.L.P.S. ha sempre disciplinato esclusivamente l’obbligo di denuncia delle armi da sparo, oltre che delle munizioni e degli esplosivi (ma il discorso porterebbe lontano e non interessa in particolare questa sede); e conferendo, tutt’al più, all’interprete la sola libertà di muoversi entro gli invalicabili confini di tale norma per una consona e realistica qualificazione al passo con i tempi di tali manufatti, ovverosia, solo per fare qualche esempio, per stabilire se sia sennato considerare ancora oggi “armi” una sciabola, una baionetta, un’alabarda ed altro di consimile o non piuttosto strumenti da punta e da taglio (come sostenuto nella decisione resa con riguardo alla balestra, o meglio, ai suoi dardi da Cass. Pen., Sez. I, 1/7/94, n. 7494, Moro, con posizione di un puntuale e granitico principio generale implicitamente estensibile per conseguenza anche agli oggetti che precedono), o, per per rendersi conto che il blocco-lama di cui sono dotati la maggior parte di coltelli non comporta – in virtù di quale alchimia non è dato sapere - la loro trasformazione in pugnali e, quindi, in “armi bianche” (in questo senso inopinatamente Cass. Pen., Sez. I, 17/2/96, n. 115, Auguliaro), datosi che la struttura originaria e morfologica di “coltello” posseduta dai medesimi rimane integra, e che la predisposizione di tale congegno è unicamente finalizzata ad evitarne la chiusura accidentale durante il loro uso, sovente causa di profonde ferite alle mani; o, infine, che tale trasformazione è esclusa, restando anche qui integra la loro struttura originaria e morfologica, per quei coltelli dotati di congegno di apertura a molla o di apertura assistita che si rivelano di indubbia utilità allorché una delle due mani risulta impegnata dall’oggetto da tagliare o per altre ragioni.
Per non dire che il contestato percorso giurisprudenziale sopra richiamato è reso ulteriormente impraticabile dal fatto che esso non tiene conto che le due ipotesi più gravi di porto delle armi c.d. “bianche” nelle pubbliche riunioni risultano regolarmente disciplinate e sanzionate all’interno dell’art. 4 della L. 110 cit.; evenienza, questa, che rende impossibile attribuire una precisa ragione (se non, come rilevato, di rango arbitrario) alla pretesa esclusiva diversità di allocazione sanzionatoria per l’ordinaria e meno grave ipotesi di porto illegale delle armi c.d. “bianche” in seno ad altra disposizione per di più previgente (e, cioè, nell’art. 699/2° c., C.P.). E senza pregio sarebbe l’obiezione che le predette ipotesi aggravate fanno riferimento solo alle armi c.d. “bianche” per le quali è ammessa licenza dal momento che, così ragionando, si legittimerebbe la mancata copertura precettiva e sanzionatoria per il porto nelle pubbliche riunioni delle armi c.d. “bianche” per le quali non è ammessa alcuna licenza. Premesso infatti che un fatto giuridicamente certo anche per la giurisprudenza è che le “ armi” di cui all’art. 4 della L. 110/75 sono soltanto quelle c.d. “bianche” (le ipotesi di porto illegale di armi da sparo c.d. “ comuni e da guerra “ sono infatti, come si è visto, disciplinate quali delitti dalla L. 895/67 come successivamente modificata, ivi compresa la speculare aggravante di porto in luogo in cui sia concorso o adunanza di persone), e premesso ancora che, in definitiva, nonostante la clausola di salvezza contenuta al plurale in apertura del 1° c. dell’art. 4 della L. 110/75, l’unica autorizzazione di cui all’art. 42 del T.U.L.P.S. (o licenza, visto che il legislatore adopera tali termini in modo indifferenziato) ammessa per le armi c.d. “ bianche” concerne soltanto l’atavica e desueta ipotesi del porto di bastone animato, ciò premesso, non può esservi alcun dubbio che l’altra ipotesi di porto nelle riunioni pubbliche prevista dalla seconda parte del 4° c. dell’art. 4 della L. 110/75 fa necessariamente riferimento a tutte le “armi” c.d. bianche portate senza licenza (quindi, non soltanto ai bastoni animati portati senza licenza ma anche ai pugnali, agli stiletti, etc.) a prescindere dal fatto che questa sia concedibile o meno, come del resto può agevolmente desumersi dal contenuto del successivo comma 5° dell’art. 4 della L. 110/75 che prevede e punisce residualmente il porto nelle pubbliche riunioni di tutti gli altri strumenti indicati nei precedenti 1° e 2° comma (tolti, infatti, dal 1° comma gli strumenti ivi elencati, residuano senza distinzione tutte le “armi” c.d. bianche, il cui porto va comunque considerato senza licenza, sia nell’ipotesi in cui, pur essendo concedibile - solo per il bastone animato - di fatto non è stata conseguita, sia nell’ipotesi in cui non ne è concedibile alcuna.
Ma la via è aperta per un’ulteriore critica all’orientamento in discorso ed è offerta dalla previsione dell’aggravante del fatto commesso “nel corso o in occasione di manifestazioni sportive” introdotta in seno all’art. 4/3°c., L. 110 cit. dalla L. 377/2001. Se fosse vero infatti che la sanzione di cui alla prima parte del 3° comma dell’art. 4 è riferibile soltanto al porto degli strumenti di cui ai precedenti 1° e 2° commi e non anche alle armi c.d. “bianche”, che sarebbero invece presidiate dalla pena prevista dal 2° c. dell’art. 699 C.P., ne risulterebbe che l’aggravamento in questione sarebbe applicabile solo alla pena prevista per il porto illegale di detti strumenti, ma non al porto di un’arma c.d. “bianca” nel riferito contesto sportivo, che, conseguentemente, ne andrebbe paradossalmente indenne.
Solo per completezza deve dirsi che l’insistenza con la quale da parte della giurisprudenza di legittimità si è cercato di attribuire ad ogni costo residua vitalità all’art. 699 C.P. ha toccato punte davvero impensabili con la posizione di altra interpretazione rivelatasi fortemente in debito con la precisa volontà legislativa di rinnovare in radice l’assetto di alcune condotte illecite in tema di armi o di introdurne altre, sia pure con risultati alquanto dubbi in ragione di una superficiale conoscenza dei profili tecnici sottesi alle definizioni normative e di un insufficiente coordinamento tra le norme del Codice Penale e del T.U.L.P.S. e relativo Regolamento da un lato e le nuove leggi dall’altro. Muovendo da una pretesa diversità concettuale dell’espressione “ …fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa…” contenuta nei primi due commi dell’art. 699 C.P., rispetto a quella “…in luogo pubblico o aperto al pubblico…” contenuta nell’art. 4 L. 895/67 e - per il richiamo che ivi se ne fa - nel successivo art. 7, la giurisprudenza di legittimità ha riesumato, facendo leva sulla prima espressione, l’ipotesi contravvenzionale di porto illegale di arma comune da sparo di cui all’art. 699/1° c. C.P. (cui, per necessitata coerenza, dovrebbe essere accoppiata quella di porto di arma da guerra prevista dal 2° comma di tale disposizione). In altri termini, prima dell’entrata in vigore delle due leggi che le tramutavano in delitti, le condotte di porto illegale di arma da sparo c.d. “comune” (art. 699/1°c. C.P.) e di porto di arma da sparo c.d. “ da guerra “ (art. 699/2°c. C.P. – si è già detto delle ragioni per cui queste rientravano necessariamente nella previsione di tale comma) dovevano considerarsi realizzate allorché le stesse fossero state portate “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa”; poiché le nuove leggi regolatrici di tali condotte, elevate a delitto, le avevano ritenute realizzabili allorché i due tipi di armi fossero state portate “in luogo pubblico o aperto al pubblico”, la giurisprudenza di legittimità, anziché ravvisare nelle disposizioni novellate – com’era normale che fosse e come disponeva l’art. 14/2° c. L. 497/74 – una tacita totale abrogazione delle due condotte contravvenzionali di porto per incompatibilità con le nuove che disciplinavano gli stessi fatti delittuosi, ha attribuito una residua vitalità ai primi due commi dell’art. 699 C.P. inferendola dall’asserita diversità di espressione di luogo che qualifica le condotte punibili nella normativa speciale. Pertanto, secondo tale indirizzo, sarebbero oggi ipotizzabili al riguardo le seguenti condotte:
a) quella (art. 699/1° c. C.P.) di porto illegale di arma da sparo c.d. “comune” fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa (contravvenzione);
b) quella (art. 699/2° c. C.P.) di porto di arma da sparo c.d. “da guerra” fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa (contravvenzione); per la verità le occasioni presentatesi alla giurisprudenza di legittimità in fase di collaudo e di reiterazione dell’orientamento in questione hanno riguardato le armi da sparo c.d. “comuni”, ma, come si diceva, il principio di fondo dovrebbe essere valido, per necessitata coerenza, anche per le armi da sparo c.d. “da guerra” risultando adoperata per esse dal 2° comma dell’art. 699 C.P. ancora l’espressione “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa”, dal momento l’art. 2 della L. 895/67 disciplina l’ipotesi del porto illegale delle armi da guerra “in luogo pubblico o aperto al pubblico”;
c) quella (artt. 4 e 7 L. 895/67 come succ. mod.) di porto illegale di arma da sparo c.d. “comune” in luogo pubblico o aperto al pubblico (di rango delittuoso);
d) e quella (art. 4 L. 895/67 come succ. mod.) di porto illegale di arma da sparo c.d. “da guerra” in luogo pubblico o aperto al pubblico (di rango delittuoso).
Quanto all’identificazione concreta dei luoghi diversi da quelli pubblici o aperti al pubblico esulanti l’abitazione o le appartenenze di essa, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto di individuarli, ad es., nell’azienda e nei fondi recintati (Cass. Pen., Sez . I, n. 198003952, Carta; ibidem, n. 198405601, Scalvini; ibidem, n. 199506880, P. M. in proc. Pittelli).
Detto questo, sono sufficienti un paio di considerazioni per rilevare l’incongruità dell’indirizzo giurisprudenziale sin qui illustrato e per rendersi, in conseguenza, conto di come risulti del tutto arbitraria, anche in questa direzione, la scelta di assegnare ad ogni costo residua vitalità ai primi due commi della norma contravvenzionale in discorso. La prima: nulla di tutto ciò si rinviene nei lavori preparatori delle leggi che mutavano l’assetto sanzionatorio delle condotte di porto illegale; peraltro, non sembra proprio che nella mente del legislatore del ’67 potesse esservi il pur minimo spazio – pena una pesante contraddizione in termini - per ipotesi contravvenzionali concernenti le armi da sparo c.d. “da guerra” se si considerano le pressanti ragioni di urgente tutela dell’ordine pubblico (tralasciando qui qualunque considerazione sulla giustezza ed efficacia di tali reattivi rimedi) poste a fondamento dell’inasprimento qualitativo e quantitativo del loro pregresso regime sanzionatorio (gli attentati ai tralicci di matrice altoatesina degli anni sessanta e la recrudescenza del fenomeno mafioso sfociato, solo per fare un esempio, nella strage di Ciaculli nel Giugno del 1963); ed analoga considerazione non può non valere per le armi da sparo c.d. “ comuni” allorché il legislatore del ’74 decideva di mutare anche per queste il loro assetto giuridico elevando le condotte di porto (e di tutte le altre) da contravvenzioni a delitti a seguito dell’incalzare del fenomeno eversivo. Figurarsi se, in questo quadro, poteva esservi spazio - giova ripetere - per lasciare in vita ipotesi residuali contravvenzionali di (detenzione e di) porto d’armi da sparo c.d. da guerra e c.d. comuni.
La seconda: la volontà di attribuire all’espressione “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa” un significato diverso da quella di “in luogo pubblico o aperto al pubblico” per sostenere la residua vitalità dei primi due commi dell’art. 699 C.P. si pone in stridente contrasto con la disciplina dei divieti (assoluto) del porto di armi c.d. “bianche” ed oggetti equiparati e (relativo) del porto ingiustificato di strumenti da punta o da taglio o di oggetti e strumenti atti ad offendere sanciti dall’art. 4, 1° e 2° c., C.P., avendo il legislatore del ’75 adoperato per tali condotte nuovamente e solo l’espressione “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa” e non diversificando per esse nella stessa disposizione od in altro contesto normativo quelle realizzabili “in luogo pubblico o aperto al pubblico”. Quanto dire, cioè, che – se dovesse darsi credito al radicale distinto significato che, secondo l’orientamento giurisprudenziale in questione, va attribuito alle due espressioni – il porto di un’arma c.d. bianca o quello ingiustificato di un coltello o di strumenti ed oggetti atti ad offendere sarebbero punibili se realizzati in luoghi diversi della propria abitazione o delle appartenenze di essa - intermedi tra quelli definibili abitazione o appartenenze e quelli definibili luoghi pubblici o aperti al pubblico - ma non in quest’ultimi non essendo tale previsione disciplinata per tali manufatti da alcuna norma di legge.
Conseguenza priva di senso logico e, come tale, inaccettabile.
Il vero è che le due espressioni sono, sotto il profilo concettuale, del tutto equivalenti ed in questa prospettiva sono state e vengono adoperate dal legislatore: una invero indica che tutti i luoghi non qualificabili abitazione o appartenenza della stessa sono da considerare implicitamente luoghi pubblici o aperti al pubblico; l’altra esplicita invece tale concetto in modo diretto e puntuale riservando esclusivamente al luogo pubblico o aperto al pubblico la soglia della punibilità delle condotte di porto illegale. Altra questione è – sempre tenendo ferma la loro identità concettuale – stabilire quale delle due espressioni sia più idonea ad attribuire loro un significato più univoco: può certamente propendersi per la seconda che, consentendo di escludere le incongruenze applicative cui ha dà luogo l’adozione della prima, si propone come interpretazione autentica di quest’ultima. E la riproposizione della prima espressione in seno all’art. 4 della L. 110/75 – che indurrebbe prima facie a non andare oltre la spiegazione sopra esplicitata e, cioè, che il legislatore le abbia adoperate entrambe con lo stesso significato – non contraddice, anzi rafforza, tale convincimento, se si tiene nel debito conto che essa (la riproposizione, cioè) costituisce la palmare conseguenza di uno dei tanti cali di attenzione del frettoloso legislatore ’75 al quale - concependo la L. 110 nel contesto emergenziale creato dai frequenti fenomeni di terrorismo – sfuggiva di mente la modifica apportata al riguardo dal legislatore del ’67 nel corpo della L. 895, reiterata nel ’74 in seno alla L. 497, “copiando” pedissequamente il contenuto dei primi due commi dell’art. 42 del T.U.L.P.S. ove l’espressione adoperata era, per l’appunto, quella “fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa”, contestualmente abrogandoli e trasfondendoli nell’art. 4 della L. 110, ed ampliando, al 2° comma, il novero degli oggetti - il cui porto sarebbe stato considerato legittimo solo per giustificato motivo - con quelli adoperati nei disordini di piazza di quegli anni.
IV
Quindi, tornando all’argomento di cui al punto III, nessuna licenza o autorizzazione è prescritta da alcun testo di legge vigente in materia - e, segnatamente, nel Codice Penale - per il porto delle munizioni c.d. “comuni”, condotta che, conseguentemente, è da considerare del tutto lecita. Condotta che non veniva ritenuta penalmente rilevante nemmeno allorquando – constatatasi dopo la fine del secondo conflitto l’esistenza e la circolazione clandestine di cospicue quantità di armi e munizioni comuni e da guerra, di esplosivi, aggressivi chimici e di altri congegni micidiali in tutto il territorio dello Stato, si cercava di porvi rimedio (circostanza poco nota) attraverso l’emanazione del D. P. R. n. 1184 del 19/8/1948, intimandone, per un verso, l’immediata consegna, pena la reclusione da uno a cinque anni oltre la multa (art. 3) e, per l’altro, elevando a delitti puniti con sanzioni severissime – ciò fino al 30/6/1949 e poi fino 31/12/1950 (periodo poi prorogato fino al 31/12/1952) - tutte le contravvenzioni concernenti le condotte più rilevanti in materia di armi, munizioni ed esplosivi, disciplinate dal T.U.L.P.S. e dal Codice Penale, del quale ultimo veniva specificamente sospesa l’applicabilità degli artt. 420, 695/1° c., 698 e 699. Ed invero, anche in questo eccezionale contesto, l’art. 4 del D. P. R. nulla disponeva in ordine al porto delle munizioni c.d. “comuni” prendendo in considerazione al 1° comma solo il porto di tale tipologia di armi. E lo stesso è a dirsi con riguardo al porto delle munizioni c.d. “da guerra”, il cui divieto sarebbe stato espressamente sancito per la prima volta dall’art. 4 della L. 895/67 che, nel configurare direttamente come delitto la sua violazione, lasciava immutata la qualifica di contravvenzioni posseduta dalle condotte vietate disciplinate dal Codice Penale relativamente alle armi ed alle munizioni c.d. “comuni”, limitandosi al successivo art. 7 a raddoppiarne le pene. È certo infatti che, prima dell’entrata in vigore di tale ultima normativa, l’art. 699 C.P. - oltre a sanzionare, come si è detto, esclusivamente il porto illegale delle armi per le quali è ammessa licenza (e, cioè, le armi c.d. comuni - 1° c.) – al 2° comma puniva anche quello illegale delle armi per cui questa non era ammessa (e, cioè, le armi da guerra, essendo la licenza ministeriale prevista dall’art. 28 T.U.L.P.S. solo per la loro detenzione e per quella delle relative munizioni) ma non il porto dell’omonimo munizionamento.
Quindi, per riassumere e limitando la questione per quel che qui interessa alle munizioni c.d. comuni, la condotta del loro porto non è mai stata disciplinata né dal Codice Penale, né, successivamente, dalla L. 497/74 che, integrando la L. 895/67, conferiva, a mezzo dell’art. 7, la qualifica di delitti anche alle condotte di detenzione e porto illegali di armi da sparo c.d. “ comuni “ tacendo sulle omonime condotte relative alle loro munizioni: con la conseguenza che quella del loro porto è rimasta priva di regolamentazione e quella della loro detenzione illegale ha continuato ad essere disciplinata dall’art. 697 C.P..
Una spiegazione plausibile e razionale di tale omessa previsione è davvero ardua, dovendosi riflettere che, allo stesso modo in cui il legislatore del ’30 avvertiva la necessità di sanzionare in seno all’art. 697, unitamente alle armi, l’illegale detenzione delle munizioni per omessa denuncia delle stesse, allo stesso modo - trattandosi per di più di condotta più grave – avrebbe potuto provvedere contestualmente a disciplinarne in via generale l’illegale condotta di porto. In concreto, così come l’art. 697/1°c. C.P. (oggi rimasto in vigore solo per le munizioni) punisce chi le detiene “…. senza averne fatto denuncia all’Autorità quando la denuncia è richiesta…”, anche nel corpo dell’art. 699/1° c. C.P. (oggi tacitamente abrogato in toto dalla successiva normativa in materia) avrebbe potuto essere previsto, unitamente a quello delle armi, anche il divieto di porto delle munizioni, sanzionandosi in conseguenza la condotta di chi, senza la licenza dell’Autorità, quando la licenza è richiesta, avesse portato (un’arma o) munizioni fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa. Né in prosieguo vi provvedeva il legislatore del ’74 con norma apposita o attraverso un’integrazione del 1° comma dell’art. 699 C.P. (vi sarebbe stata, almeno per questa parte, seria ragione di ritenerlo ancora in vita), pur avendo sotto gli occhi, allorché modificava sensibilmente l’assetto normativo introdotto dal legislatore del ’67, che questi aveva provveduto (per la prima volta) a disciplinare come delitto il porto illegale delle munizioni da guerra.
Tale omissione potrebbe soltanto trovare spiegazione nell’essersi il legislatore prefigurato che, essendo il porto delle munizioni contestuale a quello dell’arma costituendone necessario corredo, la liceità del porto di quest’ultima si sarebbe estesa a quello delle munizioni e, per converso, il porto illegale dell’arma avrebbe assorbito quello delle relative munizioni: ma pur essendo tale prospettazione condivisibile, è oltremodo agevole ipotizzare due diverse realtà, tutt’altro che infrequenti: quella del porto delle sole munizioni e quella del porto di munizioni eccedenti la capacità di alimentazione dell’arma, che possono essere entrambi legittimati unicamente dalla pregressa loro denuncia all’Autorità di P.S., salvo l’eccezione da cui muove l’odierno procedimento. Ma piuttosto che concludere che, per mera disattenzione, la disciplina del porto delle munizioni sia sfuggita all’attenzione del legislatore, è preferibile ipotizzare (ma con debole convinzione) che questi non vi abbia in ultima analisi provveduto ritenendo generalmente improbabile e privo di significato fattuale il porto di munizioni in assenza della relativa arma. Ma tant’è. Allo stato, non formando tale condotta oggetto di alcuna previsione normativa inibitoria, la stessa è del tutto lecita.
Di tale situazione ha dato atto del resto la giurisprudenza di legittimità in quelle rarissime volte (appena due) in cui si è occupata specificamente della questione, annullando senza rinvio le relative decisioni di condanna perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato (v., ad es. Cass. Pen., Sez. VI, 16/2/73, n. 5389, Evolo).
Per le considerazioni sin qui svolte il fatto commesso dall’odierno prevenuto non avrebbe mai potuto essere qualificato illecito, e ciò è quello che esattamente è accaduto: ma essendo anche accaduto che, collateralmente a tale lecita condotta, è stata ravvisata anche quella illecita di detenzione illegale delle stesse, deve allora esaminarsi - affrontando così nel vivo la prima questione preliminare preannunciata in apertura di motivazione - entro quali limiti, sia consentito di ritenere realizzata, coevamente ad una condotta di porto di munizioni c.d. “ comuni “, del tutto lecita, la sussistenza della fattispecie contravvenzionale delineata dall’art. 697/1°c. C.P., e, cioè, una condotta di detenzione illegale delle stesse per omessa denuncia ex art. 38/1 c. T.U.L.P.S., dovendosi ripudiare in radice la tendenza volta in ipotesi del genere a presumerla, trattandosi – secondo la costruzione giuridica fattane dalla normativa penale speciale - di condotte ontologicamente difformi tra loro, nettamente caratterizzate da elementi fattuali non sovrapponibili. Ed il discorso vale anche per le armi, per le materie esplodenti e per gli esplosivi, avendo anch’essi formato oggetto di identica tendenza pur se, a differenza delle munizioni, la condotta del loro porto illegale è normata.
Quanto dire, cioè, che è assolutamente interdetto ravvisare la sussistenza di una condotta giuridicamente rilevante di detenzione di tali oggetti basata sulla semplicistica considerazione che il loro porto autorizza a presumere che gli stessi sono stati certamente detenuti in qualche luogo o, peggio ancora, sull’altra considerazione che essi vengono al contempo detenuti dal soggetto che li porta con sé, non importa se addosso o, ad es., su un veicolo momentaneamente fermo o in movimento.
I concetti giuridici di detenzione e porto esprimono invero due incontestabili diverse situazioni di fatto: di staticità, il primo, e di dinamicità il secondo; e già questa differenza di fondo consente di liquidare immediatamente la seconda delle considerazioni appena svolte, stante che la materiale detenzione contestuale all’attività di porto (cui tutt’al più può essere attribuita la connotazione tecnica di detenzione dinamica) non è rappresentativa dell’omonima condotta delineata dalle norme penali speciali che la disciplinano ma è unicamente costitutiva delle naturali e necessarie modalità di realizzazione della condotta giuridica di porto.
Circa le ragioni del ripudio della prima (che il porto di uno di tali oggetti, cioè, è sempre dimostrativo di una sua pregressa detenzione) può invece osservarsi quanto di seguito. Nella condotta giuridica di porto, è rilevante per la sua configurabilità la sola relazione di fatto tra l’oggetto e la persona che lo porta. Nella condotta di detenzione acquista invece rilievo giuridico per la sua sussistenza la diretta relazione di fatto tra l’oggetto ed il determinato luogo in cui esso si trova, correlata alla disponibilità che del medesimo abbia un determinato soggetto. Prendendo poi spunto dallo stato di legittima detenzione di uno di tali oggetti, è imprescindibile tenere presente che detto stato trae esclusiva origine dall’adempimento di un preciso obbligo e, cioè, quello della loro denuncia. Orbene, è sufficiente una verifica del contenuto della normativa che disciplina le modalità con cui questa deve essere effettuata per avere ragione di quanto si sostiene in relazione all’autonomia concettuale della condotta giuridica di detenzione, dal momento che essa (la denuncia, cioè) deve sempre indicare (artt. 58 Reg., norma esecutiva della disposizione di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. ) il luogo ove tali oggetti si trovano e, in caso di cambiamento di esso, quello nel quale vengono trasferiti. D’altro canto, per poco che si ragioni, soltanto il fatto che tali oggetti vengano detenuti in un determinato luogo dà un senso compiuto alla esigibilità della loro denuncia in funzione strumentale dell’attivazione di ogni successivo controllo sulla loro esistenza proprio in quel luogo, principio non vulnerato, per ovvie ragioni, dalla temporanea loro assenza ascrivibile ad ipotesi di porto. Quindi è solo la relazione di fatto tra uno di tali oggetti ed il luogo ove essi vengono denunciati che contraddistingue la condotta giuridica di detenzione, esaltata, in definitiva, dalla stessa costruzione normativa di quella di porto (artt. 4 L. 895/67, 23, c. 4, L. 110/75), datosi che, avendo questa inizio allorché tali oggetti vengono portati in luogo pubblico o aperto al pubblico, la prima non può che esprimere ed evocare, concretamente e sempre, una pregressa situazione di staticità di tali oggetti in uno di quei luoghi non qualificabili come pubblici o aperti al pubblico; situazione di staticità assorbente anche ogni ipotesi di porto che dovesse esaurirsi in tali spazi, non attingendo le stesse la soglia dell’omonima condotta giuridicamente rilevante e che, pertanto, sono, sotto tale profilo, del tutto indifferenti per l’ordinamento.
Questo essendo il concetto giuridico di detenzione, va messo nel dovuto risalto che esso esprime contestualmente anche il suo solo ed unico modo materiale di configurarsi per come del resto offerto dal coordinamento dei profili normativi appena richiamati (art. 38 T.U.L.P.S. e art. 58, 3° e 4° c., Reg.). Quando si afferma, cioè, che Tizio detiene legalmente un’arma, si vuole semplicemente dire che l’arma denunciata all’autorità di P.S. viene detenuta in un determinato luogo nel quale, in prosieguo, dovrà continuare a trovarsi (fatti salvi successivi trasferimenti in altro luogo, ugualmente e sempre soggetti ad obbligo di denuncia). Profili normativi che – come può agevolmente cogliersi – esprimono al contempo gli unici elementi probatori, processualmente rilevanti, che devono coesistere per l’accertamento della sussistenza di una condotta di detenzione e della sua liceità. Elementi costituiti, al controllo di P. G., dal trovarsi l’arma - con le caratteristiche dichiarate in denuncia - all’interno del luogo indicato in tale atto.
Se si guarda ora alla situazione appena prospettata sotto l’aspetto patologico e, cioè, di detenzione illegale dell’arma (o di uno degli altri manufatti), non è dubbio che, al controllo della P. G., dovrà presentarsi uno stato di cose identico a quello appena evidenziato, il quale, nel contempo, fornirà esso stesso, ancora una volta, la prova della detenzione di un’arma in un luogo nella disponibilità di un soggetto, quale ricavabile dal costrutto normativo delle norme testé richiamate; ma con questo in più: che non esistendo alcuna denuncia all’Autorità di quell’arma in quel luogo ad opera del soggetto che di entrambi dispone (fatte salve, ovviamente le ipotesi di esenzione), gli si potrà muovere il rimprovero che essa non è lecitamente detenuta ex art. 38/ 1° c. T.U.L.P.S., (si preferisce non adoperare l’espressione “ il rimprovero di non avere assolto all’obbligo della sua denuncia “ per rimanere quanto più aderenti alla realtà, dal momento che nella maggior parte di tali ipotesi l’arma difficilmente può formare oggetto di regolare denuncia: si pensi, ad. es., ad un’arma rubata, ad un’arma ricettata o ad un’arma clandestina); donde la qualifica di tale condotta come detenzione illegale della quale risultano realizzati ad un tempo gli elementi costitutivi della fattispecie che la proibisce e la sanziona, e la prova della sua sussistenza.
Questa e questa soltanto è, quindi, la posizione concettuale e probatoria patologicamente rappresentativa della condotta di detenzione illegale offerta dal coordinamento dei profili normativi appena richiamati. Strettissima relazione, cioè, tra l’arma (e/o le munizioni, e/o le materie esplodenti) ed il luogo ove essa si trova e di cui si dispone. Relazione rinvenibile – a differenza di quella che distingue la detenzione legittima, i cui contenuti normativi non consentono di ipotizzarla - anche fra tali oggetti ed i luoghi pubblici od aperti al pubblico, o quelli nella disponibilità di altro soggetto utilizzati a sua insaputa (l’esempio può essere quello di Tizio sorpreso nella disponibilità di un’arma celata nell’anfratto di un terreno comunale o nella cavità di un albero insistente sul terreno di proprietà di Caio); con la precisazione che in ipotesi del genere – fermo restando il rapporto tra tali oggetti ed il luogo ove si trovano quale unico elemento distintivo della condotta di detenzione - questa va qualificata illegale per definizione in quanto essi, in tali condizioni, non avrebbero potuto formare in ogni caso oggetto di regolare di denuncia da parte di chi materialmente è risultato disporne.
Ne consegue che, fuori dal preciso e delimitato ambito sin qui illustrato, è del tutto esclusa ogni possibilità di ritenere sussistente una condotta giuridica di detenzione disegnata sul modello normativamente predeterminato appena delineato; lo spostamento materiale di uno di tali oggetti, ad opera di chi ne dispone, all’esterno del luogo dichiarato in denuncia determina infatti, per un verso, il dissolvimento di quella strettissima relazione di fatto tra tale luogo ed il manufatto che connota la stasi propria della condotta di detenzione e, per l’altro, l’inizio di autonoma diversa condotta giuridica, quella di porto, la sola ed unica che, a questo punto, può venire in considerazione in ipotesi di controllo, e che, come tale, non è in grado di rivelare ex se alcun indizio in ordine all’esistenza di una eventuale pregressa condotta di detenzione di quell’arma da parte dello stesso soggetto, ma unicamente la relazione di fatto esistente in itinere tra l’arma e chi la porta con sé.
E allora.
Stando così le cose sembra proprio che la sussistenza di un’autonoma condotta giuridica di detenzione nel contesto di un’accertata condotta giuridica di porto non può in alcun modo essere mutuata da quest’ultima per presunzione, per di più superabile – come si sostiene nelle costruzioni giurisprudenziali avversate – solo da una correlata pretesa di dimostrazione del contrario gravante sull’imputato (trattandosi di una costruzione accusatoria “apparente”, tale pretesa realizzerebbe infatti un’inammissibile inversione legale dell’onere probatorio); essa è invece necessariamente legata per il suo accertamento ad elementi che trascendono quelli costituenti la condotta di porto, e, cioè, in ultima analisi, alla dichiarazione confessoria di chi porta tali oggetti, o alla attendibile dichiarazione di testi, o a dichiarazioni da valutare ai sensi dell’art. 192, 3° c., C.P. p., o, da ultimo, all’individuazione di circostanze che debbono poter consentire in base all’evidenza fattuale disponibile di rilevare obiettivamente che l’oggetto portato (e proprio quello) sia stato in precedenza detenuto in un determinato luogo nella disponibilità del soggetto controllato; con la conseguenza che l’incertezza o l’insufficienza di tali circostanze determinerà l’insuccesso della prospettazione accusatoria. Deve, in altri termini, trattarsi di circostanze di fatto così puntuali ed inequivoche da evidenziare un altissimo coefficiente di probabilità, quasi prossimo alla certezza processuale, della condotta della loro detenzione. Quanto dire, con riguardo al caso di specie, che l’accertata assenza di tali circostanze avrebbe determinato ineluttabilmente l’assoluzione del prevenuto dal reato contestatogli per insussistenza del fatto. Solo in presenza delle riferite circostanze si potrà muovere ad un soggetto – in ragione della coeva accertata inesistenza di alcuna denuncia di uno di tali manufatti all’l’Autorità di P.S. - lo stesso rimprovero scaturente da una loro accertata statica presenza in un determinato luogo nella disponibilità della persona controllata, secondo lo schema sul quale, come si è visto, risulta normativamente e probatoriamente premodellata la condotta di detenzione.
Passando al caso concreto, la condotta di detenzione delle munizioni ipotizzata a carico dell’odierno prevenuto appare del tutto condivisibile, essendo sorretta da circostanze di fatto che – in piena autonomia rispetto a quelle che attestano il loro lecito porto – univocamente convergono verso la sua sussistenza; circostanze rappresentate dall’essere le munizioni riposte all’interno di una cartucciera solitamente detenuta, unitamente a queste, nel luogo che si abita, dall’essere state rinvenute le munizioni unitamente ad un’arma, dall’essere queste di identico calibro a quello dell’arma, dal costituire, pertanto, esse corredo dell’arma lecitamente portata e dall’essere risultata l’arma regolarmente denunciata in un determinato luogo ove, ragionevolmente, può ritenersi che vengono detenute anche cartucce da utilizzare con la stessa; circostanze che attestano probatoriamente in modo univoco e convergente come le cartucce fossero state detenute nello stesso luogo in cui veniva detenuta legalmente l’arma, con esclusione, pertanto – data l’assenza di alcuna contraria allegazione al riguardo – che questi avesse potuto acquistarne la disponibilità in itinere, nel corso, cioè, dell’espletamento della condotta di porto.
Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte non appaiono pertanto punto condivisibili le decisioni dei Giudici di legittimità ove la sussistenza degli elementi della condotta di detenzione viene mutuata da quelli della condotta di porto a motivo che l’oggetto portato viene contestualmente detenuto (donde l’obbligo della sua denuncia all’Autorità di P.S.). Questo, ad es., il convincimento espresso in motivazione proprio nella decisione con la quale si è affermato che il porto delle munizioni comuni non è previsto dalla legge come reato “…essendo tale porto, sotto il profilo della detenzione, soggetto soltanto alla denuncia di cui all’art. 697 C. P “, laddove, come si è già osservato, questa forma di detenzione altro non rappresenta che la necessaria modalità materiale di estrinsecazione della condotta (naturale e) giuridica di porto.
Del pari da respingere si rivela l’altro orientamento giurisprudenziale che, per un verso, ritiene distinte le due condotte giuridiche, e, per l’altro, presume contraddittoriamente l’esistenza di quella di detenzione sotto il profilo che essa costituisce il normale antecedente logico di quella di porto, presunzione superabile con adeguata dimostrazione fornita dall’imputato anche attraverso la circostanza che l’inizio della detenzione è coinciso cronologicamente con il porto (motivazione decisione Sez. II, n. 6484/1986, Cirimbilli). È di tutta evidenza, infatti, per ciò che si è rilevato, come tale orientamento contrasti con il rispetto del principio che l’onere della prova grava in via generale sull’accusa e non sull’imputato. Altre decisioni, sostanzialmente dello stesso tenore, mettono in più in evidenza che la contestualità dell’inizio della detenzione con quello del porto (da dimostrarsi dall’imputato) esalterebbe l’esclusiva sussistenza della condotta di porto in virtù di una sorta di assorbimento della prima nel secondo, cui invece non darebbe luogo la mancata dimostrazione (sempre ad opera dell’imputato) di tale coincidenza, refluente nella presunzione – a causa dello spazio temporale intercorso, pure presunto – della sussistenza della pregressa condotta di detenzione in aggiunta a quella accertata di porto, costituendone “il normale antecedente logico e pratico” secondo “l’id quod plerumque accidit” (motivazione decisioni Sez. I, n. 11933/1987, De Vincentis; sez. II, n. 13385/1989, Castello; sez. I, n. 09326/1990, Calabrese).
L’artificiosità di tale puntualizzazione non si sottrae ad ulteriore critica trattandosi di condotte contraddistinte da elementi costitutivi radicalmente diversi sotto il profilo fattuale e, quindi, tra loro non sovrapponibili (si ripete che la detenzione connessa alla condotta di porto non è identificabile con la detenzione giuridicamente rilevante bensì con quella che costituisce la normale e naturale estrinsecazione della condotta giuridica di porto).
Errore di posizione che si rinviene nelle motivazioni delle decisioni della Sez. I n. 5519/1973, Trentin, in tema di armi da guerra e di esplosivi, e della Sez. VI, n. 6461/1975, Rossetti, pure relativa ad armi da guerra ed inoltre a munizioni comuni; le quali, pur offrendo una soluzione che si rivela in linea con quella sin qui sostenuta quanto ad autonomia strutturale delle due condotte, mutuano pur esse presuntivamente la condotta di detenzione da quella di porto ma la escludono attraverso il criterio di assorbimento della prima nella seconda, così però attribuendo a quella di detenzione un’autonomia giuridica che non possiede in quanto costituente necessaria modalità fattuale di estrinsecazione della condotta giuridica di porto. In detta decisione viene infatti dapprima rilevato che “ …se nel concetto di portare è insito quello di detenere, per cui non si può portare in pubblico se non ciò che si detiene e il portare, in definitiva, è anche un modo di detenere, tuttavia detenere e portare in pubblico sono concetti distinti, corrispondenti a condotte diverse che, se autonome e cronologicamente successive, infrangono i divieti contenuti negli artt. 2 e 4 della legge speciale e dànno vita a reati materialmente concorrenti. Il porto presuppone la detenzione che può coincidere col porto o avere avuto inizio prima di esso. La detenzione è un concetto statico; il porto è un concetto dinamico che implica l’uso della cosa detenuta col portarla in luogo pubblico o aperto al pubblico e, perciò, è qualcosa di più del semplice detenere. Ne consegue che chi porta in pubblico armi da guerra o esplosivi, da lui detenuti in precedenza viola gli artt. (omissis) commettendo due reati materialmente concorrenti, scaturenti da condotte autonome, distaccate nello spazio e nel tempo…” per poi affermare che “…. chi, invece, porta armi da guerra o esplosivi senza averli prima detenuti, comincia a detenerli nel momento stesso in cui li porta in luogo pubblico; ma, siccome il porto è reato più grave della detenzione dalla quale si differenzia per un quid pluris, costituito dal portare in pubblico la cosa che si detiene, la detenzione perde la sua autonomia strutturale per diventare elemento costitutivo di una fattispecie complessa da cui rimane assorbita. Si configura in tal caso un concorso apparente di norme che disciplinano la stessa materia: norme che appaiono a prima vista applicabili e suscettibili di essere violate con un’unica condotta, mentre, in realtà, l’una esclude l’altra perché l’art. 15 C.P. accorda la prevalenza alla norma specifica rispetto a quella di carattere generale col risultato che il porto illegale assorbe il meno grave reato di detenzione illegale “.
Del tutto arbitrario si rivela conclusivamente il ricorso alla presunzione della sussistenza della condotta giuridica di detenzione desumibile da un’accertata condotta di porto, necessitando anche la prima di uno specifico sostrato probatorio del tutto svincolato da quello che sorregge la seconda. E l’erronea impostazione giurisprudenziale sottoposta a critica lascia ancora più perplessi se si considera che, in altro settore della materia (detenzione illegale di arma risultata alterata ed individuazione dell’autore dell’ alterazione) in cui il criterio della presunzione avrebbe potuto avere un più facile sopravvento (ma sempre inammissibile) in quanto in larga misura “indotto” dalla mancata previsione legislativa delle condotte di detenzione e porto illegali di arma alterata (l’art. 3 prevede e punisce infatti soltanto l’autore dell’alterazione), la giurisprudenza di legittimità ne ha fermamente ripudiato l’adozione anche di recente (Sez. I, 25/9/1984, Di Nardo; Sez. VI, 24/6/2004, Quadrelli), pretendendo che la sussistenza della condotta di alterazione fosse rigorosamente provata in modo autonomo rispetto alla condotta di detenzione dell’arma risultata alterata, escludendo che il suo detentore dovesse in via generale essere chiamato a rispondere dell’alterazione per il solo fatto di disporre dell’arma: “La detenzione abusiva di un’arma alterata non comporta necessariamente responsabilità per l’alterazione medesima, qualora non sussista la prova che essa sia stata compiuta dal detentore. Né a tale mancanza può ovviarsi con la presunzione che l’alterazione sia stata compiuta dal possessore dell’arma ovvero con la mancata indicazione, da parte di costui, di elementi per individuare l’autore dell’ alterazione”.
Interpretazione, quella che si critica, che lascia maggiormente perplessi se si considera la padronanza interpretativa degna di sottolineatura che i Giudici di legittimità hanno dimostrato nell’affrontare e nel risolvere in modo ineccepibile e brillante altre rilevanti questioni in materia, nel rivedere determinati principi adeguandoli alla realtà dei tempi e, soprattutto, nel porre rimedio ai criteri approssimativi cui spesso si è informato nella materia l’incolto legislatore nella formulazione di parecchie importanti norme. Valgano per tutte le “storiche” e poderose decisioni concernenti, ad es., il concreto accertamento della micidialità che deve possedere il quantitativo di esplosivo detenuto per la sua rilevanza penale ai sensi della L. 895/67, prima affidato alla sua astratta qualità a prescindere dal quantitativo detenuto, requisito correttamente esteso anche alle materie esplodenti che ne sono solitamente prive ma che lo acquistano nell’ipotesi di ingente quantità finendo così per possedere le stesse connotazioni effettuali degli esplosivi (Cass. Pen. ,Sez. I, 9/4/97-14/7/97, n. 6959, Lucenti); o quella relativa alla qualifica di strumenti da punta - e non più di armi c.d. bianche - attribuita alle balestre (e, più precisamente, non a quest’ultime ma ai loro dardi, nel senso che la sola balestra non è oggetto penalmente riconducibile in seno al perimetro operativo dell’art. 4 della L. 110/75) attraverso l’enunciazione di un principio generale che autorizza a relegare nella stessa area (in quella, cioè, degli strumenti da punta e da taglio) baionette, sciabole, spade, alabarde e quant’altro di consimile (Cass. Pen., Sez. I, 30/5/1994,n. 696, Moro, e ib., 18/11/1996, Messina); o, ancora, quella per cui le finalità di utilizzo di un’arma legittimamente detenuta e portata sono irrilevanti per l’ ordinamento giuridico, per cui la loro eventuale illiceità penale o amministrativa non investe le condotte di detenzione e porto tramutandole in illecite (Cass. Pen., Sez. I, 4/3/1998, n. 2798), ed, a maggior ragione, non le investe una finalità lecita.
A fronte di tali decisioni (e con le debite eccezioni riguardanti quelle decisioni indotte il più delle volte dalle risultanze erronee di accertamenti peritali disposti nella fase di merito, dei quali, specie in assenza di loro adeguate confutazioni, i Giudici di legittimità non possono che prendere atto, essendo loro interdetto un riesame del fatto, reso talvolta difficoltoso dalla natura squisitamente tecnica di determinate questioni per le quali occorre possedere specifiche cognizioni) l’interpretazione giurisprudenziale privilegiata in tema di detenzione illegale presunta dalla condotta di porto (legittima o meno che sia) non sembra resa con identica puntualità e non pare, quindi, riconducibile alla funzione nomofilattica propria del Giudice della legittimità, ma, piuttosto, all’impiego di un alto coefficiente di discrezionalità refluente in ipotesi di “ sovranità giurisdizionale “ con pesanti ricadute in termini di certezza normativa e, in definitiva, di limiti dell’area di rilevanza penale in materia di armi e delle correlate sanzioni. E la stessa impressione si trae dal tenore di qualche altra decisione quale quella di ritenere parte di arma il calcio del fucile e, cioè, la sua sola struttura legnosa, in aperto contrasto - al di là di ogni sua irrilevanza di natura meccanico-funzionale - con le già anomale ragioni giuridiche che giustificano in via di presunzione la punibilità delle condotte aventi ad oggetto le parti di arma, trattandosi di oggetto di valenza talmente neutra (può essere, oltretutto, componente di giocattoli riproducenti armi o di armi inefficienti) da non consentire di ipotizzare l’esistenza del resto (viene da domandarsi al riguardo che sorte potrebbero avere gli ignari artigiani falegnami dediti, tra l’altro, alla loro fabbricazione in serie o in adattamento alle esigenze di determinate categorie di soggetti, come sportivi, disabili etc.); peraltro è andata delusa l’aspettativa di poter leggere nel corpo della motivazione – ipotizzandone per un momento l’omissione nella massima - che il riferimento era al calcio comprensivo della bascula, delle batterie e del gruppo di scatto che sono effettivamente parti in senso tecnico-giuridico dell’arma (Cass. Pen., Sez. I, 10/5/1997, n. 4320); o quella (Cass. Pen., Sez. I, 5/5/2000, n. 6163, Grasso) che – sia pure con metodo interpretativo certamente valido a determinate condizioni quale quello di attribuire ad una norma successiva una funzione integratrice di altra precedente, la cui portata tornerà utilissima nel corso della trattazione della questione principale per cui è processo – enuncia, con riferimento alle munizioni allestite con proiettile espansivo, il paradossale sillogismo munizione proibita = munizione da guerra, secondo cui il divieto (privo di sanzione) di allestire munizioni con proiettile avente determinate caratteristiche morfologico-strutturali (art. 2/4° c., L. 110/75), se violato, le tramuterebbe in munizioni di arma da guerra (art. 1/3° c. L. 110/75 cit.); omettendo di considerare al riguardo – a tacer delle altre plurime contrarie osservazioni che possono muoversi al riguardo – due dati fondamentali e, cioè, che si tratta in ogni caso, pur se così congegnate, di munizioni comuni proprio perché in ogni caso “destinate alle armi da sparo comuni”, e che le Convenzioni Umanitarie di Ginevra del 10/10/1980, ratificata con L. 4/12/1994 n. 715, e l’art. 2, lett. B, n. XIX, Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (ICC) vietano, rispettivamente, in modo tassativo che tali munizioni possano costituire dotazione militare od essere utilizzate in guerra, definendo il loro uso “crimine di guerra”; o, fermandosi qui, quella che si ostina a qualificare “da guerra “ le armi semiautomatiche corte e lunghe portatili in dotazione ai Corpi armati dello Stato o agli Enti militari e le loro munizioni, pur in presenza di una chiara normativa sui materiali d’armamento (art. 2, comma 2, lett. b, L. 185/90) che - integrando in funzione limitativa gli ampi criteri dettati dall’art. 1 della L. 110/75 per la loro individuazione (comunque ugualmente idonei ad escluderla attraverso una loro lettura tecnicamente orientata e soprattutto – quanto al 1° comma – concettualmente ordinata e coordinata nel suo costrutto) - non le considera più tali. E l’esclusione in tale normativa di tale tipologia di armi da quelle da guerra è così chiara ed esplicita che non esce minimamente vulnerata dai sofismi di Cass. Pen., I, 4032/91, che, pur di mantenere ferma la propria posizione sul punto, retaggio di un appiattimento che ricalca supinamente le pregresse interpretazioni adottate sul punto, ha annullato una decisione di merito che dava ragione di quanto si sostiene, fornendo di essa un’interpretazione estremamente contraddittoria e fuorviante, non potendosi ritenere che una stessa arma possa essere qualificata da guerra per la sua fabbricazione e per la sua detenzione ed invece comune per la sua esportazione o importazione. La qualifica tecnico-giuridica attribuita ad un’arma, rimane invero sempre tale a prescindere dalla particolare regolamentazione adottata per le sue movimentazioni o per altra vicende; ed in questa direzione, la qualifica bellica viene giustamente attribuita dalla nuova normativa, in un quadro di destinazione al moderno armamento, alle armi corte e lunghe (la lett. b del cit. art. 2 non fa al riguardo alcuna distinzione) portatili (come può argomentarsi dalla successiva lett. c del medesimo articolo che ha ad oggetto le armi di medio e grosso calibro che non sono portatili, e, cioè, quelle d’artiglieria) automatiche (predisposte per il tiro a raffica o dotate di selezione per tale tipo di tiro) ed al relativo munizionamento. E non fanno parte dei materiali d’armamento quindi le armi portatili, corte e lunghe, semiautomatiche, né il relativo munizionamento.
Con un’immediata necessitata e rilevantissima conseguenza (ed altre su cui non è opportuno soffermarsi esulando dall’argomento in trattazione):
a) che le armi semiautomatiche in cal. 9x19 mm. (comunque denominato o simbolicamente rappresentato) in dotazione ai Corpi armati dello Stato o ad Enti militari (è comunque più corretto dire a chiunque in dotazione) non sono materiale d’armamento (armi da guerra, cioè);
b) non è, conseguentemente, materiale d’armamento il loro relativo munizionamento. Non sono, cioè, munizioni da guerra quelle a corredo delle armi di cui al punto a), allestite secondo specifiche NATO (ed anche qui è più corretto dire da chiunque e comunque allestite – peraltro munizioni in tale calibro sono state già da tempo immesse nel mercato civile per armi iscritte in Catalogo).
V
Emergendo conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono,
a) che la condotta di porto illegale di munizioni comuni non è prevista dalla legge come reato (né lo è mai stata);
b) che è interdetto trarre per presunzione la prova della condotta illegale di detenzione di armi, munizioni ed esplosivi da quella della loro accertata condotta di porto;
c) che la condotta di detenzione delle 16 munizioni a palla cal. 12 ipotizzata a carico dell’odierno imputato risulta suffragata - quanto alla sussistenza della relazione di fatto tra tali manufatti ed il luogo ove le stesse erano state precedentemente detenute - dal necessario autonomo corredo probatorio,
ciò stante occorre ora esaminare se a carico del predetto sussistesse l’obbligo, ai sensi dell’art. 38/1° comma del T.U.L.P.S., di denunciare all’Autorità di P.S. la detenzione presso la sua abitazione di tali munizioni al momento in cui questi ne aveva acquistato la disponibilità, questione alla quale l’organo d’accusa ha ritenuto di fornire risposta affermativa, contestando in conseguenza al **** il reato di detenzione illegale di munizioni previsto e punito dall’art. 697/1° c., C.P., anticipandosi tuttavia come, in ragione dei rilievi tecnico-giuridici che saranno di seguito svolti, l’odierno prevenuto non fosse legittimamente tenuto all’adempimento di tale obbligo.
VI
La soluzione della questione concernente il presente procedimento, e, cioè, la detenzione da parte dell’imputato di munizioni senza averne fatto denuncia, rende imprescindibile prendere le mosse dalla disposizione che sancisce tale obbligo e, cioè, dall’art. 38 del T.U.L.P.S. che, per l’appunto, così recita: “Chiunque detiene armi, munizioni o materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità deve farne immediata denuncia all’ufficio locale di pubblica sicurezza…”. Il principio generale enunciato da tale disposizione – mai modificata sin dalla sua emanazione – non è, tuttavia, assoluto, come potrebbe sembrare a prima vista; esso risulta infatti limitato da due ordini di eccezioni introdotte per dettato legislativo, le prime, e per interpretazione giurisprudenziale, le seconde.
Quanto alle eccezioni di primo tipo, tre venivano indicate dal legislatore del ’31 nel secondo comma dell’art. 38 cit., coevamente, quindi, alla posizione dell’obbligo generale di denuncia dalla quale in atto risultano esenti: 1) “i corpi armati, le società di tiro a segno e le altre istituzioni autorizzate” (lett. a); 2) “i possessori di raccolte autorizzate di armi artistiche, rare o antiche” (lett. b); 3) “coloro che per la loro qualità permanente hanno diritto di andare armate, limitatamente però al numero ed alla specie delle armi loro consentite” (lett. c), e che sono quelli indicati dall’art. 73 Reg. T.U.L.P.S.. Interessa qui evidenziare, quanto a questo gruppo di eccezioni, ed al di là di ogni altro tipo di problematiche alle stesse correlate, pure numerose e rilevanti, che l’esenzione dalla denuncia stabilita in favore dei soggetti indicati al I1° comma, lett. a) di tale ultima disposizione (categoria ampliata dalle leggi 36/90 e 205/00) riguarda esclusivamente le armi di cui all’art. 42 del T.U.L.P.S. e cioè quelle corte e lunghe c.d. “comuni”, essendo soltanto queste le armi per le quali a tali soggetti può essere concessa licenza di porto (è del tutto ovvio che l’esenzione dalla denuncia riguarda logicamente e coerentemente anche le munizioni a corredo di tali armi e le “parti” di quest’ultime la cui rilevanza giuridica penale è stata introdotta per la prima volta dall’art. 14 della L. 497/74). Peraltro, trattandosi di soggetti non legati ai Corpi armati dello Stato da rapporto di immedesimazione organica, il limite numerico e di specie delle armi e delle munizioni stabilito dai regolamenti per gli appartenenti ai predetti Corpi e, in via generale, dalla stessa lett. c) dell’art. 3 non è a costoro estensibile. Ne consegue che, entrando tali soggetti in relazione con armi, loro parti e munizioni allo stesso modo di qualunque privato, non può non valere per i medesimi il regime stabilito in via generale dalla normativa in materia, e, segnatamente, quello in tema di numero di armi e munizioni c.d. “ comuni “ detenibili. In altri termini, i soggetti in questione - salvo per ciò che concerne, in ragione della professione svolta, l’esenzione dalla denuncia dei manufatti appena indicati, correlata ai luoghi di dimora dagli stessi abitati abitualmente o temporaneamente, od a quelli ove gli stessi svolgono attività lavorativa abitualmente o temporaneamente, ed il porto dei medesimi manufatti senza licenza ai soli fini della difesa personale per come disposto dall’art. 73/1° e 4° c. Reg. cit. - sono tenuti, per il resto, all’osservanza delle condotte stabilite per i privati dalle leggi in materia di armi, munizioni ed esplosivi, non essendo disciplinata da alcuna normativa altra esenzione che in proposito li riguardi. I soggetti in questione saranno pertanto tenuti all’osservanza del numero di armi e munizioni detenibili e dovranno provvedere a denunciare la detenzione delle materie esplodenti possedute (individuabili esclusivamente nelle polveri da sparo occorrenti per un’eventuale attività domestica di carica e ricarica delle munizioni), non essendo queste elencate alla lettera c) dell’art. 38 cit. tra gli oggetti per i quali opera l’esenzione (fatte salve, al riguardo, le interpretazioni giurisprudenziali di cui si dirà).
Altra eccezione all’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. delle armi, delle munizioni e delle materie esplodenti prende ancora in considerazione le qualità professionali dei suoi destinatari riguardando coloro che svolgono attività di fabbricazione, di introduzione nel territorio dello Stato e di commercio di armi e materie esplodenti, giusta il contenuto dell’art. 57 del Reg. al T.U.L.P.S.. La norma ipotizza implicitamente che tali attività sono comprensive anche di quelle aventi ad oggetto le munizioni donde l’estensione dell’esenzione della denuncia anche per quest’ultime, ponendo tuttavia problemi interpretativi nel caso in cui il loro oggetto sia costituito esclusivamente dalle munizioni. La ratio della norma depone comunque per ritenere svincolato da denuncia anche chi dovesse svolgere questa sola attività, tenuto anche conto degli altri tipi di controlli di polizia amministrativa cui, come per le altre, sarebbe assoggettato il suo titolare (artt. 35, 46, 47, 49, 51, 52, 53, 55 T.U.L.P.S., 91-110 Reg. T.U.L.P.S. ed All. B, C al Reg..) D’altronde proprio sull’esistenza di tali controlli fonda la ragione dell’esenzione, volta, in ultima analisi, ad eliminare aggravi burocratici ed intralci nello svolgimento di tali attività.
Eccezioni all’obbligo di denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. sono mutuabili espressamente o per esclusione dal D.M. 19/9/2002, n. 272 (che detta, tra l’altro, norme sul controllo degli esplosivi per uso civile). Esse riguardano la generalità dei cittadini, ed attengono alla detenzione dei componenti le munizioni per il caricamento delle armi comuni (bossoli privi di innesco, bossoli con innesco percosso e proiettili). In realtà, a ben guardare, l’esenzione dalla denuncia di tali manufatti non può essere ricondotta nel novero delle eccezioni al principio generale di cui al 1° comma dell’art. 38 T.U.L.P.S., che sancisce l’obbligo della denuncia soltanto per le armi, le munizioni e gli esplosivi, essendo estremamente agevole comprendere che i manufatti in questione non possono essere così tecnicamente qualificati. Chiara essendo la loro differenza ontologica rispetto alle armi, altrettanto evidente è quella dalle munizioni, delle quali i bossoli costituiscono componenti per il loro allestimento (e, quindi, loro parti), nonché la differenza dagli esplosivi (rectius: dalle materie esplodenti) essendo costituiti esclusivamente da materiale metallico che nulla a che spartire con il materiale propellente che viene allocato al loro interno, quale ulteriore autonomo elemento, nella fase del loro assemblamento. E materiali metallici inerti sono da qualificare anche gli inneschi delle munizioni a seguito dello sparo, venendo ad così esaurirsi, attraverso la consunzione del(l’altro diverso) propellente contenuto al loro interno, la loro funzione innescante. Ed, infine, analogo discorso vale per i proiettili che – comunque volumetricamente conformati – concorrono anch’essi all’allestimento della munizione e che, autonomamente considerati, sono anch’essi pezzi di metallo inerte. Di talché non può dirsi che l’esenzione di tali manufatti dall’obbligo di denuncia rappresenti l’effetto eccezionale di un principio che ne proibisce di norma la detenzione, quanto, piuttosto, la conseguenza, in via generale, del loro stato di materiale inoffensivo e privo di alcuna pericolosità che, come tanti altri, determina la loro libera disponibilità in capo a chiunque. L’assenza di offensività e di pericolosità di tali manufatti risulta del resto normativamente attestata con estrema chiarezza nel contesto del D.M. più sopra citato, che, all’art. 16, li esclude dal novero dei prodotti esplodenti rendendone libera la vendita e la detenzione in numero illimitato: “ Non rientrando tra i prodotti esplodenti, nessun limite è posto alla detenzione e vendita dei seguenti componenti di munizioni per armi comuni: proiettili, pallini, bossoli inerti “ nel significato, quanto a quest’ultimi, di bossoli privi d’innesco o con innesco percosso. Ma altra inequivocabile conferma di tale loro stato si rinviene del resto tuttora nell’art. 697 C.P. che sanziona residualmente l’illegale detenzione delle munizioni “comuni” ma non quella delle loro “parti”, a differenza di ciò che accade per le “parti” di munizioni da guerra, i cui bossoli e proiettili, risultando equiparati alle prime dall’art. 1/3° c. L. 110/75 cit., sono anch’essi sottoposti (salvo quanto si dirà a breve) al regime sanzionatorio dettato dall’art. 12 della L. 497/74.
Del tutto opportuna si è rivelata invece, in veste di eccezione al principio sancito dal 1° comma dell’art. 38 del T.U.L.P.S., l’esplicita generale esenzione dall’obbligo di denuncia dei bossoli innescati e dei singoli inneschi relativi alle munizioni comuni in ragione della risibile quantità di materia esplodente contenuta al loro interno, non rilevante penalmente ai sensi dell’art. 679 C.P. pur quando tali manufatti vengono considerati autonomamente in entrambi gli assetti in numero illimitato. Per la verità, un’interpretazione dell’art. 97 del Reg. al T.U.L.P.S. (prima della sua integrazione ad opera del D.M. cit.) condotta alla stregua della conoscenza dei necessari principi tecnici, avrebbe consentito di pervenire ad identico risultato, dal momento che la liceità della detenzione senza licenza prefettizia del “numero illimitato di bossoli innescati” (e, coerentemente ed a maggior ragione, dei loro inneschi) poteva spiegarsi solo con la loro mancanza di capacità lesiva; e, tuttavia, potendosi formalmente opporre (come in realtà è accaduto) che le sostanze contenute in tali apparecchi, anche a fronte delle loro esigue quantità, erano pur sempre materie esplodenti e che, come tali, non potevano essere sottratte al generale obbligo di denuncia sancito per esse dal 1° comma dell’art. 38 del T.U.L.P.S. “in qualsiasi quantità”, e tenuto conto che l’obbligo di denuncia sancito da tale norma e le licenze prefettizie di cui al cit. art. 97 adempiono a due diverse finalità (di controllo, il primo, e di prevenzione degli infortuni e dei disastri, le seconde); e tuttavia, la sottrazione all’obbligo della denuncia di inneschi e bossoli innescati stabilita in via normativa appare, come si diceva, quanto mai opportuna, risultando definitivamente confermata la loro irrilevanza anche sotto il profilo della necessità di un loro controllo ad opera dell’Autorità di P.S.. In tale prospettiva l’art 14 del D.M. cit. specifica, tra l’altro, integrando così il primo comma dell’art. 97 del Reg. cit., che “…. possono essere detenuti senza obbligo della denuncia di cui all’art. 38 del R. D. 18 giugno 1931, n. 773, i prodotti esplodenti…della categoria 5), gruppo E, in quantità illimitata.” Trattasi dei prodotti esplodenti partitamene indicati in seno all’art. 82 del Reg. cit., modificato dall’art. 12 del D.M. in questione che ha suddiviso la 5 categoria dei prodotti esplosivi in cinque gruppi distinti dalle lettere A, B, C, D, E.; e del gruppo E fanno parte per l’appunto, tra gli altri manufatti ivi elencati, “i bossoli innescati per munizioni per armi di piccolo calibro” e “gli inneschi per munizioni per armi di piccolo calibro…”.
Del tutto ovvia la ragione per la quale il legislatore ha adoperato l’espressione “armi di piccolo calibro”, correlata agli inneschi ed ai bossoli innescati delle relative munizioni, avendo inteso con essa distinguere quest’ultimi da quelli che compongono le munizioni d’artiglieria (costituita per definizione da armi di grosso calibro non portatili), con la conseguenza che le armi di piccolo calibro vanno identificate con quelle portatili corte (pistole e rivoltelle) e lunghe (fucili, carabine). Rimane pertanto escluso che con tale espressione abbia voluto riferirsi ad una specifica loro individuazione attraverso la misura del calibro, dal momento che un’indagine in tale direzione sarebbe destinata a non avere alcun esito certo in ragione della genericità dell’indicazione fornita al riguardo (“... piccolo…”). E la conferma che proprio questo è stato l’intendimento legislativo si coglie in tutta la sua portata se si considera che in seno alla 5 categoria vengono elencati sotto il Gruppo A) i “ bossoli innescati per artiglieria “, in contrapposizione, per l’appunto, ai bossoli innescati ed agli inneschi per munizioni per armi di piccolo calibro, indicati, come si è detto, nel successivo Gruppo E).
Poco oltre si accennerà agli effetti del mancato coordinamento legislativo della prima parte dell’art. 97/1°c. Reg. cit. con l’integrazione apportata dal D.M. 273 cit. (ma anche con il successivo art. 98 come sostituito dallo stesso D.M.), uno dei quali riguarda proprio i bossoli innescati rimasti disciplinati, quanto alla liceità del loro trasporto senza licenza, ancora dalla I parte dell’art. 97 Reg. cit., nonostante compresi, sempre con riguardo a tale lecita condotta, nel Gruppo E della V Categoria, oggetto, per l’appunto, della novella integrazione. Ma ciò torna utile per avere ancora ragione di quanto si sostiene.
Il primo comma dell’art. 97 Reg. cit. disciplina, come già detto, la detenzione in deposito ed il trasporto senza licenza fino al numero ivi indicato delle cartucce per fucile da caccia, per pistola e per rivoltella. È pacifico allora che i “bossoli innescati”, di cui al primo comma dell’art. 97 cit., non possono che essere quelli di tali cartucce, essendo nominate immediatamente dopo quali parti di esse ma in contrapposizione alle medesime in quanto detenibili in deposito e trasportabili in numero illimitato senza licenza prefettizia. Ed essendo i fucili da caccia, le pistole e le rivoltelle menzionati nell’art. 97/1° c. cit., armi comuni portatili ne consegue inequivocabilmente che i bossoli innescati (e necessariamente i singoli inneschi che li compongono) cui fa riferimento la norma, si identificano con quelli che costituiscono le munizioni per armi comuni portatili di cui all’art. 97/1° c., cit., e con quelli che, per le ragioni già dette, sono stati indicati come bossoli innescati ed inneschi per munizioni di piccolo calibro nell’art. 82 alla Cat. V /E.
Il difetto di coordinamento cui si accennava a proposito dei bossoli innescati riguarda la loro “libera” condotta di trasporto che, a seguito della novella, risulta disciplinata due volte. Essendosi infatti proposti gli autori del D.M. 272 cit. di ampliare (ed il difetto in parola è quanto meno utile per dimostrare in modo palmare tale volontà) in seno all’art. 97 Reg. cit. le “libere” condotte che riguardano tali manufatti, quelle cioè già disciplinate di detenzione in deposito e di trasporto, vi hanno provveduto – creando un’inqualificabile confusione - aggiungendovi, per un verso, quelle dell’acquisto, del trasporto e dell’impiego e, per l’altro, quella della loro detenzione senza denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. ; avendo poi contestualmente voluto estendere tale disciplina ad altri prodotti esplodenti sostanzialmente privi di alcuna pericolosità, vi hanno provveduto facendo genericamente riferimento nella norma alla Categoria ed al Gruppo ove gli stessi sono stati collocati, ma dimenticando - tenuto conto che i bossoli innescati venivano inseriti anche nel Gruppo di riferimento - due cose: di provvedere alla eliminazione della dicitura “bossoli innescati” di cui alla prima parte del 1° comma dell’art. 97 cit., essendo stata compresa la condotta relativa al loro libero trasporto tra quelle nuove; e di aggiungere tra le nuove condotte consentite senza licenza quella di “deposito”, preesistente per i bossoli innescati, ma mancante per i nuovi prodotti esplodenti, ciò che avrebbe potuto autorizzare un’interpretazione restrittiva della novità, nel senso di escludere dalle nuove condotte la libera detenzione in deposito in quantità illimitata dei prodotti del Gruppo E (interpretazione da considerare comunque incongruente refluendo, solo per fare due esempi, nell’illogico trattamento differenziato tra i bossoli innescati ed i loro inneschi considerati autonomamente: detenibili in deposito liberamente ed in quantità illimitata i primi a mente della prima parte dell’art. 97 cit., e sottoposti a licenza di deposito in ogni caso i secondi, anche nel numero di uno, laddove tenere in deposito 1000 bossoli innescati significa sostanzialmente tenere in deposito 1000 inneschi; o nell’assurda liceità della detenzione senza denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. di un illimitato quantitativo di inneschi, consentita, per un verso, dalla novella, ma contrastante, per l’altro, con la necessità di munirsi di licenza di deposito anche per un solo innesco, essendo tale condotta esclusa in forma libera ed illimitata per tali manufatti sia dalla novella che dalla prima parte dell’art. 97 cit.; contrasto non ipotizzabile se si ha riguardo alla volontà del legislatore – purtroppo realizzata male - identificabile, come si è detto, con la liberalizzazione delle condotte relative a tutti i prodotti sostanzialmente non pericolosi (Gruppo E) prima prevista soltanto per il deposito e trasporto di bossoli innescati e micce di sicurezza.
E pur vero che, con riguardo alla condotta di deposito, una lettura coordinata e ragionata del nuovo primo comma dell’art. 97 cit. condotta nella cennata direzione consente in ogni caso di ritenere che essa non può non riguardare anche i nuovi prodotti esplodenti, anche in conseguenza della forma implicitamente aggiuntiva adoperata nel collocarli in seno al primo comma (altro significato giuridico avrebbe assunto una collocazione delle condotte che li riguardano in apposito comma, dal momento che ne avrebbe attestato l’autonoma disciplina); e tuttavia la discrasia risulta comunque sanata dalla nuova formulazione del successivo art. 98 Reg. cit. introdotta sempre dal D.M. in questione, ove i suoi autori, nel regolare specificamente in dettaglio le varie condotte relative ai prodotti esplodenti di cui alla Cat. V, le hanno fortunatamente esplicitate con la dovuta compiutezza. Ed infatti, nell’ultima parte del 3° comma dell’art. 98 Reg. cit. viene detto “…Per le relative attività di deposito, detenzione, vendita, acquisto, trasporto, importazione, esportazione, impiego dei prodotti esplodenti della categoria 5), gruppo E, non sono richieste le autorizzazioni di cui alla legge ed al presente regolamento di esecuzione “.
Altra discrasia riguarda invece i prodotti esplodenti di cui alla Cat. V, Gruppo D, la cui condotta di deposito è stata omessa nella parte novellata dell’art. 97 Reg., mentre sono menzionate tutte le altre che riguardano tali prodotti. Poiché nel successivo art. 98, è prevista, al 2° c., 2 parte, come condotta che pure li riguarda, quella di detenzione (ex art. 38 T.U.L.P.S. e in deposito), ne consegue che essi, oltre che essere acquistati, venduti, trasportati, ed impiegati senza licenza fino a 5 Kg. netti, e detenuti senza denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S., possono pure essere detenuti in deposito senza licenza negli stessi limiti quantitativi degli altri. Piuttosto qui il difetto di coordinamento riguarda più marcatamente proprio la riferita ultima parte del 2° comma dell’art. 98 come novellato dal D.M. 272 cit., ove le nuove condotte di detenzione (senza denuncia ex art. 38 cit., e di deposito), di vendita, di acquisto, di trasporto e di impiego sono svincolate dalle “autorizzazioni di cui alla legge ed presente regolamento di esecuzione”, mentre nella parte novellata dell’art. 97 che li riguarda ciò è vero nei limiti quantitativi di 5 Kg..
Ma un’ulteriore conferma dell’adozione dell’espressione “armi di piccolo calibro” nel significato di “armi portatili” è offerta – questa volta in modo puntuale e specifico - dal nuovo allegato A al Reg. del T.U.L.P.S. introdotto ancora dal citato D.M. 272/2002, sostitutivo del precedente già a sua volta modificato dal D.M. 23/9/1999.
Occorre svolgere, a tal fine, una breve premessa.
Potrà anzitutto notarsi attraverso un semplice raffronto che – così come precisato dall’art. 19/1° c. del D.M. 272 cit. - il nuovo All. A al Reg. cit. contiene l’indicazione delle materie e degli oggetti esplodenti di cui all’All. 1 del D. L. vo 7/1997, integrato tuttavia con l’indicazione, per ciascun prodotto della categoria di classificazione di cui all’82 del Reg. cit.. È detto poi in sostanza nel 2° c. dell’art. 19 D.M. 272 cit. che – attraverso il criterio del doppio adeguamento – l’All. 1 al D. L. vo cit. è sostituito dall’All. A recato dal D.M. 272 cit. che, a sua volta, costituisce il nuovo All. A al Reg. del T.U.L.P.S..
In altri termini, l’art. 82 del Reg. al T.U.L.P.S. elenca tutti i prodotti esplodenti riconosciuti e classificati, ai sensi dell’art. 53 T.U.L.P.S., dal Ministero dell’Interno, i quali sono soggetti, a mente dell’art. 81 Reg. al T.U.L.P.S. cit., alle disposizioni degli artt. 46 e 57 del T.U.L.P.S., in uno a quelli che formano il contenuto del nuovo All. A al predetto Regolamento al T.U.L.P.S. ed a quelli che, in fase di aggiornamento e modifica, vi verranno iscritti con le modalità di cui all’art. 83/5 c. Reg. cit., tra le quali (modalità), anche e soprattutto, quella di provvedere per essi alla “…attribuzione delle categorie di classificazione” giusta il disposto dell’ultima parte del 2° comma dell’art. 19 del D.M. 272 cit.. Ne deriva che, i prodotti esplodenti riconosciuti – sia ai fini del rilascio delle licenze di fabbricazione, di deposito, di trasporto, di acquisto e di impiego, condotte dettagliatamente disciplinate dai successivi All. ti B, C, sia, per alcuni di essi, ai fini della loro detenzione senza denuncia in virtù di quanto dispone l’art. 97 Reg. cit., come integrato dal citato D.M. 272 - sono generalmente classificati nell’art. 82 di detto Regolamento per Categorie (tale classificazione dipende dalla tipologia dell’esplosivo), ed ognuna è singolarmente costituita (ed integrata, per ciò che attiene ai gruppi della quinta,) dai singoli prodotti esplodenti nominativamente specificati in Allegato A, in seno al quale altri ne potranno essere aggiunti in conseguenza del suo aggiornamento. Tanto vero che, come dispone l’art. 19/1° c. D.M. 272 cit., i prodotti esplodenti indicati in All.to A seguono la stessa Classificazione stabilita per quelli indicati nell’art. 82 del Reg. cit., ordinata, come si è detto, per Categorie e, la V, per Gruppi. Così nella prima Categoria dell’art. 82 cit. sono genericamente compresi le “polveri” ed i prodotti affini negli effetti esplodenti; mentre nell’Allegato A è specificato che tali polveri sono quelle “senza fumo” (numeri identificativi 0160-0161), le “polveri nere” (numeri identificativi 0027-0028) e così di seguito, manufatti tutti facenti parte, per l’appunto, della I Categoria secondo la classifica che ne fa l’art. 82 cit.. Identico discorso vale per i prodotti esplodenti affrancati dall’obbligo di denuncia sancito dall’art. 38 del T.U.L.P.S. classificati nell’art. 82 cit. al Gruppo E della V Categoria, il cui elenco risulta integrato, ad. es., dai “rivetti esplosivi” e dai “proiettili inerti con traccianti” (numeri identificativi 0174-0345), anch’essi facenti parte, per l’appunto, della V Categoria, Gruppo E, secondo la classifica che ne fa l’art. 82 cit., ed anch’essi esenti, come tali, dall’obbligo di denuncia. Va tenuto presente che tra i prodotti esplodenti di cui ai Gruppi D ed E della V Categoria di cui all’art. 82 Reg. cit. non sono compresi i manufatti pirotecnici di cui al D.M. 4/3/1973, i quali, pur riconosciuti dall’art. 53 del T.U.L.P.S., continuano ad essere disciplinati dal predetto D.M. - che non li classifica tra i prodotti esplodenti - fino all’emanazione del Decreto di cui all’art. 20 del D.M. 272 cit. che provvederà ad inserirli nella V Cat., Gruppi D ed E.
Il problema della classificazione dei prodotti esplodenti è risolto, giusta quanto prevede la nuova formulazione dell’art. 83/1° c. del Reg. cit., dall’attestato di esame CE del tipo, attuato nella pratica commerciale (e non potrebbe essere diversamente per rendere possibili i relativi controlli) dall’apposizione sul prodotto di un’etichetta indicante la Categoria ed il provvedimento di autorizzazione. La disponibilità di prodotti esplodenti c.d. “sfusi” (che sono le ipotesi più ricorrenti) comporterà la necessità di un accertamento tecnico per stabilire primariamente se si è in presenza di materie esplodenti o di esplosivi a nulla rilevando comunque sotto il profilo del regime sanzionatorio previsto dal Codice Penale per le prime, e dalla L. 895/67 per i secondi - una volta accertata la loro sostanziale natura di esplosivo o di materia esplodente -, la circostanza che essi non risultino tra quelli riconosciuti o meno (in quest’ultima ipotesi risulterà violato anche l’art. 53 del T.U.L.P.S. per le condotte di detenzione – “tenere in casa od altrove”- trasporto e vendita, puniti ex art. 17 T.U.L.P.S. ; e se risulta che chi li detiene, vende o trasporta li ha pure fabbricati, risponderà pure ex art. 24 L. 110/75).
Deve poi aggiungersi che i prodotti esplodenti elencati nell’Allegato A, vengono tenuti distinti da un Numero d’identificazione e da un Codice di Classificazione (oltre che, come già detto, dall’indicazione della Categoria di appartenenza, che riflette quella assegnata dall’art. 82 Reg. cit., giusta il 1° c. dell’art. 19 del D.M. 272 cit.). I Numeri d’identificazione e i Codici di classificazione sono quelli assegnati dalle Direttive europee relative al trasporto delle merci pericolose recepite dalla legislazione nazionale in conformità alle raccomandazioni delle Nazioni Unite. A tale recepimento ha provveduto l’All. I al D. L.vo 2/1/97 n. 7, cui è stato adeguato l’All. II del D.M. 272 cit. (v. artt. 17 e 18 del D.M. 272 cit.). Come già rilevato, l’All.to A al D.M. 272 cit. – che contiene l’indicazione dei prodotti esplodenti di cui all’All. I del D. L.vo 7/97 – ha sostituito l’All. A al Reg. per l’esecuzione del T.U.L.P.S., che risulta pertanto adeguato all’All. I del D. L. vo cit. ed all’All. II del D.M. 272 cit. (artt. 18 e 19 D.M. 272 cit.). La ricognizione normativa sin qui effettuata è utile per segnalare – in ragione di un’ulteriore conferma del significato dell’espressione “armi di piccolo calibro” - che i numeri d’identificazione riportati nell’All. A al Reg. del T.U.L.P.S. sono per l’appunto quelli assegnati ai prodotti esplodenti dagli accordi ONU recepiti dalla nostra legislazione; ed inoltre per sottolineare che detti accordi, aggiornati periodicamente e tradotti in lingua italiana con appositi Decreti Ministeriali, indicano sia il significato da attribuire delle denominazioni dei singoli prodotti esplodenti (l’ultimo accordo tradotto in italiano forma oggetto del D.M. 2/9/2003, mentre l’ultimo aggiornamento, non ancora tradotto, ma immutato rispetto ai prodotti esplodenti iscritti nell’All. A del Reg al T.U.L.P.S., è del Dicembre 2004 ed è in vigore dall’1/7/2005), sia il significato da attribuire ai Codici di Classificazione (lo si può vedere tradotto in All. II al D. L. vo 2/1/97 n. 7, di cui il D.M. 272 cit. costituisce Regolamento d’esecuzione) le cui sigle alfanumeriche sono composte da numeri che indicano le Divisioni di Rischio e da lettere che indicano i Gruppi di Compatibilità delle materie e degli oggetti esplodenti; le une e gli altri sono variamente combinati e, nell’assieme, indicano il loro grado di pericolosità quanto ad efficacia esplosiva nelle situazioni di deposito e di trasporto. Pericolosità che è massima nei prodotti esplodenti con codice di classificazione 1.1.A (come, ad es., nello stifnato di piombo – numero di identificazione 0130 – appartenente alla più ampia categoria dei “detonanti e prodotti affini negli effetti esplodenti” – la III di art. 82 Reg. cit. -), ed è pressoché assente, in qualunque quantità, nei prodotti esplodenti con codici di classificazione 1.4.S appartenenti alla Categoria V/E di cui all’art. 82 Reg., al punto che, oltre ad esserne consentiti la detenzione in deposito, l’acquisto, il trasporto e l’impiego senza licenza, gli stessi sono affrancati dall’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S.. D’altro canto, sono proprio i Codici di Classificazione a distinguere nell’Allegato A anche i prodotti esplodenti indicati con la stessa denominazione, come, ad es., “ i detonatori per munizioni “ di cui agli identificativi ONU 0364, 0365 e 0366. Orbene, se si prendono ancora ad esempio tali detonatori (espressione anomala per indicare l’innesco di una cartuccia), potrà rilevarsi che fra essi appartengono alla Categoria V/E (e quindi non soggetti a denuncia) soltanto i “detonatori per munizioni” costituiti da “inneschi per bossoli per armi portatili come riportato nella nota 14 a piedi pagina dell’Allegato, in implicita ma necessitata contrapposizione, pertanto, alle altre due tipologie di detonatori, allestiti invece per bossoli di munizioni di armi non portatili e, cioè, per quelle d’artiglieria che sono di calibro decisamente più grande di quello delle armi portatili (si pensi, ad es., ai 9 mm. del calibro di una pistola o ai 7,62 mm. del calibro di un fucile a fronte dei 105 mm. del calibro di un cannone). Si spiega così la ragione che ha determinato il legislatore ad indicare in seno all’art. 82 del Reg. al T.U.L.P.S. inneschi e bossoli innescati per munizioni adoperando in via generale una distinzione basata sulla dimensione del calibro delle armi che le camerano, diversificando sotto la stessa quelle “d’artiglieria”, allestite in calibri metricamente consistenti (Gruppo A, n. 1), da quelle che, per essere, al contrario delle prime, portatili, non possono che essere funzionali a munizioni “di piccolo calibro” (Gruppo E, nn. 3 e 4).
Del resto non può non osservarsi conclusivamente che un’ipotetica attribuzione all’espressione “armi di piccolo calibro” di un significato diverso e sottodimensionato da quello di “armi portatili”, con riguardo agli inneschi ed ai bossoli innescati delle loro munizioni, sarebbe, sotto il profilo dell’esenzione dall’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S., del tutto irrilevante, oltre che illogica, dal momento che sia gli uni che gli altri vi sono comunque sottratti, essendo partitamene e specificamente elencati come prodotti esplodenti appartenenti alla Categoria V/E anche nel citato All. to A all’art. 82 del Regolamento (n. 0044 di identificazione “capsule innescanti a percussione” se comuni capsule per cartucce- nota n. 6 a piedi pagina; n. 0366 di identificazione “detonatori per munizioni” se inneschi per bossoli per armi portatili – nota n. 14, già menzionati; n. 0055 di identificazione “bossoli di cartucce vuote con capsule innescanti”). Superfluo aggiungere che tali manufatti sono accomunati dall’identico codice di classificazione “1.4S” che ne attesta la pressoché totale assenza di pericolosità in quanto “oggetti estremamente insensibili non comportanti un rischio di esplosione in massa” da cui è conseguita, come detto, la loro iscrizione nella Categoria V/E e la loro conseguente detenzione senza denuncia in numero illimitato ai sensi dell’art. 97/1° c., seconda parte, del Reg. al T.U.L.P.S..
Ma la parola fine ad un qualche pur lontanissimo dubbio sul significato delle espressioni “bossoli innescati per munizioni per armi di piccolo calibro “ e “ inneschi per munizioni per armi di piccolo calibro” di cui ai nn. 3 e 4 del Gruppo E della V Categoria dei prodotti esplodenti, la mette, in senso pienamente conforme a quanto sin qui sostenuto, proprio il D.M. 2/9/2003 cit., che nello spiegare il significato dell’espressione “cartucce per armi di piccolo calibro”, di cui agli identificativi ONU 0012, 0339 e 0417 così si esprime: “Munizioni costituite da un bossolo con innesco a percussione centrale o anulare contenenti una carica propellente e un proiettile solido. Esse sono destinate ad essere tirate da armi da fuoco aventi un calibro non superiore a 19,1 mm.. Le cartucce da caccia di qualsiasi calibro sono comprese in questa definizione”. E tutte le munizioni c.d. comuni, di cui i relativi inneschi e bossoli innescati sono componenti, sono inferiori a tale calibro, e le armi che le camerano vanno pertanto qualificate armi di piccolo calibro. Non è superfluo rammentare, sia con riguardo al D.M. appena richiamato sia con riguardo al D.M. 273/2002 cit., sia, infine, a tutti gli altri atti aventi analoga natura richiamati nella trattazione dei vari argomenti che si esaminano, il principio generale che trattasi di fonti sott’ordinate alla legge (in questo caso il T.U.L.P.S. e, segnatamente, i suoi articoli 46,47, 50, 51, 53) della cui efficacia puntualizzatrice ed integratrice non può seriamente dubitarsi, sulla scia, peraltro, di una consolidata giurisprudenza sviluppatasi al riguardo in materia di armi (v., ad es., Cass. Pen., Sez. I, 14/6/1995, Diakouski), confermata con lucida ed efficace esposizione in altra pronuncia (Ib. 18/4-23/5/2002, n. 20244, Bucci), riguardante i manufatti pirotecnici non considerati dal D.M. 4/4/1973 come prodotti esplodenti (si è già detto che l’esclusione è stata confermata anche dal nuovo All. A); in tale decisione si è ribadito il carattere sanzionatorio dell’art. 678 C.P. delle condotte disciplinate in veste di precetto dal T.U.L.P.S. (artt. 46 e ss.) ed attuate dagli artt. 81 e ss. del relativo Regolamento e dalle altre fonti sott’ordinate che vi fanno riferimento in funzione integrativa (Allegati A, B, C, - DD. MM. come il D.M. 272/2002 e gli altri citati, etc.).
Altri manufatti non soggetti indubbiamente ad obbligo di denuncia sono i bossoli di artiglieria non ancora innescati e quelli di risulta, ed i bossoli di risulta delle munizioni delle armi corte e lunghe portatili in dotazione ai Corpi Armati dello Stato ed ai reparti militari.
Quanto ai primi, per illustrarne le ragioni, occorre per un verso ritornare brevemente al contenuto del D.M. più volte citato e, più precisamente, alla modifica da esso apportata all’art. 82 del Regolamento al T.U.L.P.S., consistita, come si è visto, nell’avere articolato la V Categoria dei prodotti esplodenti, intitolata “ munizioni di sicurezza e giocattoli pirici”, in cinque gruppi, e, per l’altro, tenere contestualmente a mente ciò che si è detto a proposito della loro capacità lesiva, riscontrabile in quelli elencati nel gruppo A e via via decrescente nei successivi gruppi, fino a divenire pressoché inesistente in quelli facenti parte del gruppo E, al punto che la detenzione di quest’ultimi è consentita in numero illimitato senza obbligo di denuncia e senza licenza. E come si è già detto tale gradualità è attestata dai “Codici di Classificazione” riportati nell’All. II al D. L. vo 2/1/1997, recante norme di recepimento della Direttiva 93/15/CEE, di cui il D.M. più volte citato (272/2002) costituisce Regolamento d’esecuzione.
Ciò posto, in relazione ai primi (bossoli di artiglieria non ancora innescati e bossoli di artiglieria di risulta) deve rilevarsi che, in questo quadro, il D.M. 272/2002, ha qualificato come prodotti esplodenti (allo stesso modo del vecchio allegato A – Cat. V, Gruppo A, n. 2) soltanto i bossoli innescati per artiglieria (V categoria, Gruppo A, n. 1), e non, invece, quelli privi di innesco o quelli di risulta (cioè già sparati) coerentemente alla loro natura, in tale condizione, di materiale inerte e, quindi, inoffensivo in quanto privo, nell’ottica più sopra delineata, di alcuna capacità lesiva. Le conseguenze giuridiche che ne derivano non sono di poco momento: la prima è che, difettando negli stessi tale qualità, essi non possono in alcun modo essere qualificati come “parti di munizione da guerra”, la cui rilevanza penale non può prescindere dalla presenza anche in tali manufatti – considerati, come vuole l’art. 1, u. c., della L. 110/75 norma, tanto nella loro obiettiva autonomia, che nel momento compositivo della munizione – sia delle immanenti cennate caratteristiche, sia soprattutto della loro idoneità, in tali condizioni, a costituire “parti” efficienti delle munizioni d’artiglieria (salvo a sostenere, ma trattasi di impresa ardua, che ciò possa derivare dalla scritta stampigliata sulla base del fondello che ne denota l’appartenenza agli Enti più sopra indicati); la seconda, ancor più importante della precedente, è che il termine “bossoli” di cui all’u. c. dell’art. 1 della L. 110/75 non può che far riferimento ai “bossoli innescati”, i soli, come si è visto, a rivestire ex lege la qualità di prodotti esplodenti per la pericolosità ed offensività possedute dai loro inneschi (sono questi, infatti, che recano al loro interno il propellente innescante mentre i bossoli destinati ad alloggiarli sono, prima di tale operazione, innocui contenitori cilindrici di metallo). E la riprova di quanto si sostiene è costituita proprio dal fatto che in seno al comma della disposizione appena citata non vengono menzionati gli inneschi quali “parti” a sé stanti delle munizioni d’artiglieria proprio perché implicitamente ricompresi nel termine “bossoli”: si ponga mente al fatto che – data la tassatività dell’elenco delle parti di munizioni da guerra di cui all’u. c. dell’art. 1 della L. 110/75 - una diversa interpretazione porterebbe a svincolare dall’area penalmente rilevante tali inneschi, costituenti gli effettivi prodotti esplodenti dei bossoli innescati d’artiglieria.
Ma anche a voler teorizzare in un bossolo d’artiglieria privo d’innesco la sua qualità bellica, nella realtà essa rimarrebbe fine a sé stessa non essendo prefigurabile nemmeno l’astratta prospettiva di un loro caricamento ad opera dei privati. Sotto il profilo tecnico (che è quello su cui vanno modellati i concetti di concreta “idoneità” o di “assoluta inidoneità” all’uso delle armi, delle munizioni e prodotti esplodenti, refluenti rispettivamente su quelli di rilevanza penale e del suo opposto) l’operazione di caricamento dei bossoli d’artiglieria è per i privati assolutamente irrealizzabile, essendo esclusivamente attuabile con l’uso dei complessi ed ingombranti macchinari industriali posseduti dalle imprese deputate all’allestimento originale delle munizioni per l’artiglieria pesante, medio-pesante e leggera (costituita da obici, cannoni di vario calibro e mitragliatrici non portatili). E lo stesso è a dirsi in relazione ai bossoli di risulta, il cui riutilizzo richiederebbe, a seguito della loro dilatazione conseguente allo sparo, la ricalibratura del bossolo prima del suo nuovo caricamento, che andrebbe eseguita attraverso l’uso di altri macchinari complessi quanto i primi. Ed il condizionale è d’obbligo, datosi che, per ragioni di insufficiente sicurezza legate alla possibile compromissione della struttura metallica del bossolo provocata dalle non indifferenti pressioni conseguenti allo sparo, i competenti stabilimenti militari o le imprese delegate provvedono soltanto all’innescamento ed al caricamento di bossoli d’artiglieria nuovi di conio, ma non al riallestimento di quelli già sparati; non è senza importanza rammentare al riguardo che, nel corso dei due conflitti, tali manufatti, dopo lo sparo, venivano abbandonati sul terreno divenendo res derelictae e, quindi, nullius (del resto, la questione acquista una qualche rilevanza proprio in relazione alla detenzione da parte di privati di tali manufatti di risulta rinvenuti abbandonati su terreno teatro di operazioni belliche).
L’avere pertanto collocato il legislatore tra i prodotti esplosivi (intesa l’espressione in senso amplissimo) esclusivamente i bossoli d’artiglieria innescati e non invece a quelli privi d’innesco o di risulta (utili per essere impiegati come originali contenitori, portaombrelli o vasi di fiori) rende inaccettabili quegli orientamenti giurisprudenziali di legittimità che - in conseguenza di soluzioni approssimative e scorrette sotto il profilo tecnico-balistico e appiattite su una rigida ed indiscriminata interpretazione dell’ultimo comma dell’art. 1 della L. 110/75, indotta dal generico riferimento che ivi vien fatto al termine “ bossoli” - hanno sinora equiparato anche i bossoli non innescati e quelli di risulta con innesco definitivamente compromesso alle parti di munizioni da guerra, ritenendo (erroneamente) legittima, a far data dall’entrata in vigore della L. 110/75, l’estensione anche a tali manufatti del pesante regime sanzionatorio previsto, dalla L. 895/67 (va rimarcato che ciò costituisce effetto diretto ed immediato dell’attribuzione all’art. 1 della L. 110/75 cit., da parte della giurisprudenza di legittimità, di una funzione integratrice della L. 895/67 in punto di parti di bombe e parti di munizioni da guerra, non disciplinate né da tale ultima normativa, né, in precedenza, dall’art. 28 del T.U.L.P.S. ).
Le considerazioni sin qui svolte in ordine alla qualità di inerti assolutamente privi di alcuna capacità lesiva dei manufatti sin qui esaminati non possono poi non valere, ed a maggior ragione, per i bossoli non innescati o con innesco percosso relativi alle munizioni delle armi di reparto portatili lunghe e corte nella disponibilità dei Corpi Armati dello Stato e dell’Esercito. La questione si pone esclusivamente per i bossoli di risulta delle munizioni in cal. 9x19 mm., 5,56x45 mm. e 7,62x51 caricate per tali Enti secondo specifiche NATO, qualificati erroneamente dalla giurisprudenza di legittimità come parti di munizione da guerra.
Anche qui deve rilevarsi, invero, che tali manufatti, obiettivamente considerati in tale stato, sono privi di alcuna capacità lesiva, non andando oltre la consistenza di innocui pezzetti di ottone di forma cilindrica o cilindrica a bottiglia. Considerati poi in un ipotetico assetto funzionale volto all’assemblamento della munizione, non potrebbero, in tale stato, mai soddisfare tale finalità in quanto privi di innesco o con innesco utilizzato, ciò che impedisce (allo stesso modo dei bossoli d’artiglieria non innescati o con innesco sacrificato) la loro destinazione a costituire parte efficiente di una munizione. La consunzione del propellente contenuto negli inneschi a seguito della percussione non consente del resto di qualificare tali bossoli di risulta come “prodotti esplodenti”; tanto vero che né l’art. 82 del Reg. al T.U.L.P.S. né il suo Allegato ne fanno menzione, mentre quest’ultima disposizione qualifica tali soltanto le munizioni “comuni e da guerra” nella loro interezza (V Categoria, Gruppo A, n. 5). Quanto alla possibilità di un loro riutilizzo, non vi è dubbio che gli stessi, a differenza dei bossoli di risulta d’artiglieria, possono formare oggetto di ricarica da parte dei privati, attività che, tuttavia, è svincolata da qualunque licenza; ricarica che viene eseguita - così come per tutti gli altri bossoli metallici residuati dopo l’attività di sparo svolta dai privati nei poligoni o in altri luoghi che la consentono - con strumenti meccanici di libera vendita, attraverso il decapsulamento dell’innesco già percosso, la ricalibratura del bossolo, l’alloggiamento di altro innesco (gli inneschi, come già si è visto, sono di libera vendita, liberamente detenibili ed impiegabili in quantità illimitata senza obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. – v. artt. 97, 1° c., II parte, Reg. al T.U.L.P.S., 82, V Cat., Gruppo E, n. 4, ed all. to A al Reg. cit. n. d’identif. 0044), l’inserimento all’interno del bossolo della necessaria dose di polvere da sparo (lecitamente acquistata e detenuta) e l’assemblamento del proiettile (si rammenta che i proiettili sono liberamente acquistabili e detenibili in qualunque quantità non costituendo prodotti esplosivi – art. 16, comma 4°, D.M. 272/2002 cit.). Ed è altrettanto certo che, all’esito dell’attività di ricarica di tali bossoli, le munizioni che se ne ricavano costituiscono a tutti gli effetti munizioni c.d. comuni per la semplice ragione che nel mercato civile sono in vendita numerosissime armi in calibro metricamente speculare a quello delle predette tre munizioni adoperate dagli Enti più sopra indicati. Calibri che, per essere anche propri di munizioni che sono nella disponibilità dei privati in uno ad altri di dimensioni più consistenti, portano ad escludere che le relative munizioni siano dotate di quella spiccata potenzialità offensiva in grado di conferire loro, o – come vuole l’art. 1/1° c. della L. 110/75 - alle armi che le impiegano, l’etichettatura bellica. Salvo a ritenere – ma, come si è già rilevato, si rischierebbe il ridicolo - che essa possa derivare dalla dicitura stampigliata sulla base del fondello di tali bossoli che ne denota l’appartenenza ai suddetti Enti, utile, semmai, come si vedrà a breve, per l’accertamento di altre circostanze fattuali.
In questa direzione, è degno di nota rammentare il contenuto di un parere obbligatorio (mai in prosieguo mutato) emesso dalla Commissione Consultiva di cui all’art. 6 della L. 110/75 che, nel già 1999, prendeva le debite distanze dall’indirizzo giurisprudenziale che si avversa, giungendo – sia pure ponendo l’accento sulle particolari caratteristiche tecniche di caricamento che contraddistinguono le munizioni c.d. da guerra – alle conclusioni più sopra rassegnate sia in punto di esclusione per esso della qualifica di parte di munizione da guerra, sia in punto di qualifica di munizioni comuni delle cartucce caricate utilizzando il predetto bossolame, (legittimate invece dall’utilizzo dei percorsi normativi tracciati dal D.M. 272/2002 e fondanti sulla qualità di materiale inerte del bossolame di risulta).
L’occasione che dava origine all’emissione del riferito parere è legata alla sorte dei bossoli di risulta residuati dopo le esercitazioni effettuate dai Corpi Armati dello Stato o dagli Enti Militari, che, fino al 1999 venivano scrupolosamente recuperati non per un loro riutilizzo (le munizioni che vengono adoperate dagli Enti in questione sono sempre nuove di fabbrica), bensì a causa della qualità giuridica agli stessi attribuita dai riferiti orientamenti giurisprudenziali, pur nella consapevolezza da parte dei predetti Corpi ed Enti che, al contrario, trattavasi di oggetti inerti ed inoffensivi. Proprio tale consapevolezza – cui, sotto il profilo pratico, si assommava un dispendio di energie e di tempo non indifferente dato l’elevato numero di bossoli da raccogliere dopo le esercitazioni con armi portatili per sottoporli alla conseguente rottamazione (il Ministero della Difesa aveva dovuto, per tale finalità, acquistare dei macchinari costosissimi) – determinava nel 1999 tale Dicastero a porre al Ministero dell’Interno il preciso quesito se “i bossoli risultanti dallo sparo di munizioni per arma da guerra portatile individuale debbano ricomprendersi tra le parti di munizioni da guerra ai sensi dell’art. 1, 3° comma, L. 18/4/1975 n. 110”.
La risposta veniva formalizzata nella Circolare cui si accennava e che si riporta per esteso:
“ MINISTERO DELL'INTERNO - N. 559/C-50,133-E-99 - 22 marzo 1999.
OGGETTO: Bossoli per armi portatili da guerra sparati. Quesito.
All’Ispettorato logistico dell’Esercito – Dipartimento dei trasporti e Materiali. Reparto Materiali per il combattimento – Ufficio Armamento – R O M A
Con la nota in riferimento codesto Ispettorato ha chiesto di conoscere se i bossoli risultanti dallo sparo di munizioni per arma da guerra portatile individuale debbano ricomprendersi tra le parti di munizioni da guerra ai sensi dell'art, 1, 3° comma, legge 18 aprile 1975, n. 110.
Al riguardo si comunica che la Commissione consultiva centrale per il controllo delle armi, nella seduta del 3 marzo 1999, considerato che le munizioni destinate alle armi da guerra sono prodotte in risposta a rigorosi capitolati emessi dall'Amministrazione Difesa e di conseguenza una cartuccia allestita ricaricando un bossolo usato di provenienza militare non sarebbe destinabile al caricamento delle armi da guerra, ha espresso il parere, condiviso da questo Ministero, che in relazione al 3° comma dell'art. 1 della legge 110/75, i bossoli in argomento non possono essere considerati parti di munizioni per armi da guerra mancando il requisito della destinazione, espressamente previsto dalla norma; ad essi, piuttosto, appaiono applicabili le previsioni di cui all'art. 97 del Regolamento al T.U.L.P.S. (liberamente detenibili in numero illimitato, ancorché preinnescati), posto che la loro disponibilità derivi da ordinaria procedura di alienazione da parte dell’Amministrazione Difesa o da rinvenimento quali “res derelictae” “.
Esaminando il contenuto di tale parere, degne della massima sottolineatura appaiono le motivazioni poste a sostegno del medesimo, che sconfessano l’avversato orientamento giurisprudenziale facendo leva proprio sull’insussistenza degli stessi elementi assunti a suo fondamento. Vi si precisa, infatti, correttamente che, essendo le munizioni destinate alle armi da guerra prodotte in risposta a rigorosi capitolati emessi dall'Amministrazione Difesa secondo le specifiche NATO, una cartuccia allestita dal privato ricaricando un bossolo usato di provenienza militare non è destinabile al caricamento delle armi da guerra, con l’ovvia conseguenza che la munizione così ottenuta non può che essere annoverata tra quelle c.d. “comuni”. Dato, quest’ultimo, chiaramente individuabile in seno al parere nel punto in cui la Commissione Consultiva ha dichiarato applicabili ai detti bossoli le previsioni di cui all'art. 97 del Regolamento al T.U.L.P.S. e cioè che gli stessi sono liberamente detenibili in numero illimitato senza licenza prefettizia, ancorché preinnescati (e senza obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S., come successivamente precisato dalla 2 parte del 1° c. dell’art. 97 cit. a seguito dell’integrazione apportata a tale ultima norma dal D.M. 272/2002). Si aggiunge poi in esso che - a cagione dell’impossibilità, così operando, di realizzare una munizione con quelle specifiche NATO in grado di farla qualificare “da guerra” - i bossoli in argomento non possono essere considerati parti di munizioni da guerra difettando nella munizione ottenuta “il requisito della destinazione” ad essere impiegata per il caricamento (delle cartucce) delle relative armi (art. 1, u. c., L. 110/75). Mancanza di destinazione necessariamente legata allo stato attuale del bossolo non più idoneo, in astratto ed in concreto, dopo lo sparo della cartuccia di cui esso costituiva parte, ad essere ricaricato dal privato secondo le predette specifiche, e non invece – come sostenuto dalle pronunce avversate – riferibile alla destinazione posseduta originariamente dal bossolo costituente, prima dello sparo, la munizione caricata secondo le indicazioni NATO. Peraltro, la stessa Commissione indicava chiaramente nel parere che il requisito dell’attualità della destinazione - il solo in grado di conferire ad una cartuccia o ad una sua parte la qualifica di munizione da guerra - è realisticamente rappresentato da un dato normativo e, cioè, dall’u. c. dell’art. 1 della L. 110/75.
Deve poi aggiungersi che, per quanto il quesito posto dal Ministero della Difesa avesse avuto riguardo ai bossoli di risulta delle munizioni esplose con le armi portatili in dotazione ai predetti Enti, la risposta fornita dalla Commissione Consultiva veniva resa con riguardo ai bossoli di tutte le munizioni da guerra, compresi, quindi, i bossoli d’artiglieria di risulta, da considerarsi, per come dispone l’art. 82 del Reg. al T.U.L.P.S., prodotti esplodenti e, come tali, parti di munizioni da guerra efficienti per una loro destinazione ad assemblare l’intera munizione, soltanto se innescati.
La Commissione Consultiva non mancava piuttosto di sottolineare, infine, l’obbligo in capo al privato detentore di dare conto della provenienza del bossolame detenuto, risultando la sua appartenenza agli Enti Militari dalle sigle alfanumeriche e dal simbolo stampigliati sulla base del fondello dei singoli bossoli; provenienza da considerare legittima soltanto nelle ipotesi di acquisto da parte dei privati a seguito di ordinaria procedura di alienazione formalizzata dall’Amministrazione (ed è questa la sorte della maggior parte del bossolame di risulta senza che possa ipotizzarsi in capo alle Ditte private acquirenti alcunché di illecito penalmente rilevante), o da rinvenimento conseguente al loro stato di abbandono.
Di talché, a fronte del parere veicolato dalla riferita Circolare fondato su incontestabili dati tecnici e normativi e della qualità di oggetti penalmente irrilevanti rivestita dal bossolame in questione - prevista per esclusione, come si è visto, in via normativa -, non trova alcuna ragionevole spiegazione la reiterazione, ancora nel 2004, di pronunce di segno contrario (Cass. Pen., Sez. I, n. 24267/04, Reale), unicamente ascrivibili, a questo punto, a pervicace appiattimento all’originario orientamento. Peraltro, con riguardo alla Circolare detta, non può nemmeno sostenersi che, difettando essa di cogente valore normativo, sarebbe del tutto lecita la scelta di non tenerne conto. E ciò in quanto la stessa non esprime un parere proprio del Ministero, ma veicola il giudizio (fatto proprio da quest’ultimo) dell’unico organismo deputato ex art. 6 della L. 110/75, a dare pareri obbligatori sulle qualità “comuni” o “belliche” possedute da un’arma, ma anche “su tutte le questioni di carattere generale e normativo relative alle armi “ e, per conseguenza ed a maggior ragione, anche sulle loro munizioni e le loro parti. Deve pertanto aggiungersi che la decisione indicata risulta resa anche in violazione di un preciso parere tecnico emesso obbligatoriamente da un organo cui istituzionalmente viene riconosciuta indiscussa competenza in materia (superfluo aggiungere che il parere della Commissione è stato recepito dal Ministero della Difesa che già da tempo provvede ad alienare i bossoli di risulta).
Quindi ancora una decisione che qualifica in via generale munizioni da guerra (si vedrà nello specifico che trattavasi invece di bossoli di munizioni comuni) bossoli di risulta di una cartuccia “in dotazione alla NATO” (espressione errata, dovendosi invece dire “caricata secondo specifiche NATO”), esplosa da un’arma portatile in dotazione agli Enti sopra indicati (e tanto al di là della ricalcata macroscopica imprecisione tecnica di formulazione contenuta nell’u. c. dell’art. 1 della L. 110/75, che qualifica munizioni anche i bossoli e proiettili che nulla hanno a che vedere con le prime, costituendone parti). E con la solita motivazione: la sufficienza dell’originaria destinazione conseguente alla non necessità che si tratti di (parti di) munizioni atte all’impiego, attribuendosi così artificiosamente all’oggetto del reato una qualità essenziale non più posseduta, laddove essa (la destinazione, cioè) non può che essere attuale ed immanente nel momento del commesso reato, datosi che soltanto munizioni in grado di sparare, in quanto risultanti dall’assemblaggio di “parti” che consentano di conseguire tale risultato, possono alimentare le armi da sparo. E l’artificiosità dei requisiti della sufficienza della destinazione originaria e della non rilevanza dell’efficienza di tali manufatti diventano anche assurde sol che si consideri che, ragionando in questo modo, dovrebbero essere considerati (parti di) munizioni efficienti bossoli, anche d’artiglieria, schiacciati, o con corpo cilindrico crepato, o forato, o dimezzato, datosi che in origine costituivano (parti di) munizioni efficienti. Si pensa poi di non essere lontani dal vero se si ipotizza che la non necessità dell’efficienza delle munizioni (o delle loro parti) sia stata desunta dalla giurisprudenza di legittimità dal contesto della L. 895/67 ove – nell’art. 1 e nei successivi articoli che vi fanno riferimento - l’inciso “ atte all’impiego” viene riferito alle armi ed alle loro parti e non alle munizioni. Può semplicemente osservarsi in contrario – con la conseguenza che l’assunto in contestazione si rivela assolutamente erroneo ed oltretutto inaccettabile sotto il profilo tecnico e giuridico - che la precisazione dell’idoneità all’impiego viene esplicitamente riferita alle armi ed alle loro parti perché sono queste - e non le munizioni assemblate in unico corpo e destinate a mantenersi così nel tempo - a possedere un assetto meccanico di parti mobili e fisse esposte di solito ad usure o ad eventi traumatici di varia natura refluenti in modo relativo od assoluto sulla loro efficienza, donde la necessità dell’accertamento della loro idoneità all’impiego per essere qualificate tali. Non potrà poi non notarsi che l’apparente mancanza di tale qualità riguarda anche gli esplosivi ed i congegni micidiali. Ma anche per essi vale la stessa spiegazione data con riguardo alle munizioni ed alle loro parti. Essi, infatti, per essere considerati penalmente rilevanti, devono essere perfettamente efficienti al momento dell’accertamento di una delle condotte di cui costituiscono elemento materiale. Ed anche qui deve rilevarsi come invece – a mente dell’assunto giurisprudenziale che si contesta – dovrebbe essere qualificato esplosivo la struttura cilindrica esterna di un candelotto privo del suo contenuto di dinamite solo perché un tempo la conteneva; laddove, con riguardo ai congegni micidiali, questi possono essere considerati tali solo se ed in quanto siano dotati in atto di tale qualità (della micidialità, cioè, e quindi della loro idoneità all’impiego) senza necessità di alcuna esplicitazione in proposito, dal momento che l’esserne privi li degrada ad oggetti penalmente irrilevanti. Il vero è che, tornando ai bossoli di risulta, manufatti del genere sono simulacri dell’oggetto rappresentato in precedenza, avendo irreversibilmente perduto tecnicamente ogni possibilità di essere ripristinati per l’impiego originario. Ed in tal senso, ove ancora necessario, può trovarsi un’ampia e troncante conferma ancora nel D.M. 272/2002 cit. che sancisce la piena liceità della detenzione sugli scaffali all’interno dei locali delle armerie ove è ammesso il pubblico (deve rammentarsi che i titolari delle armerie sono dei privati) dei manufatti di IV e V categoria di cui all’art. 82 Reg. al T.U.L.P.S. e, cioè, degli artifici e prodotti affini negli effetti esplodenti “inertizzati e/o loro simulacri”. Solo per fare qualche esempio, possono rammentarsi i gusci di granate da esercitazione a mano o per fucile della IV Categoria, prive del propellente e quindi non idonei in atto all’originario impiego(All. A n. identif. 0318 – IV Categoria). Ed a nulla varrebbe obiettare, per questo tipo di manufatti, che, essendo “parti di arma da guerra” (cosi qualifica impropriamente le bombe e le loro parti l’art. 1/1°c. della L. 110 cit.), la liceità della loro detenzione è conseguente, giusta quel che dispone l’art. 1 della L. 895/67, ad un accertamento dell’inidoneità al loro impiego. Infatti, a far bella mostra di sé sugli scaffali delle armerie possono essere detenuti, come si diceva, anche i manufatti della V Categoria e, cioè, per fare qualche esempio bossoli d’artiglieria di risulta o privi d’innesco, spolette a percussione prive d’innesco e del propellente, cartucce per armi da guerra private dell’innesco e del propellente, cartucce per armi da guerra con bossolo crepato o forato e via discorrendo che costituiscono simulacri o inerti di bossoli d’artiglieria (art. 82 Reg. al T.U.L.P.S., Cat. V, Gruppo A, n. 1), di spolette a doppio effetto per artiglieria (ib. n. 3) e di cartucce da guerra (ib. n. 5). E trattasi, salvo abbaglio, proprio di quei manufatti che secondo l’orientamento avversato dovrebbero essere qualificati (parti di) munizioni da guerra a prescindere dalla loro efficienza e per il fatto che in origine lo erano. Soluzione ripudiata ancora dal D.M. 13/6/2003 che integra l’elenco dei materiali d’armamento indicati nel già richiamato art. 2, comma 2, della L. 185/90, che, nel contesto di un pregresso quadro normativo che considera tali manufatti privi di rilevanza penale, nella nota 2 della Categoria 3 esclude coerentemente da detto materiale “ le munizioni demilitarizzate tramite foratura o deformazione del bossolo” ed, a maggior ragione, le loro parti. Deformazione, è proprio il caso di precisare, conseguente anche a dilatazione del bossolo a seguito dello sparo.
Non c’e bisogno, a questo punto, di aggiungere altro. È necessario soltanto ribadire che l’attualità dell’efficienza delle munizioni da guerra e delle loro parti è normativamente stabilita dall’art. 1/u. c. della L. 110/75, posto che possibilità di destinazione al caricamento significa proprio attuale efficienza ad essere impiegate per la loro finalità. Dato così conto dell’inesattezza della posizione giurisprudenziale ancora una volta enunciata in via generale nella decisione più sopra indicata, andando oltre nella lettura della motivazione ci si può accorgere del pesante errore commesso dai Giudici di legittimità, che hanno attribuito la qualifica di (parti di) munizioni da guerra a bossoli di cartucce cal. 7,62x39 mm.. Errore che, sia pure indotto dal contenuto delle decisioni impugnate, che hanno confuso maldestramente tale calibro con quello delle munizioni in cal. 7,62x51 mm. caricate secondo specifiche NATO, non appare assolutamente scusabile per il motivo che, ad un rapidissimo controllo del Catalogo Nazionale (controllo che certamente compete al Giudice di legittimità non investendo il fatto ma una qualificazione giuridica), sarebbe emerso che le armi in cal. 7,62x39 mm. e, quindi, le relative munizioni sono comuni essendovene state iscritte tra fucili, carabine e pistole ben ventisei (nn. 8193, 8088, 7260, 6905, 6273, 14952,14025, 14023, 12947, 12935, 12821, 12733, 12732, 12688, 12687, 12219, 11963, 11936, 11521, 11461, 11389, 11386, 10357, 10356, 10338, 10116).
All’esito della ricognizione normativa sin qui condotta risultano rispettivamente detenibili in quantità illimitata, senza l’obbligo della denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. e senza la licenza prefettizia di cui all’art. 97 Reg. al T.U.L.P.S., - sia perché materiale inerte sia perché, pur qualificati prodotti esplodenti, privi di alcuna pericolosità nell’impiego e nel trasporto -, bossoli non innescati e di risulta di munizioni per armi portatili, bossoli di risulta di munizioni d’artiglieria, proiettili e pallini di armi portatili comuni, proiettili di risulta e loro parti di munizioni d’artiglieria, ed inneschi e bossoli innescati di munizioni di armi portatili comuni, nonché bossoli di risulta, ancorché preinnescati.
Allo stesso modo e per le ragioni già enunciate sono affrancati dalla denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. sia le armi c.d. “bianche” per le quali risulta autorizzabile il porto (soltanto il bastone animato), sia le armi c.d. “bianche” (pugnali, stiletti, e manufatti che ne riproducono la struttura) e gli strumenti il cui porto è vietato in modo assoluto (art. 4/1° c. L. 110/75), sia gli strumenti il cui porto è consentito per giustificato motivo (art. 4/2°c. L. 110/75), tra i quali i dardi delle balestre per il principio enunciato dalla decisione più sopra indicata, applicabile de plano alle baionette, alle sciabole, alle spade, alle alabarde, alle lance ed a tutti gli altri oggetti similari. Tale norma, che ha innovato l’intera materia, vieta, per l’appunto, soltanto il porto e non la detenzione di tutti i manufatti che precedono per i quali, rappresentando una categoria a sé stante rispetto alle armi da comuni da sparo, un obbligo di denuncia avrebbe dovuto essere esplicitamente normato così come è accaduto per le armi antiche (art. 7 D.M. 14/4/1982). Peraltro si è già posto in evidenza che, in ogni caso, tutti i predetti oggetti non consentirebbero tale adempimento in quanto generalmente anonimi perché così posti in libero commercio, privi, cioè, di quelle indicazioni funzionali (marca, matricola, modello) alla realizzazione di un controllo di P.S. teso, attraverso la verifica dei dati d’identificazione, all’accertamento della rispondenza del manufatto a quello in precedenza denunciato.
Altri manufatti svincolati legislativamente dall’obbligo di denuncia sono le armi ad aria o a gas compressi con modesta capacità offensiva (art. 8 D.M. 362/2001) e le repliche di armi antiche ad avancarica a colpo singolo (artt. 15 ed 8 D.M. cit). Con riguardo alle prime deve segnalarsi una decisione dei Giudici di legittimità (Cass. Sez. I, 17/06/2005 n. 33670) – che va iscritta a pieno titolo tra quelle che interpretano la normativa in materia secondo il “diritto vivente” – con la quale, per un verso, si è ribadito l’ininfluenza della formale iscrizione in Catalogo di una di tali armi a fronte di un accertamento tecnico che limitava la sua capacità di imprimere al proiettile un’energia cinetica al di sotto dei 7,5 Joule, e, per l’altro, si è ribadito – giusta il chiaro disposto dell’art. 11 della L. 526/99 – che tra le armi con modesta capacità offensiva rientrano anche le c.d. armi “da bersaglio da sala” (e, cioè, i fucili e le pistole nei cal. 6 mm. e 9 mm. Flobert) quando il proiettile o i pallini dalle stesse esplosi non superino al vivo di volata l’energia detta. I fucili in tali calibri non sono iscritti in Catalogo in quanto – essendo con canna ad anima liscia – rientrano nella categoria delle armi da caccia, al contrario delle pistole che, pur essendo dotate dello stesso tipo di canna - seguono la regolamentazione prevista dall’art. 7 della L. 110/75. Trattasi di armi già di per sé destinate a camerare cartucce solitamente a bassa capacità lesiva, utilizzate, nelle armi lunghe, per la caccia a piccoli nocivi o a selvaggina di piccola taglia, che solitamente superano tuttavia il limite della soglia del quantitativo di energia prevista per il loro declassamento (la loro energia cinetica si aggira infatti intorno ai 25 Joule per le cartucce a palla in cal. 9 mm. – pressoché identica pertanto a quella massima di una carabina ad aria compressa - e, quindi, di gran lunga inferiore a quelle dei proiettili delle munizioni camerate dalle armi comuni che partono da energie superiori agli 80 Joule; superfluo aggiungere che il cal. 9 mm. Flobert non ha nulla a che vedere con il cal. 9 mm. Pb.). Ma al di là di ciò, quel che risalta nella decisione è il principio di fondo, mutuato dalla riforma legislativa, di escludere dal novero delle armi da sparo tutte quelle i cui proiettili erogano un’energia cinetica inferiore a 7,5 Joule, o perché tali all’origine (ma è sempre possibile la dimostrazione del contrario gravante sull’accusa) o perché risultate tali a seguito di accertamento tecnico. La decisione in questione – assorbendo quella di segno contrario emessa in argomento qualche anno fa dai Giudici di legittimità (Sez. I, 8/7/1999, n. 8771) – esime dallo svolgimento di qualunque considerazione sull’erroneità del convincimento esplicitato in quest’ultima che la congiunzione “ nonché “ di cui al 3° comma dell’art. 2 della L. 110/75 fosse preclusiva di un accertamento dell’idoneità offensiva anche in relazione alle armi da bersaglio da sala siccome, sempre a mente di tale decisione, esclusivamente riferibile alle armi ad aria compressa.
VII
La vicenda oggetto del presente procedimento – e si passa così ad affrontare la questione principale, non senza soffermarsi brevemente su quelle che le fanno da necessaria cornice - trae origine, come si è detto, dalla contestazione mossa all’odierno prevenuto di avere detenuto n. 16 cartucce cal. 12 caricate a palla senza averne fatto denuncia.
È stato già rilevato che, in dipendenza dell’esplicito comando legislativo formulato dal legislatore del ’31 nell’art. 38 T.U.L.P.S. (mai sino ad oggi modificato), le condotte di detenzione delle armi, delle munizioni e gli esplosivi devono essere denunciate all’Autorità di Polizia (c. 1°) al fine di renderla edotta per ragioni di pubblica sicurezza dei quantitativi e delle specie di tali manufatti che si trovano in un determinato territorio e di procedere in ogni momento al controllo in capo al detentore dell’attuale rispondenza con quelli originariamente denunciati. Quanto ai destinatari, la norma pone tale obbligo come principio d’ordine generale da osservarsi da parte di chiunque e da assolversi con immediatezza. Con riguardo al suo oggetto essa si esprime in modo omnicomprensivo menzionando genericamente armi, munizioni e materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità.
Tale principio generale risulta attenuato, come detto, nei confronti di talune ristrette categorie di persone ed enti esenti da tale obbligo in ragione, rispettivamente, delle loro qualità professionali, personali e dell’attività esercitata (art. 38 T.U.L.P.S. e 57 Reg. Es. T.U.L.P.S. ) e nei limiti oggettivi già esplicitati.
Ma la condotta di detenzione di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. non deve essere confusa con quell’altra, fattualmente omologa, disciplinata dall’art. 97 del Regolamento cit., ove, tra gli altri manufatti ivi indicati, vengono prese in considerazione in modo specifico, a fronte della genericità con cui vi fa riferimento l’art. 38 cit., le munizioni per fucile da caccia, oggetto dell’odierna imputazione. Tale norma, che concerne anche i prodotti esplodenti già esaminati sotto altri profili, risulta infatti introdotta in una prospettiva diversa dalle esigenze presidiate dall’art. 38 cit. e, cioè, in quella tendente alla prevenzione degli infortuni e dei disastri. È così che sono infatti intitolati gli spazi che il T.U.L.P.S. ed il relativo Regolamento (rispettivamente il capo V° del Titolo I1° ed il § 11 del Titolo I1°) dedicano ad una serie di condotte concernenti gli esplosivi, le materie esplodenti e le munizioni, raggruppati in seno agli artt. 81, 82, 83 del Regolamento, come modificati dal D.M. 272/2002 più volte citato, sotto l’espressione oltremodo generica ed omnicomprensiva di “prodotti esplodenti” la cui detenzione in deposito, unitamente alle altre condotte ivi descritte, viene presidiata – salvo talune eccezioni - dal rilascio di apposite licenze. Proprio la cennata differente prospettiva spiega poi sia la ragione per cui, diversamente dall’art. 38 T.U.L.P.S., nell’art. 97 cit. non vengono prese in considerazioni le armi (in sé considerate sono infatti degli oggetti inerti), sia perché la norma che disciplina la condotta di detenzione in questione e le altre indicate nel suo 1° comma apre - ancora a differenza dell’art. 38 T.U.L.P.S. - in chiave permissiva, affrancando determinati quantitativi di munizioni e di altri prodotti esplodenti dallo specifico adempimento di munirsi di licenza.
La condotta di detenzione cui si fa riferimento è quella che nell’art. 97 del Reg. cit. viene indicata con l’espressione “…tenersi in deposito…” sul cui significato vanno svolte alcune brevissime notazioni che risulteranno utili per comprendere – ferma restando l’autonomia dell’area di disciplina di tale norma rispetto a quella dell’art. 38 T.U.L.P.S. - taluni modi di interagire delle stesse tra loro e con l’art. 26 della L. 110/75 (norma risolutiva della questione centrale che si esamina) in tema di munizioni per fucile da caccia e delle materie esplodenti (inteso tale ultimo termine nell’accezione che tra breve si dirà) a seguito di condivisibili interpretazioni giurisprudenziali, modi di interagire nel cui contesto va inquadrata, come si è appena detto, la soluzione della questione che si tratta.
Essa non evoca infatti una condotta riferibile soltanto a chi con le munizioni entra in relazione commerciale, ma è sinonimo anche di mera detenzione delle stesse da parte dei singoli all’interno di un determinato luogo coincidente di solito con l’abitazione. Ed in questo senso l’espressione è stata sempre recepita in sede amministrativa e giudiziaria. Del resto, che il legislatore del ’40 intendesse riferirsi con tale termine anche alle dimore dei privati emerge chiaramente dalla lettura dell’art. 50 del T.U.L.P.S., in seno al quale il legislatore del ’31 preannunciava che il relativo Regolamento avrebbe dovuto determinare le qualità e le quantità delle polveri e degli altri esplodenti che “possono tenersi in casa o altrove…. senza licenza “; e l’unica norma che nel Reg. cit. disciplina tale ipotesi è, per l’appunto, il 1° comma dell’art. 97 ove i luoghi “ in casa “ ed “ altrove “ venivano resi con il termine omnicomprensivo “ in deposito “.
Lo stesso Ministero dell’Interno, in una Circolare diretta agli Uffici Territoriali del Governo ed alle Questure (n. 557/B. 20013-1017(1) del 31/3/04), in risposta ad un quesito concernente esclusivamente le munizioni ed in particolare la possibilità per i privati di detenerne in deposito, previo rilascio di licenza, in numero superiore a quello di cui al 1° c. dell’art. 97 per esigenze sportive, desumeva dal contenuto di tale comma che “…Sembra, quindi, potersi ritenere che le disposizioni di cui all’art. 97, in relazione al deposito di cartucce, comprese quelle di cui al relativo 3° comma, si riferiscano ad un deposito sui generis e non al deposito di esplosivi in appositi locali, adibiti a tale scopo e soggetti a determinate prescrizioni (All. B Reg. T.U.L.P.S. ), tra cui i requisiti di sicurezza determinati dalla Commissione tecnica (provinciale) di cui all’art. 49 del citato T. U.”. Del tutto ovvio che l’orientamento dal Ministero – riguardante le munizioni in quanto esclusivo oggetto del quesito postogli - risulta perfettamente estensibile a fortori alle polveri da sparo, pure comprese nel 3° comma dell’art. 97 Reg. cit. attraverso l’indicazione della Categoria di appartenenza, trattandosi di componenti utilizzati nella ricarica manuale delle munizioni che, allo stesso modo di queste, può diventare necessario detenere (con licenza) in maggiore quantitativo di quello consentito senza licenza nel 1° comma per soddisfare le analoghe esigenze esplicitate dalla Circolare.
La risposta fornita dal Ministero, del tutto condivisibile, è, tuttavia, del 2004, epoca in cui era già in vigore il D.M. 272/2002, che avrebbe consentito di dare una volta per tutte al significato da attribuire all’espressione “tenere in deposito” una risposta di valenza giuridica.
La recente integrazione apportata di seguito al 1° c. dell’art. 97 cit. dal D.M. 272/2002, disciplina infatti contestualmente l’esenzione dall’obbligo della denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. e l’esenzione dall’obbligo di munirsi licenza di deposito, acquisto, trasporto ed impiego di alcuni prodotti esplodenti che, possono essere liberamente detenuti e tenuti in deposito in quantità illimitata; ed essendo l’art. 38 cit. una norma rivolta ai singoli consociati, l’indicazione della contestuale condotta di detenzione in deposito (e delle altre) senza licenza non può che fare riferimento anche ai medesimi e quindi ai luoghi da costoro destinati alla detenzione dei prodotti esplodenti (costituiti di norma da polveri da sparo e munizioni). Quindi, oltre a confermarsi apertis verbis nell’art. 97 Reg. cit. che obbligo di denuncia e obbligo di licenza sono condotte diverse, nella stessa norma si assevera la riferibilità della condotta di deposito (e delle altre) anche ai singoli privati.
D’altro canto deve tenersi in debito conto che la distinzione tra obbligo di denuncia di “… munizioni, o materie esplodenti di qualsiasi genere e in qualsiasi quantità” ex art. 38 T.U.L.P.S. ed obbligo di munirsi delle licenze ex artt. 97 e 98 Reg. cit. che consentono lo svolgimento delle varie condotte collegate a quest’ultime, è confermata dalla diversità delle fattispecie criminose conseguenti alla loro omissione e dall’ipotizzabilità del concorso formale tra tali fattispecie. Al riguardo, fino al 1967, le uniche disposizioni che presidiavano rispettivamente la violazione dei suddetti obblighi erano contenute nell’art. 697 C.P. per l’omessa denuncia delle munizioni (e le armi) c.d. comuni, nell’art. 679 C.P. per l’omessa denuncia delle materie esplodenti e nell’art. 678 C.P. per le illecite condotte ivi descritte in tema di materie esplodenti svolte senza licenza; ed il termine “materie esplodenti” veniva recepito come comprensivo, quindi, di ogni sostanza di tal genere, a prescindere dalle maggiori o minori capacità lesive, distruttive, dirompenti o deflagranti possedute dalle medesime; e, d’altro canto, l’esclusivo regime contravvenzionale posto a presidio delle condotte omissive riguardanti le materie esplodenti non avrebbe consentito al riguardo alcuna differenziazione dipendente dalla loro diversa tipologia. L’unica rilevabile in tal senso nell’ambito di tale regime era (ed è ancora oggi) il diverso atteggiarsi delle condotte omissive in materia di munizioni: non essendo materie esplodenti in senso tecnico, la loro illegale detenzione ricade nell’ambito operativo dell’art. 697 C.P. e non in quello dell’art. 679 C.P.; solo se il loro numero supera il limite delle 1500 per arma lunga e delle 200 per arma corta tale violazione ricade anche nella sfera di punibilità dell’art. 678 C.P., dovendo la loro detenzione (in deposito) essere assistita da licenza ex art. 97 Reg. cit. (in numero superiore a tali quantità il legislatore le disciplina, oltre che come manufatti che vanno denunciati in qualunque numero ex art. 38 T.U.L.P.S., alla stessa stregua delle materie esplodenti, ritenendo presuntivamente che una loro attivazione in massa possa essere matrice di infortuni e disastri – ipotesi in realtà priva di qualunque concretezza – e ne pretende la regolamentazione della detenzione in deposito attraverso il rilascio di licenza). In buona sostanza, il Codice Penale – seguendo, come sempre, quasi in modo bizantino il T.U.L.P.S. ed il relativo Regolamento che raggruppano le prescrizioni amministrative di polizia dettate in tema di materie esplodenti esclusivamente nell’ottica della prevenzione degli infortuni e dei disastri, a prescindere, quindi, dall’uso improprio che di esse possa farsi e dalla qualità della persona che ne faccia uso – aveva provveduto anch’esso ad inquadrare la materia solo in tale contesto, prevedendo due disposizioni, la prima delle quali, l’art. 678 C.P., sanzionava le condotte ivi descritte poste in essere senza avere conseguito le licenze occorrenti per il loro svolgimento indicate dalle norme precettive contenute negli artt. 46 e ss. del T.U.L.P.S. ed attuate dagli artt. 81 e ss. del relativo Regolamento, e la seconda, quella di cui all’art. 679 C.P., posta in essere in violazione dell’obbligo di denuncia sancito dall’art. 38 del T.U.L.P.S. anche per le materie esplodenti “…di qualsiasi genere” (espressione ripresa in seno all’art. 679 C.P. “…di qualsiasi specie”) ma ancora in quel quadro di interessi e di esigenze volte alla prevenzione degli infortuni e dei disastri, costituito dalle norme precettive appena richiamate (artt. 46 e ss. del T.U.L.P.S. attuate dagli artt. 81 e ss. del relativo Regolamento), assorbenti per specialità gli interessi e le esigenze posti a fondamento dell’art. 38 T.U.L.P.S. ; specialità attestata e qualificata dall’inciso, contenuto nell’art. 679 C.P., che le stesse fossero “pericolose per la loro qualità o quantità”.
Quanto al concorso formale fra tali disposizioni (artt. 678 e 679 C.P.), la sua ipotizzabilità conseguiva (e consegue) alla diversità delle esigenze tutelate nell’ambito del comune profilo della prevenzione degli infortuni e dei disastri come tracciato dalle norme precettive del T.U.L.P.S. e del relativo Regolamento: la prima volta a sanzionare le condotte di chi entra in relazione con tali manufatti (ma, per talune di esse, solo allorché la condotta riguarda il superamento di determinati quantitativi di prodotti esplodenti – v. art. 97 Reg. cit.) in assenza del rilascio di apposite licenze finalizzate ad evitarne l’accumulo indiscriminato ed il maneggio senza cautele, fonti di possibili infortuni e disastri (si tenga presente che, in tale direzione, il tipo di attività che si intende svolgere ed i quantitativi correlati vengono presunti iuris et de iure dalla norma come astrattamente idonei a provocarli); la seconda, diretta a sanzionare la violazione dell’obbligo di denuncia gravante su “ chiunque”, volta a rendere edotta, ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., l’Autorità di P.S., delle materie esplodenti detenute “di qualsiasi specie” ma in un quadro di concreta tutela dell’incolumità fisica delle persone ed a prescindere dalla formalità del rilascio della licenza, potrebbero venire coinvolte da una loro accensione o esplosione simultanea, rappresentato in seno all’art. 679 C.P. dalla specificazione “pericolose per la loro qualità e quantità”, al tempo stesso elemento costitutivo di tale norma. Di talché è appena il caso di rilevare incidentalmente, a proposito delle diverse condotte disciplinate dalle norme codicistiche testé richiamate che è del tutto inconferente l’interpretazione di Cass. Pen. 23/2/2000, n. 3593, Perini, con la quale – partendo dal dato letterale con cui esordisce l’art. 679 C.P. che disciplinerebbe un’ipotesi di autodenuncia obbligatoria che rende la norma sostanzialmente inapplicabile “ Chiunque omette di denunciare all’Autorità che egli detiene…” – si è sostenuto che tale fattispecie dovesse, per altro verso, considerarsi assorbita dalla disposizione che la precede, individuando gli elementi specializzanti di quest’ultima sia nel fatto di tenere in deposito a fine di commercio rispetto al semplice fatto di detenere, sia nell’assenza della necessaria licenza rispetto alla mera omissione di denuncia della detenzione. Ora, a parte che la poco suggestiva ipotesi dell’autodenuncia obbligatoria altro non rappresenta che un difetto legislativo di tecnica espressiva di linguaggio giuridico appropriato e vuole, né più né meno, dire - così come nell’art. 697 C.P. - “ chiunque detiene materie esplodenti senza averne fatto denuncia all’Autorità “ (è appena il caso di rilevare che, proprio il secondo comma dell’art. 697 C.P., è reso con l’identica improprietà rilevata nella decisione in seno all’art. 679), a parte ciò, nessun assorbimento è ipotizzabile tra le due norme tutelando le stesse esigenze giuridiche diverse. È appena il caso di aggiungere che l’art. 678 C.P., contrariamente a quanto ritenuto nella riferita decisione, sanziona autonomamente la condotta di detenzione in deposito senza licenza tenendola distinta da quella di (detenzione per la) vendita senza licenza, e che la prima, per taluni prodotti esplodenti, acquista gli estremi dell’illiceità solo se vengono superati i quantitativi indicati dall’art. 97/1° c. Reg. cit.. proprio perché l’esigenza dell’astratta prevenzione degli infortuni e dei disastri sorge presuntivamente per il legislatore, nel contesto dell’art. 678 C.P., in tale momento; mentre l’obbligo di denuncia di cui agli artt. 38 T.U.L.P.S. e 679 C.P. è esigibile con riguardo alle materie esplodenti “ di qualsiasi specie “ solo all’esito positivo di un accertamento concreto della loro pericolosità per quantità e qualità. Peraltro, a differenza dell’art. 678 C.P., la condotta di detenzione di cui all’art. 679 C.P. ha ad oggetto, in aggiunta alle materie esplodenti, anche le materie infiammabili, che sono sostanze in genere strutturalmente diverse dalle prime per composizione e per effetti nell’ipotesi di accensione in massa, e che soltanto un accertamento concreto della loro pericolosità per quantità o qualità può rendere obbligatoria la loro denuncia (l’espressione “materie infiammabili” è estremamente generica e non va pertanto identificata soltanto con le “sostanze infiammabili” di cui alla I parte dell’All. D al Reg. cit., disciplinate sotto il profilo della protezione degli edifici, ove esse vengono lavorate, dalle scariche elettriche atmosferiche). Più corretta appare invece una recente decisione dei Giudici di legittimità (Cass. Pen., I Sez., 25/1/2005, n. 5756, Capozzi) che, pur non cogliendo che il presupposto dell’esclusione dell’assorbimento radica il suo fondamento proprio sulla diversa natura giuridica delle finalità delle prescrizioni imposte in veste di precetto dal T.U.L.P.S. e dal relativo Regolamento in tema di licenze dei manufatti in questione, ha tuttavia escluso la possibilità di qualunque assorbimento tra le stesse individuando impropriamente le diverse esigenze tutelate nel contesto fattuale-sanzionatorio delle norme codicistiche anziché in quelle precettive (si dà ragione di quanto si sostiene nei ff. 6-7 motivazione di Cass. Pen., Sez. I, 6/4/87-21/4/1988, n. 04849, Pagnozzi, il cui contenuto sarà ripreso più oltre). Il riferimento alle armi alla fine della motivazione della decisione 5756 è decisamente frutto di errore materiale, mentre priva di fondamento è l’indicazione che le materie esplodenti in seno all’art. 679 C.P. sono quelle detenute in forma di deposito: la norma fa infatti riferimento alle materie esplodenti (ed alle materie infiammabili) comunque costituite.
L’entrata in vigore della L. 895/67 - che disciplinava, tra l’altro, agli artt. 1, 2, 3, 4 “gli esplosivi di ogni genere”, elevando a delitto le condotte che li riguardano in un quadro essenzialmente volto alla repressione di emergenti fenomeni criminali, introduceva seri elementi di crisi sulla portata del significato da assegnare all’espressione “ materie esplodenti “ di cui agli artt. 678 e 679 C.P.. Le incertezze interpretative che ne seguivano venivano comunque risolte da una storica e mirabile pronuncia della giurisprudenza di legittimità. Le SS. UU. della Corte di Cassazione (n. 10901 del 15/10/1986, Granata, confermata, in altro contesto, da altra decisione delle stesse SS. UU. 12/11/1993-7/12/1993, N. 15) giungevano infatti con ineccepibile percorso argomentativo ad identificare i primi con quelli strutturalmente caratterizzati da elevata potenzialità e che per la loro micidialità sono idonei a provocare un’esplosione con rilevante effetto distruttivo, e le materie esplodenti con quelle concepite senza tali caratteristiche in ragione delle diverse finalità d’impiego (si pensi alle polveri da sparo piriche e senza fumo). Partendo da tale principio, successive pronunce giurisprudenziali (v. per tutte Cass. Pen., Sez. I, 16/5-17/6/2002, n. 23160, Costarelli) si sono definitivamente attestate sul validissimo criterio della obiettiva micidialità quale discrimine tra l’applicazione delle norme codicistiche contravvenzionali (artt. 678 e 679 C.P.) e quelle speciali (L. 895/67), riconoscendo la prevalenza di quest’ultime anche nei riguardi di materie esplodenti che strutturalmente e qualitativamente ne erano prive (polveri da sparo per il caricamento ed il ricaricamento di munizioni e polveri piriche per il confezionamento di manufatti aventi destinazione ludica), ma che, in ragione della loro elevata quantità o della concentrazione in ristretti spazi, avrebbero finito con il possederla nell’eventualità di un’esplosione in massa o simultanea. È appena il caso di osservare che i criteri discretivi indicati dalla giurisprudenza di legittimità, sono del tutto coincidenti con quelli adoperati dal D.M. 272/2002 cit. per l’attribuzione a tutti i prodotti esplodenti indicati nel nuovo Allegato A all’art. 82 del Reg. cit. dei rispettivi codici di classificazione, assegnati, per l’appunto, a seconda che degli effetti che potrebbe comportare un rischio di esplosione in massa (si veda in proposito l’ultima pagina dell’All. I1° al D. L. vo 2/1/97 n. 7 - concernente, tra l’altro, il controllo degli esplosivi per uso civile e di cui il D.M. citato costituisce Regolamento d’esecuzione – in cui sono elencati le divisioni di rischio ed i gruppi di compatibilità delle materie e degli oggetti esplodenti utilizzati per l’attribuzione nel D.M. 272 cit. dei codici di classificazione ad ogni singolo prodotto esplodente).
In conseguenza della distinzione tra materie esplodenti ed esplosivi come tracciata dalla giurisprudenza di legittimità, il quadro delle sanzioni delle illecite condotte di riferimento che è venuto a delinearsi, risulta, sempre per interpretazione giurisprudenziale, così distinto: le prime rientrano nella sfera operativa degli artt. 678 e 679 C.P. ed i secondi in quella degli artt. 1 e ss. della L. 895/67 come succ. modificata. Con l’ulteriore necessitato effetto che le materie esplodenti rimangono disciplinate in un contesto volto a salvaguardare l’incolumità fisica collettiva od a prevenire infortuni per l’ipotesi di accensione simultanea o di omissione delle dovute cautele nel loro maneggio per come indicato dal titolo del paragrafo che le comprende (il termine “…custodia…” ivi indicato è sinonimo delle cautele da osservarsi nel maneggio delle materie esplodenti rigorosamente individuate in forma di prescrizioni nel corpo della licenza a seconda del tipo di attività di riferimento e non va pertanto confuso con gli obblighi custodiali di cui agli artt. 20 e 20 bis della L. 110/75 cit.); gli esplosivi, invece, vengono disciplinati in un profilo volto a prevenire ed arginare determinate manifestazioni di criminalità secondo gli intendimenti che davano luogo all’emanazione della L. 895/67, assorbente, per conseguenza, le esigenze di tutela cui invece risultano preordinate le materie esplodenti. L’unica perplessità cui può dar luogo l’operata distinzione giurisprudenziale – comunque da condividere per l’ineccepibile linearità e la sostanziale adeguatezza con cui è riuscita a raccordare la nuova normativa con quella preesistente, rimediando così ad uno dei più consistenti difetti legislativi di coordinamento in materia – risiede nel fatto che, con riguardo agli esplosivi, non risultano disciplinate e sanzionate in seno all’art. 1 della L. 895/67 – né avrebbero potuto esserlo in ragione delle esigenze dalla stessa tutelate – le condotte assistite da licenza ma svolte senza le prescritte cautele, previste e punite invece in tema di materie esplodenti dall’art. 678 C.P.. Ed a tale omissione non si può certo porre rimedio riqualificando a questo effetto gli esplosivi come materie esplodenti, vietandolo, a tacer d’altro, il rispetto della coerenza; si potrebbe forse azzardare, per risolvere tale questione, che le condotte di inosservanza delle cautele prescritte dalla licenza non disciplinate dall’art. 1 della L. 895/67 devono implicitamente intendersi equiparate a quelle di mancato conseguimento della licenza, parafrasando l’art. 678 C.P. che pone (ma esplicitamente) sullo stesso piano quest’ultime condotte e quelle di chi, pur avendo ottenuto la licenza, non osserva le cautele prescritte dalla stessa per il loro svolgimento: ma potrebbe avrebbe ragione del contrario chi dovesse validamente obiettare che trattasi di condotte fattualmente del tutto diverse e che quella di inosservanza delle cautele non è prevista espressamente dall’art. 1 L. 895/67. Per il resto, in seno agli artt. 1 e ss. della L. 895/67, trovano adeguata disciplina per gli esplosivi tutte le condotte indicate dagli artt. 678 e 679 C.P. per le materie esplodenti. Più specificamente, quelle di fabbricazione, introduzione e vendita di senza licenza indicate nell’art. 678 C.P. sono allo stesso modo indicate nell’art. 1 della L. 895/67 cit.; quelle di detenzione in deposito e di trasporto senza licenza indicate per le materie esplodenti nell’art. 678 C.P., pur non disciplinate dall’art. 1 della L. 895/67 cit., risultano in ogni caso assorbite dall’ipotesi delittuosa di illegale detenzione “a qualsiasi titolo” disciplinata dall’art. 2 della L. 895/67 cit., che contestualmente presidia la condotta concernente la generica detenzione di esplosivi. Ed infine, all’art. 4 della L. 895/67 cit. è disciplinata l’ipotesi del porto di esplosivi che costituisce una novità rispetto al precedente assetto normativo: ed invero, allorché materie esplodenti ed esplosivi erano regolati dalle norme codicistiche, la fattispecie del loro porto illegale non era prevista, con la conseguenza che, con riguardo alle prime, essa rimane ancora oggi priva di regolamentazione. Si è, cioè, in presenza di una situazione del tutto analoga al porto delle munizioni e valgano anche qui di conseguenza le considerazioni svolte circa il divieto assoluto di presumere dalla condotta di porto quella di detenzione per supplire in qualche modo a tale deficienza. Né la condotta di porto di materie esplodenti senza licenza può in qualche modo essere equiparata a quella di trasporto, che invece è disciplinata dall’art. 678 C.P., ostandovi, in adesione ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, la diversità fattuale di tali condotte. Peraltro, per determinate materie esplodenti (ad es., le polveri da sparo, che appartengono alla I Categoria di cui all’art. 82 Reg. cit., ma il discorso vale anche per le munizioni comuni che appartengono alla Categoria V /A, n. 5) l’equiparazione della condotta di trasporto in assenza di licenza a quella di porto senza licenza non potrebbe operare sotto il profilo sanzionatorio nelle ipotesi di trasporto di un quantitativo fino a 5 Kg. di polveri da sparo, fino ad un numero di 1500 cartucce per arma lunga e fino ad un numero di 200 per arma corta, essendo tali condotte svincolate dall’obbligo di munirsi di licenza.
Quanto alla concreta individuazione degli esplosivi e delle materie esplodenti deve farsi ricorso all’art. 82 del Reg. cit. come modificato dal D.M. 272/02, ove, sia gli uni che le altre, sono indicati sotto la generica ed omnicomprensiva denominazione di prodotti esplosivi o di prodotti esplodenti (un termine vale l’altro, tanto che l’art. 82 Reg. li indica come “ I prodotti esplosivi di cui al precedente articolo…” e, nell’art. 81, gli stessi vengono indicati come prodotti esplodenti). Nella suddivisione in categorie che ne fa l’art. 82 Reg., gli esplosivi, quelli cioè realizzati con finalità distruttive e dirompenti sono compresi nella II (“ < dinamiti > e prodotti affini negli effetti esplodenti”) e nella III (“ < detonanti > e prodotti affini negli effetti esplodenti “), mentre in tutte le altre Categorie sono allocate le materie esplodenti.
Come già è stato rilevato, l’obbligo di denuncia delle materie esplodenti ex art. 38 T.U.L.P.S. è stato contraddistinto – ancor prima quindi della suddivisione giurisprudenziale dei prodotti esplodenti in esplosivi e materie esplodenti conseguente all’entrata in vigore della L. 895/67 - da una sua peculiarità o, se si vuole, un suo particolare modo di atteggiarsi, essendo precipuamente rivolto ex art. 679 C.P. alla tutela della pubblica incolumità che può essere compromessa in conseguenza dell’accensione e/o dell’esplosione in massa di prodotti esplodenti qualificabili pericolosi per quantità o qualità, e che un controllo reso possibile dalla loro denuncia all’Autorità di P.S. svolto in tale direzione è invece finalizzato ad evitare. Tanto vero che la norma che sanziona la violazione di tale obbligo e, cioè, l’art. 679 C.P. - che abbraccia, a differenza dell’art 38 T.U.L.P.S. e proprio nel quadro di queste finalità, anche le materie infiammabili - è inserita nel Codice Penale non sotto il paragrafo che riguarda le contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale all’interno delle quali è sistemato l’art. 697 C.P. che sanzionava l’omessa denuncia delle armi e delle munizioni comuni (oggi soltanto quest’ultime) prescritta in via precettiva anche dall’art. 38 T.U.L.P.S., bensì sotto il paragrafo delle “ contravvenzioni concernenti la prevenzione di infortuni nelle industrie o nella custodia di materie esplodenti “ che riflette armonicamente le norme precettive dettate dal T.U.L.P.S. e dal relativo Regolamento in materia di prevenzione di infortuni e disastri. Il titolo del richiamato paragrafo rispecchia specularmente le condotte sanzionate dall’art. 678 C.P. in tema di materie esplodenti espletate senza licenza; e l’art. 679 C.P. completa la tutela cui è preordinata la prima norma menzionando anche le materie infiammabili da questa non indicate e richiedendo tout-court - a prescindere dalle violazioni di cui al precedente art. 678 riguardanti un loro regolato impiego industriale o commerciale e dalle cautele (“…custodia…”) da impiegare nella loro manipolazione - la denuncia di ogni materia esplodente e/o infiammabile ma solo allorché le stesse si rivelino in atto pericolose per l’incolumità pubblica in ragione della loro qualità o quantità. Inciso, troppe volte sottovalutato e pretermesso nell’applicazione della norma, che – proprio perché si pone in perfetta armonia con le finalità della tutela descritta nella titolazione dell’area riservata a tali norme - ha efficacia riduttiva dell’assolutezza del principio generale stabilito in tema dall’art. 38 cit. e spiega, come si vedrà di qui a poco, l’apertura giurisprudenziale alla liceità di condotte di detenzione senza denuncia di determinati quantitativi di polveri piriche e senza fumo, prodotti esplodenti appartenenti alla I Categoria di cui all’art. 82 Reg. cit.. Proprio in questo va individuata la peculiarità dell’obbligo della denuncia con riguardo alle materie esplodenti ex art. 38 T.U.L.P.S., peculiarità conducente in tale settore ad una attenuazione dell’assolutezza del principio che tale norma enuncia, e che non riguarda invece la denuncia delle armi e delle munizioni il cui obbligo è esclusivamente ed incondizionatamente funzionale a rendere agevole all’Autorità di Polizia di conoscere in qualsiasi momento da quali persone ed in quali luoghi siano detenuti tali manufatti al fine di rendere possibili gli opportuni controlli funzionali alla prevenzione di fatti delittuosi. Con conferma di quanto si sostiene, come si diceva, offerta – prima dell’entrata in vigore della L. 895/67 - dalla collocazione delle sanzioni per la violazione di tale obbligo sistemata sotto le contravvenzioni concernenti “la prevenzione di delitti contro la vita e l’incolumità individuale” (art. 697 C.P., 1° c.) tra le quali non occupa alcuno spazio l’omessa denuncia delle materie esplodenti. Questo non vuol dire che l’art. 679 C.P. non adempia coevamente anche alla finalità di cui all’art. 38 T.U.L.P.S., ma quella peculiare è stata sempre costituita dall’esigenza di tutela cui è preordinata la norma codicistica, che, richiedendo per la qualificazione dell’illiceità della condotta di detenzione delle materie esplodenti l’elemento specializzante della loro pericolosità per quantità e qualità, si rivela assorbente degli interessi tutelati dall’art. 38 T.U.L.P.S. e su questi prevalente.
La situazione sin qui delineata risulta quanto mai aderente ed in linea con l’assetto normativo risultante a seguito della consolidata distinzione giurisprudenziale tra esplosivi e materie esplodenti introdotta dopo l’entrata in vigore della L. 895/67, dal momento che - essendo state quest’ultime individuate in seno all’art. 679 C.P. (ed all’art. 678 C.P.) come quelle concepite con finalità non distruttive e non micidiali, e per impiego in attività consentite e regolate dall’ordinamento (venatorie, sportive, ludiche etc.) - si pone a maggior ragione l’esigenza che la loro denuncia sia resa obbligatoria solo nell’ipotesi di concreto accertamento che esse siano pericolose per quantità (non si menziona il termine “ qualità “ essendo, per le ragioni che si illustreranno a breve, sempre sinonimo di assenza o di ridotta pericolosità) in una direzione orientata verso criteri di ragionevolezza in grado di contemperare adeguatamente le esigenze di tutela della collettività sia con quelle della soglia di punibilità di determinate condotte non in grado obiettivamente di lederla, sia, soprattutto, con quelle del singolo nell’espletamento di attività consentite e regolate dalla legge (si pensi alle attività venatoria e sportiva), evitandosi così il tratto di segno unicamente vessatorio che assumerebbe l’esigere in ogni caso la denuncia di materie esplodenti detenute in quantità non pericolose. Tutto ciò non riguarda invece gli esplosivi micidiali identificati dalla distinzione giurisprudenziale con quelli inseriti dal legislatore nella L. 895/67 cit., la cui condotta di detenzione (e le altre) è punita incondizionatamente (a prescindere, cioè, dalla loro qualità e quantità, e l’art. 2 della L. 895/67 infatti non le menziona) ed in una prospettiva ben diversa da quella delle materie esplodenti, qual’è, per l’appunto, quella del loro controllo finalizzato alla tutela dell’ordine e della sicurezza dello Stato da determinate condotte criminali o, comunque, dall’uso illecitamente improprio che di essi possa farsi. La situazione venuta così a delinearsi conduce in conseguenza ad una lettura dell’art. 38 T.U.L.P.S. di segno sensibilmente diverso dalla precedente ed in linea con distinzione giurisprudenziale, nel senso che il principio generale di assoluta obbligatorietà della denuncia espresso da tale norma riguarda, oltre che le armi e le munizioni, soltanto gli esplosivi e le materie esplodenti di qualsiasi genere ed in qualsiasi quantità qualificabili micidiali (che sono equiparate agli esplosivi), ma non le materie esplodenti che tali caratteristiche non possiedono. Obbligo assoluto presidiato coerentemente in veste sanzionatoria dall’art. 697 C.P. per le munizioni comuni (norma collocata tra le contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale) e dagli artt. 2 e 7 della L. 895/67, come successivamente modificata, per le armi e le munizioni da guerra, per gli esplosivi e per le armi comuni (normativa, come detto, posta a presidio del controllo delle armi e degli esplosivi in funzione di tutela dell’ordine pubblico)
È escluso tuttavia normativamente che la detenzione di una modesta quantità di esplosivo (si pensi, ad es., alla detenzione di due o tre grammi di pentrite, esplosivo tra i più micidiali, ma non in grado in tale quantità di essere qualificato pericoloso) possa, per tale ragione, degradare a materia esplodente non pericolosa ex art. 679 C.P. e, quindi, essere considerata lecita, essendo tale ipotesi specificamente disciplinata dall’art. 5 della L. 897/65. Ne deriva che mentre il criterio di quantità è assunto in seno all’art. 679 C.P. per connotare la pericolosità o meno della materia esplodente in funzione di elemento costitutivo della fattispecie, nell’art. 5 cit. le modeste qualità o quantità dell’esplosivo sono assunte in funzione di circostanze attenuanti della fattispecie e portano soltanto ad attribuire al fatto (che rimane in ogni caso illecito) la connotazione della lieve entità.
Deve poi precisarsi che il rilievo della qualità in veste identificativa dei prodotti esplodenti finalizzata a saggiarne la pericolosità poteva avere un senso allorché la loro condotta di detenzione senza denuncia era indistintamente disciplinata dall’art. 679 C.P., in base al quale, ad es., un quantitativo di 50 grammi di T4, pur presentandosi modesto allo stesso modo di 50 grammi di polvere da sparo, avrebbe dovuto essere considerato pericoloso per la sua qualità trattandosi di uno degli esplosivi più dirompenti e che, pertanto, pur in tale esigua quantità, avrebbe avuto effetti, se fatto brillare, decisamente più deleteri rispetto all’accensione dei 50 grammi di polvere da sparo. Ma essendo oggi il criterio distintivo tra materie esplodenti ed esplosivi fondato per interpretazione giurisprudenziale su base qualitativa e conoscendosi per via normativa quali sono le prime e quali i secondi, la pericolosità di una materia esplodente o di un esplosivo non potrà più dipendere dalla sua qualità intesa come identificativa del tipo. Il termine “qualità” deve invece essere recepito oggi nella sua residua accezione di “condizione del loro stato” e, quindi, di verifica di base della effettiva potenzialità che è loro propria, con la conseguenza che nelle materie esplodenti la “qualità” rileverà in ogni caso per escluderla, e negli esplosivi per attenuare il fatto (in quest’ultimo caso nei limiti in cui l’esplosivo possieda ancora un qualche effetto, dal momento che, se non dovesse averne alcuno, si sarebbe in presenza di materiale inerte e come tale irrilevante penalmente; e lo stesso è a dirsi, in tale ipotesi, per le materie esplodenti). Si pensi, per fare un esempio, alla polvere da sparo: essa, sotto il profilo normo-qualitativo è già individuata come materia esplodente, come una sostanza, cioè, che non ha effetti micidiali. La sua pericolosità potrà venire in considerazione solo sotto un profilo quantitativo, nel senso che, accertato che 10 Kg. di essa costituiscono un quantitativo pericoloso, essa sarà detenibile soltanto previa denuncia. Se, tuttavia, tale quantitativo risulta in concreto possedere una scarsa capacità di accensione a causa dell’influenza di agenti atmosferici, l’accertamento di tale qualità non avrà riguardato la sua identità strutturale, che è gia conosciuta, ma la verifica della sussistenza degli effetti che le sono propri; con il risultato che o - in ipotesi affermativa - non si andrà oltre la conferma di essere in presenza di una materia esplodente che si sa già essere disciplinata dall’art. 679 C.P. per cui, come si diceva, una sua pericolosità non potrà che derivare da un accertamento di tipo quantitativo; o un tale accertamento avrà come risultato la constatazione di una riduzione dei suoi effetti e non potrà che ridondare negativamente sulla pericolosità della materia esplodente pur detenuta in quantità che ne avrebbero preteso la denuncia. Ed il discorso vale anche con riguardo agli esplosivi – la cui detenzione va sempre denunciata – quando i loro effetti sono resi blandi in ragione, ad es., di un loro pessimo stato di conservazione: ma qui l’accertamento di tale negativa qualità influisce soltanto sul riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 5 della L. 895/67.
Passando dall’enunciazione del principio giuridico alla fase della sua attuazione, occorre adesso stabilire quando una materia esplodente può dirsi concretamente pericolosa per quantità, o, se si vuole, occorre individuare la soglia quantitativa di base entro la quale essa non possiede tale caratteristica, dipendendo dal suo superamento l’obbligatorietà della denuncia ex art. 679 C.P.. Tale esigenza trae peraltro origine dalla necessità di evitare giudizi e soluzioni (anche di tipo tecnico) tra loro contrastanti, necessariamente correlati e conseguenti ad un concetto che, in ragione della indeterminatezza, si presta ad un’interpretazione non omogenea; situazione che avrebbe pesanti ricadute sulla certezza delle condotte da osservarsi in materia da parte dei singoli, i quali sarebbero certamente più garantiti dalla concreta fissazione di un limite in grado di segnare con precisione la liceità della condotta di detenzione senza denuncia. Orbene, un’indicazione al riguardo proviene certamente dal minimo tra i limiti quantitativi fissati presuntivamente iuris et de iure in modo astratto dal legislatore per le materie esplodenti nel 1° comma dell’art. 97 Reg. cit., che è quello di 5 Kg. netti stabilito per le materie esplodenti di I Categoria (e cioè tutte le polveri da sparo - pirica o nera e quelle senza fumo e, quest’ultime, comprensive di quelle alla nitrocellulosa con le quali vengono oggi allestite le cartucce), oltre il quale è presunto in astratto che la detenzione in deposito di tali materie possa provocare infortuni e disastri e pertanto si richiede che tale condotta debba essere regolata dal rilascio della licenza e dalle cautele imposte con la medesima. Orbene, appare quanto mai logico e razionale ritenere che anche l’identico minimo parametro quantitativo appena indicato debba segnare la soglia oltre la quale una materia esplodente deve essere qualificata concretamente pericolosa e, che quindi, solo oltre tale limite essa debba essere soggetta ad obbligatoria denuncia ex 679 C.P.. Sarebbe invero paradossale e contraddittorio ritenere che una stessa materia esplodente venga ritenuta presuntivamente sotto tali limiti quantitativi non idonea a provocare infortuni e disastri nell’ambito di un determinato assetto giuridico (quello del rilascio delle licenze) ed al tempo stesso sostenere che essa è invece idonea a provocarli al di sotto di tali limiti allorché la stessa viene in considerazione in altro assetto giuridico. Può quindi fondatamente sostenersi che la soglia di pericolosità di un determinato quantitativo di materia esplodente vada individuata dopo il superamento dei 5 kg. e che, pertanto, entro tale limite la stessa non debba formare oggetto di denuncia. È appena il caso di aggiungere che la simultanea accensione di un tale quantitativo di polvere da sparo non è in grado di provocare disastri o infortuni generalizzati e che, al di là di dell’esenzione dall’obbligo della denuncia, il suo detentore è sempre vincolato dalla rigorosa osservanza degli obblighi custodiali di cui agli artt. 20/1° c., prima parte, e 20 bis/ 2° c., L. 110/75. Si è perfettamente consapevoli che la predeterminata fissazione del limite quantitativo conduce ad una rigida presunzione di pericolosità, analoga a quella che sorregge il regime del rilascio delle licenze, che comprime la possibilità di accertare in concreto la sua assenza anche in quantitativi di poco superiori ai 5 Kg. (riesce agevole comprendere, invero, che la detenzione di qualche decina di grammi oltre tale limite non è in grado di trasformare il quantitativo esonerato in pericoloso); ma trattasi di una compressione (eliminabile in casi del genere da un accertamento tecnico espletato da periti di provata competenza e professionalità, e dal conseguente saggio apprezzamento del Giudice) sicuramente bilanciata in modo consistente dalla conoscenza da parte dei consociati dell’esistenza di un limite preciso e certo cui ancorare la propria condotta.
Ma un’altra indicazione più diretta sulla giustezza di tale limite quantitativo assunto ad indice di assenza di pericolosità e, quindi, di esenzione da denuncia ai sensi dell’art. 679 C.P., si rinviene ancora nel contesto dell’art. 97 Reg. cit. e per di più proprio in materia di polvere da sparo. Nel periodo aggiunto al 1° comma di tale articolo dal D.M. 272/2002, i prodotti esplodenti di cui alla V Categoria, Gruppo D, sono svincolati ancora nel limite quantitativo di 5 Kg. dall’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S.. (ovviamente nel quadro di una tutela sempre sanzionata, in caso del suo superamento, dall’art. 679 C.P., perché si versa in tema di materie esplodenti e non di munizioni). E non è superfluo aggiungere che trattasi di manufatti – tra i quali, ad es. quelli pirotecnici da divertimento ad effetto di scoppio, segnati al n. 4, oggetti ricorrenti nella realtà giudiziaria quotidiana) costituiti da polvere nera o pirica, materia esplodente compresa, come si è detto, assieme alle altre polveri da sparo, nella I Categoria di cui all’art. 82 Reg. cit., utilizzabile, come queste, per il confezionamento delle munizioni (viene in mente la polvere nera svizzera n. 1 adoperata anche in calibri piuttosto robusti come il cal. .357 Mg.). Concludere che il legislatore non ritiene, in buona sostanza, che le polveri da sparo siano in tale limite quantitativo concretamente pericolose nemmeno nella prospettiva tutelata dagli artt. (38) e 679 C.P., e che, pertanto, per esse, entro tale limite, non vi è obbligo di denuncia, appare certamente esatto e del tutto coerente con le considerazioni più sopra svolte.
L’esattezza di quanto sin qui sostenuto trova un consistente riscontro in una decisione della I Sezione della Corte di Cassazione (21/11/02-8/1/2003, n. 916, Germano) emessa, peraltro, su conforme parere del Procuratore Generale, che può considerarsi storica per l’incisivo, puntuale ed efficace principio che in essa viene enunciato al riguardo, e che, per tale ragione, segna una tappa fondamentale nell’evoluzione interpretativa della materia, di importanza pari a quello della distinzione giurisprudenziale tra queste e gli esplosivi.
Per la verità, la richiamata decisione era stata preceduta nel 1983 e 1987 da altre due decisioni della I Sezione della stessa Corte che adombravano già, nell’ambito dei profili della condotta di cui all’art. 679 C.P., la soluzione del limite quantitativo dei 5 Kg. per le materie esplodenti quale soglia entro la quale queste potevano essere detenute liberamente senza denuncia (29/9/1983, 11102, Tassinari; ib. 6/4/1987-21/4/1988, n. 04849). Nella seconda di queste decisioni – partendo dalla distinzione giurisprudenziale tra esplosivi micidiali e materie esplodenti, e dandosi atto che quella che veniva in considerazione era polvere pirica (per la precisione 9 Kg.), si sosteneva infatti in motivazione che la sua detenzione “ senza licenza per un quantitativo inferiore ai cinque chilogrammi per la confezione di cartucce per armi da caccia è lecita (Cass., Sez. I, 29/9/1983, Tassinari, mass. uff. 161. 869), e per un quantitativo superiore integra il reato previsto dall’art. 679 C.P. “, precisandosi poi che per le materie esplodenti di cui alla I Categoria, tra le quali la polvere pirica, “ la legge consente la detenzione in quantità superiore a quella indicata con licenza del prefetto a termini degli artt. 50 e 51 del testo unico (ex art. 97, 3° comma del regolamento. In relazione agli artt. 80 ed 81) “. Il riferimento all’art. 679 C.P. lascia chiaramente intendere come la Corte abbia in sostanza inquadrato la fattispecie sottoposta al suo giudizio nell’ambito del regime della detenzione regolato da tale norma inferendone che per l’identico quantitativo per il quale non occorre licenzia prefettizia, è lecita anche la sua detenzione senza denuncia. Tanto vero che in dispositivo i Giudici di legittimità qualificavano, tra l’altro, come contravvenzione di cui all’art. 679 C.P. la detenzione abusiva della polvere da sparo (contestata nei gradi precedenti come violazione dell’art. 2 della L. 895/67) annullando senza rinvio la sentenza della Corte territoriale perché estinta per amnistia. E non vi sarebbe modo di spiegare tale apertura giurisprudenziale con riguardo all’esenzione da denuncia ex art. 679 C.P. della polvere da sparo entro il limite dei 5 Kg., se non attraverso la considerazione svolta implicitamente dalla Corte che tale quantitativo non è pericoloso nella prospettiva tutelata dalla norma codicistica. Ed il fatto che la Corte non si sia soffermata a svolgere qualche considerazione sulla circostanza che la condotta di detenzione in deposito oltre i 5 Kg. senza licenza è sanzionata al contempo dall’art. 678 C.P. pur avendo precisato, attraverso l’indicazione delle relative norme prescrittive, che oltre tale limite quantitativo vi è obbligo di munirsi di licenza oltre che di denunciarne la detenzione ex 679 C.P., si spiega agevolmente con la circostanza che anche tale fattispecie, oltre a non essere mai stata contestata, risultava estinta per intervenuta prescrizione.
Nella fondamentale decisione più sopra richiamata, il principio in questione viene invece affermato con una chiarezza tale che ogni altra pur minima pretesa di alternative spiegazioni non potrebbe essere qualificata che di rango velleitario. Anche qui la materia esplodente era costituita da 3,5 Kg. di polvere da sparo, distribuita in 175 petardi detenuti senza denuncia (manufatti abbastanza noti per soffermarsi su una loro descrizione; in sentenza essi vengono menzionati come “artifizi contenenti materiale esplodente”; ma il termine “artifizi” è reso nel senso generico ed equipollente di “oggetti” e non in quello tecnico di “artifici” che oggi distingue la IV Categoria, né in quello che distingueva l’omonima Categoria sotto il vecchio All. A, ove erano menzionati soltanto i petardi da segnalamento). Ed anche qui la decisione muove dalla distinzione giurisprudenziale tra esplosivi e materie esplodenti, inquadrando tra quest’ultime la polvere da sparo. Non è superfluo sottolineare al riguardo che la decisione viene emessa nel novembre del 2002, in data, cioè, in cui non è ancora in vigore l’integrazione apportata all’art. 97 Reg. cit. dal D.M. 272/2002, emanato nel settembre 2002 ma pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del successivo 12 Dicembre 2002. E ciò si segnala per mettere in appropriata evidenza che il tenore della decisione, se emessa in epoca di poco successiva, sarebbe stata di tenore diverso sotto il profilo motivazionale (anche se identica nelle conclusioni), disponendo la detta integrazione l’esenzione, nel limite dei 5 Kg., dalla denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. della detenzione delle materie esplodenti di cui alla V Categoria, (sono i “giocattoli pirici” indicati assieme alle “munizioni di sicurezza”), Gruppo D, tra i quali per l’appunto rientrano i petardi, elencati al n. 4 con la generica denominazione di manufatti pirotecnici che li accomuna sotto il profilo degli effetti, che possono essere “di scoppio e/o luminoso”. Detto ciò, la decisione, considerando gli specifici manufatti non sotto il profilo della loro autonomia strutturale bensì sotto quello della materia che li compone e che è destinata ad “animarli”, enuncia un primo principio di fondo e cioè che quel che deve sempre formare oggetto di valutazione in tema di manufatti del genere è la materia esplodente che li compone e non le sue modalità di confezionamento (“…Infatti, a norma dell’art. 97 r. d. 6. 5. 1940 n 635 (regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S. ) non è necessaria la licenza……per detenere polveri esplodenti in quantitativo non eccedente i cinque chilogrammi”); salvo, occorre aggiungere, alla luce delle novità introdotte dal D.M. 272/2002 cit, che la legge non consideri tali manufatti nella loro autonomia strutturale e ad essi dedichi una specifica disciplina in punto di esenzione da denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. (come, ad es. per gli inneschi ed i bossoli innescati) o ex artt. 38 T.U.L.P.S. e 679 C.P. come è accaduto per quelli di cui si parla e per gli altri indicati nel Gruppo D (ma fino a 5 Kg.) e nel Gruppo E della V Categoria illimitatamente. Il secondo principio enunciato nella decisione - che affonda le proprie radici su valutazioni che si rivelano speculari a quelle più sopra riportate e che per il sua esplicita posizione non necessita di alcun commento ma solo della sottolineatura del concetto di non pericolosità delle polveri da sparo nel limite quantitativo dei 5 Kg. – è costituito dalla seguente statuizione, successiva a quella già riportata, che portava all’annullamento senza rinvio della decisione impugnata per non essere il fatto preveduto come reato: “Ne discende che colui che ritrovi in detta condizione non ha bisogno della licenza dell’autorità competente per la mera detenzione delle polveri o del materiale esplodente, entro detto limite quantitativo, e neppure l’obbligo di denunciarne il solo possesso”. Principio che conferma come obbligo di denuncia ed obbligo di munirsi di licenza sono due concetti giuridici diversi disperdendo la confusione che al riguardo si era verificata in qualche precedente decisione della stessa Corte.
Tornando all’assetto giuridico dell’obbligo di denuncia ex art. 679 C.P. della detenzione delle materie esplodenti come individuate per interpretazione giurisprudenziale, per fare degli esempi in linea con l’importante decisione dei Giudici di legittimità in tema di polveri da sparo, possono prendersi in considerazione delle materie esplodenti che, come le polveri da sparo, vedono interessati ricorrentemente i singoli consociati: così le “micce a lenta combustione o di sicurezza”, appartenenti alla V Categoria, Gruppo B, n. 1, delle quali, ai sensi della prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit. è consentita l’illimitata detenzione in deposito senza licenza, ma per le quali vige l’obbligo della denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. (sanzionato dall’art. 679 C.P.), indirettamente stabilito dalla seconda parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit. che non le comprende tra le materie esplodenti esenti da tale obbligo; o i “fuochi pirotecnici” che fanno parte degli “artifici” (costituiti da polvere pirica senza innesco fulminante a base di polvere pirica), che occupano la IV Categoria, dei quali, ai sensi della prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., è consentita la detenzione in deposito senza licenza fino ad un quantitativo di 25 Kg., ma per le quali vige l’obbligo della denuncia per le stesse ragioni delle precedenti; o, ancora, i “bengala” facenti parte dei giocattoli pirici indicati alla V Categoria, Gruppo C, di cui all’art. 82 del Reg.. Orbene, come si diceva, proprio per fare qualche esempio, la detenzione senza denuncia, rispettivamente, di miccia a lenta combustione, di fuochi artificiali o di bengala deve ritenersi del tutto lecita quando il peso della materia esplodente che li compone (trattasi di polvere nera o pirica) non supera complessivamente i 5 Kg., non essendo essi in tale quantitativo pericolosi per l’incolumità pubblica nell’ipotesi di una loro simultanea accensione. Con riguardo ai manufatti appena indicati deve ribadirsi - così come si evince dalla decisione dei Giudici di legittimità riguardante le polveri da sparo - che l’espressione “quantitativo” non deve essere riferita al loro numero bensì alle sostanze che vengono adoperate per il loro confezionamento (come già rilevato la polvere pirica o nera e quelle senza fumo - quest’ultime comprendono anche quelle alla nitrocellulosa - sono concepite come prodotti privi di effetti distruttivi e micidiali donde la loro qualifica, di materie esplodenti e non di esplosivi). Per tornare all’esempio delle micce di sicurezza o a lenta combustione (che bruciano ma non esplodono), esse, allorché la quantità della polvere nera che le compone supera i 5 Kg., assumono la caratteristica di materia esplodente pericolosa e vanno pertanto denunciate (estremamente difficile, se non impossibile, ipotizzarne un quantitativo tale da produrre effetti dirompenti e distruttivi). E trattandosi di materie esplodenti, la violazione di tale obbligo è sanzionata dall’art. 679 C.P., ed in questi termini è ormai attestata la giurisprudenza di legittimità (v. per tutte Cass. Pen., Sez. I, 7/10/1992, Bartolomei; nella decisione, nonostante la puntuale adesione all’ineccepibile criterio distintivo tra materie esplodenti ed esplosivi ed il rilievo che ciò che doveva formare oggetto di valutazione era la polvere nera da sparo e non la sua particolare modalità di confezionamento, è tuttavia sfuggito di rilevare l’assenza di uno degli elementi costitutivi della norma ritenuta violata e, cioè, la pericolosità “ per quantità” della materia esplodente che animava i 7,30 mt. miccia di sicurezza sottoposti a giudiziale sequestro, caratteristica non certamente posseduta da quello di polvere nera che la componeva (calcolabile in meno di una cinquantina di grammi – peraltro era gia stata emessa la decisione 6/4/1987-21/4/1988, n. 04849 che apriva alla liceità della detenzione senza denuncia ex art 679 C.P. dei cinque Kg. di polvere nera sia pure tra le righe e non in modo esplicito come quella fondamentale), ciò che avrebbe dovuto condurre all’annullamento senza rinvio della decisione impugnata per non essere il fatto previsto dalla legge come reato, anziché per prescrizione del reato, o, al più, con rinvio per un accertamento tecnico in tal senso (non regge comunque in motivazione l’equiparazione degli effetti prodotti dagli esplosivi a quelli prodotti dall’impiego delle armi).
Dall’attribuzione alle micce di sicurezza della qualifica tecnica di materie esplodenti consegue poi l’erroneità di quella di “munizioni” conferita a tali manufatti in una decisione della Cassazione, rimasta comprensibilmente isolata, e, conseguentemente, della sussumibilità della violazione dell’obbligo della loro denuncia nell’ambito dell’art. 697 C.P. (Cass. Pen., Sez. I, 12/4-22/11/1985, n. 0594, Zangola). Le micce non sono munizioni per la semplice ragione che hanno un’autonomia strutturale, compositiva, e, soprattutto, funzionale diametralmente diversa dalle seconde. Sono utilizzate per innescare materie esplodenti delle quali distanziano temporalmente gli effetti, e non sono “…oggetti o cose necessarie per il caricamento e l’impiego…di armi”. E una cartuccia non distanzia alcunché ma esplica immediatamente i suoi effetti nel momento in cui viene sparata (effetti che sono oltretutto sensibilmente diversi da quelli provocati da un’esplosione), laddove è escluso che una miccia possa essere utilizzata attualmente per l’impiego di un’arma. Inconferente, poi, il richiamo normativo che, secondo la detta pronuncia, avrebbe costituito una conferma dell’identità di classificazione. È vero infatti che nella precedente formulazione dell’art. 82 Reg. cit. (ma è così anche nel nuovo) la V Categoria disciplinava genericamente, essendo così intitolata, le “Munizioni di sicurezza ed i giocattoli pirici”; ma tale Categoria risultava divisa e distinta nel vecchio All. A (ed è così anche adesso nella nuova formulazione dell’art. 82 Reg. cit.) in gruppi di materie omologhe e tra loro omogenee per effetti, e mentre le munizioni e le loro parti erano inserite nel Gruppo A, le micce di sicurezza erano inserite nel Gruppo B.
Alla mancata conoscenza degli effetti delle micce detonanti e di quelle a lenta combustione o di sicurezza, pur tenute distinte correttamente sotto il profilo dei rispettivi componenti, è invece ascrivibile la collocazione di entrambi i tipi di micce, ad opera di Cass. Pen., Sez. I, 19/2/1990, n. 02352, Siclari, nell’ambito operativo delle norme che sanzionano le varie illecite condotte in tema di esplosivi distruttivi e micidiali (L. 897/65, come succ. modif. dalla L. 497/74) dei quali fanno parte solo le prime per gli effetti demolitori loro propri, mentre le altre si limitano, all’accensione, a bruciare senza alcun effetto esplosivo.
Se dal regime della condotta di detenzione delle materie esplodenti sottoposte ad obbligo di denuncia ex art. 679 C.P. si passa ad esaminare quello stabilito per la condotta fattualmente identica di detenzione in deposito (e per altri tipi di condotta) allorché esse diventano oggetto di attività commerciale o, in determinate quantità, di impiego ricorrente legato a particolari esigenze (che per i privati coincidono solitamente con quelle venatorie, e con le svariate discipline di tiro preordinate all’attività agonistica sportiva), potrà notarsi come anch’esso risulti, ed a far data dal 1940, legislativamente ispirato, sempre nel quadro della prevenzione di infortuni e disastri, a quei criteri di ragionevolezza cui più sopra si accennava, tendenti a contemperare le esigenze di tutela della collettività con quelle dei singoli volte all’espletamento di attività consentite dall’ordinamento. L’obbligo di munirsi di licenza per le condotte più sopra richiamate - stabilito per le materie esplodenti dall’art. 97/1° c. Reg. cit. in esecuzione dell’art. 50 T.U.L.P.S., la cui violazione è sanzionata dall’art. 678 C.P. - sorge infatti, come più volte evidenziato, allorché le dette condotte hanno ad oggetto il superamento di determinati limiti quantitativi di tali sostanze. Quanto dire, cioè, che, nella prospettiva di una tutela degli interessi della collettività da fenomeni conseguenti all’accensione simultanea delle materie esplodenti, il legislatore ritiene presuntivamente iuris et de iure che al di sotto di tali limiti non vi è pericolo che i detti interessi possano essere compromessi. Ed in questa direzione si iscrivono del resto la recente integrazione del 1° comma dell’art. 97 Reg. cit. e la sostituzione del successivo art. 98, operate – con vistosi difetti di coordinamento - dal D.M. 272/2002 cit. che, con riguardo a determinati prodotti esplodenti ha, per un verso, svincolato le condotte che li riguardano in qualunque quantità dall’obbligo della licenza, e, per l’altro, ne ha consentito la detenzione, sempre in quantità illimitata, affrancandola dall’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S..
Le materie esplodenti che entro determinati limiti quantitativi non sono ritenute in grado di provocare infortuni collettivi e disastri sono quelle appartenenti - in seno all’art. 82 Reg. cit. ed al suo All. A - alla I Categoria (polveri da sparo nere e senza fumo in quantità non superiore a 5 Kg.), alla IV Categoria (artifici in quantità non superiore ai 25 Kg. di peso lordo) ed alla V Categoria, Gruppo A, n. 5 (cartucce per armi comuni, specificamente indicate nell’art. 97 Reg. cit. nella diversa tipologia di cartucce per fucile da caccia e cartucce per pistola o rivoltella, e nella rispettiva diversa entità numerica di 1500 e di 200); le condotte che ne formano oggetto, il cui esercizio non è presidiato dal rilascio di licenza, sono esclusivamente quelle di detenzione in deposito e di trasporto.
Deve tuttavia sottolinearsi che, nella prospettiva di quel bilanciamento di interessi più sopra esplicitati, l’esenzione dall’obbligo di munirsi di licenza di deposito e/o di trasporto per le materie esplodenti appena indicate (è così che deve ormai intendersi tecnicamente il termine “ esplosivi “ di cui alla prima parte del 1° c. dell’art. 97 cit. ed ai successivi commi 2 e 3 a seguito della distinzione operata dalla giurisprudenza di legittimità, termine invece appropriato per i prodotti esplodenti di cui al successivo comma 4) non è cumulativa, non riguarda, cioè, la possibilità di detenere (tenere in deposito) e/o trasportare contemporaneamente tutti i prodotti esplodenti indicati nel 1° comma dell’art. 97 cit., ma solo quelli rientranti in una sola delle Categorie ivi indicate e con il limite quantitativo precisato per ogni materia esplodente.
Tale possibilità è resa obbligatoriamente alternativa dalle locuzioni disgiuntive “od”, “ovvero” adoperate nell’art. 97 cit.; la prima disgiunge le polveri da sparo dagli artifici, e la seconda disgiunge gli artifici dalle cartucce. Quindi, per fare un esempio, la detenzione in deposito senza licenza di polvere da sparo fino a 5 chilogrammi (e, quindi, anche la detenzione di un minor quantitativo) impedirà la contestuale detenzione in deposito senza licenza degli “artifici” anche in un quantitativo minore a quello esente da licenza, e/o la contestuale detenzione in deposito senza licenza delle munizioni anche in un quantitativo minore a quello esente da licenza. Non è superfluo ribadire che anche con riguardo alle cartucce tenute in deposito senza licenza oltre il numero esente la correlata sanzione applicabile è, come accade per le altre materie esplodenti, quella di cui all’art. 678 C.P., mentre la loro eventuale omessa denuncia in qualunque quantità ricadrà come sempre, ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., nell’ambito operativo dell’art. 697 C.P. e non in quello dell’art. 679 C.P. che riguarda esclusivamente le materie esplodenti così tecnicamente qualificabili. Di guisa che, nell’ipotesi di detenzione fino a 1.500 cartucce per fucile da caccia non denunciate ex art. 38 T.U.L.P.S. si risponderà ai sensi dell’art. 697 C.P. ma non di detenzione senza licenza; nell’ipotesi di 1. 600 cartucce per fucile da caccia non denunciate si risponderà anche di detenzione in deposito senza licenza (e così anche per ciò che concerne le cartucce per arma corta).
In altri termini senza licenza di deposito possono detenersi o fino a cinque chilogrammi di polvere da sparo di qualunque tipo, o fino a 25 chilogrammi di artifici, o 1700 cartucce costituite nei massimi da 1500 per fucile da caccia e 200 per pistola o rivoltella (quindi, in quest’ultima ipotesi ed a scanso di equivoci, occorre licenza di deposito per detenere più di 1500 cartucce per arma lunga da caccia e licenza di deposito per detenere più di 200 cartucce per arma corta. E se, in quest’ultimi quantitativi, le cartucce si vogliono pure trasportare occorre licenza di trasporto sia per l’una che per l’altra; per intuibili ragioni entrambi i tipi di licenza vengono richieste nello stesso momento e rilasciate in unico corpo).
Va precisato però che l’alternativa detenzione in deposito e/o trasporto senza licenza dei prodotti esplodenti più sopra indicati non riguarda quelli appartenenti alla Cat. V, Gruppo D (si indicano tra questi, per la loro ricorrenza nell’esperienza giudiziaria, i manufatti pirotecnici da divertimento indicati al n. 4), introdotti in seno al 1° comma dall’art. 97 Reg. dall’art. 14 del D.M. 272/2002 cit.. Di questi prodotti esplodenti vengono disciplinati esplicitamente l’acquisto, il trasporto e l’impiego (ma, come si vedrà tra un momento, anche la detenzione in deposito pur se non esplicitamente indicata); le corrispondenti condotte, nei limiti di peso di 5 Kg. netti, non sono soggette ad obbligo di licenza (né ad obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. nei limiti dello stesso peso). Essi possono formare oggetto in contemporanea di tali condotte (nella parte della norma che li riguarda non vengono adoperate le disgiuntive “ o “) sia entro il limite detto sia che lo si superi (ma in quest’ultimo caso occorre munirsi delle relative licenze); e possono formare altresì oggetto di tali condotte in contemporanea a quelle di detenzione in deposito e/o di trasporto che hanno ad oggetto solo una delle materie esplodenti di cui alle Categorie indicate nella prima parte del 1° comma dell’art. 97 cit.. Tanto in virtù del fatto che l’indicazione della loro Categoria e del Gruppo di appartenenza in seno alla seconda parte del primo comma dell’art. 97 cit. non è stata resa in forma alternativa rispetto alle condotte indicate nella prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit. in sede di integrazione di tale norma.
In questo stesso contesto, il legislatore non ha tuttavia posto rimedio all’esistente (ed evidente) discrasia concernente gli “Artifici”. Questi prodotti esplodenti, detenibili in deposito e/o trasportabili senza licenza purché non vengano superati i limiti quantitativi per essi fissati nella prima parte 1° comma dell’art. 97, non sono poi menzionati nel successivo 3° comma tra quelli per i quali occorre munirsi di licenza nell’ipotesi di detenzione in deposito e/o di trasporto in quantitativo superiore. Come indicato dall’art. 82 Reg. cit., essi costituiscono la IV Categoria e tra essi devono essere annoverati i fuochi pirotecnici - identificativi ONU in All. A al Reg. T.U.L.P.S. da 033 a 035 - e gli oggetti pirotecnici per uso tecnico - identificativi ONU da 0428 a 0430 (essi non vanno confusi pertanto né con i giocattoli pirici compresi all’art. 82 Reg. cit. nella V Cat., Gruppo C, né con i manufatti pirotecnici da divertimento compresi nella V Cat., Gruppo D, n. 4, né con i manufatti pirotecnici compresi nella V Cat., Gruppo E, n. 5, sull’identificazione concreta dei quali regna, grazie alla mancanza di doti di chiarezza e di semplificazione riscontrabili negli autori della materia, un’enorme confusione; forse ad una loro rivisitazione per un raggruppamento ed una qualificazione più lineari potrà procedersi in occasione del preannunciato inserimento in seno alla V Categoria, Gruppi D ed E, dei manufatti pirotecnici indicati all’art. 20 del D.M. 272/2002 ad opera di un decreto di cui è parola nella medesima norma, ma non ancora emanato nonostante la scadenza dei previsti sei mesi: ed è auspicabile che tale opportunità non vada perduta). Può osservarsi, continuando nel discorso, che nel 3° comma dell’art. 97 cit. risultano invece indicati soltanto quelli della I Categoria (e, cioè, le polveri da sparo) e le cartucce (appartenenti alla V Categoria, Gruppo A, n. 5); mentre l’ultimo comma dell’art. 97 cit. prende in considerazione i prodotti di II (dinamiti) e III (detonanti) Categoria. Trattasi di una mera dimenticanza del legislatore dell’epoca che non inficia l’obbligo di munirsi di licenza di deposito e/o di trasporto anche per tali materie esplodenti allorché viene superato il limite dei 25 Kg. di peso lordo (calcolato con riguardo al solo peso dei componenti attivi indicato su ogni manufatto confezionato, come chiarito dal D.M. 23/9/1999) sia perché l’intera norma è dedicata alla disciplina generale del regime del rilascio di licenze di deposito e trasporto in dipendenza del superamento del quantitativo dei prodotti esplodenti (commi 1, 3) o in dipendenza (comma 4) della loro quantità detenibile o trasportabile, sia perché l’obbligatorietà della licenza anche per tale Categoria di prodotti esplodenti nell’ipotesi di superamento del quantitativo esonerato è insita nel fatto che senza licenza può essere detenuto in deposito e/o trasportato solo un quantitativo minore, sia perché taluni di essi hanno pari divisione di rischio a quelli della I Categoria per i quali, superato il quantitativo consentito, è obbligatorio munirsi di licenza di deposito. E la conferma di ciò è parzialmente rinvenibile sotto l’All. C al Reg. del T.U.L.P.S. cit. che disciplina (come prevede l’art. 83/3° c. Reg.) il rilascio delle licenze di trasporto: nel Capitolo 1° n. 3 di tale Allegato è detto, per l’appunto, che il trasporto di “Artifici” in quantità superiore a Kg. 25 è condizionato al rilascio della licenza.
Ma proprio in tale ultimo contesto - che si rivela esegeticamente utile in tema di “Artifici” – può rilevarsi un’altra antica omissione (pur essa non rimediata in fase integrativa dell’art. 97/1° c. cit.), riguardante, questa volta, le cartucce per pistola o rivoltella che, secondo la prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., possono essere trasportate senza licenza se non superano il numero di 200, da sole o unitamente alle cartucce per fucile da caccia quando non superano le 1.500 unità. Orbene, nella richiamata disposizione dell’All. C (Capitolo 1°, n. 3), mentre viene confermato l’obbligo della licenza di trasporto per un numero superiore di quest’ultimo tipo di munizioni, nulla vien detto al riguardo in relazione alle cartucce per arma corta allorché il trasporto riguarda un numero superiore a 200. Tuttavia non pare esservi dubbio sull’attuale persistenza di tale obbligo con riguardo al trasporto delle cartucce per arma corta, essendo esso disciplinato in via generale in seno all’art. 97 Reg. cit. che non è stato mai abrogato in alcuna sua parte. Anche qui non può, comunque, non riflettersi che tale conclusione è autorizzata dalla considerazione che risulterebbe viziato da manifesta illogicità un trattamento differenziato per prodotti esplodenti appartenenti alla stessa Categoria ed allo stesso Gruppo (le cartucce per armi comuni, senza alcuna distinzione tra lunghe e corte, sono comprese infatti nell’art. 82 Reg. cit. alla V Cat., Gruppo A, n. 5) ed aventi pari pericolosità per come attestato dall’attribuzione a tutte le munizioni della medesima divisione di rischio e di gruppo di compatibilità (1. 4 S – identificativi ONU 0012).
Altra discrasia - generata da una consistente dose di disattenzione spiegata in molte occasioni dal legislatore quando mette mano nella materia che, con riguardo alla questione principale oggetto del presente procedimento, si vedrà assumere proporzioni considerevoli – concerne invece le micce di sicurezza (dette anche a lenta combustione o cordoni di Bickford- se ne è già parlato a proposito dell’obbligo della loro denuncia ex art. 679 C.P.) da sempre disciplinate in seno alla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit. come prodotti esplodenti detenibili in deposito e trasportabili senza licenza in quantità illimitata. Ciò perché trattasi, sotto il profilo degli interessi tutelati dalle norme che si esaminano, di prodotti esplodenti pressoché privi di alcuna pericolosità datosi che all’accensione, in qualunque quantità, bruciano senza alcun effetto esplosivo, tanto da avere avuto assegnato in All. A (identificativo ONU n. 0105) un codice di classificazione che è indice, per l’appunto, di tale caratteristica. Tali prodotti esplodenti (non sfugga mai che questa espressione viene adoperata dalla normativa in esame in senso genericissimo, comprensiva, cioè, degli esplosivi più micidiali fino alle materie sostanzialmente prive di alcuna pericolosità) sono stati inseriti - a seguito della suddivisione della V Categoria in cinque Gruppi ad opera del D.M. 272 cit. - nel Gruppo B, al n. 1. Orbene, l’art. 98 del Reg. cit., come sostituito dal D.M. 272 cit., nel disciplinare in dettaglio l’assetto giuridico delle condotte correlate ai prodotti della V Categoria e dei Gruppi in cui è suddivisa (tra le quali quelle di deposito e trasporto), esordisce invece al 1° comma affermando che anche per quelli appartenenti al Gruppo B (oltre che per quelli dei Gruppi A e C) “…è richiesto il possesso delle relative autorizzazioni di cui alla legge ed al presente regolamento…”. Ne deriva una situazione paradossale dal momento che per l’art. 97 Reg. cit. le micce di sicurezza sono detenibili in deposito e trasportabili liberamente senza licenza in quantità illimitata e per il successivo art. 98/1° c. le stesse condotte che hanno ad oggetto tali manufatti sono condizionate al rilascio di licenza a prescindere dalla loro quantità. E le eccezioni formulate nel 1° comma dell’art. 98 Reg. cit. con un generico riferimento al capitolo I, n. 3 dell’All. C non riguardano in alcun modo le micce di sicurezza che appartengono alla V Categoria, Gruppo B, n. 1, ma le materie esplodenti di I Categoria, gli “Artifici” (che appartengono alla IV Categoria) e le munizioni (che appartengono alla V categoria, Gruppo A, n. 5). Il macroscopico difetto di coordinamento della nuova norma con quella preesistente è di tutta evidenza. Anche qui appare legittimo sostenere che, non essendo stato abrogato l’art. 97 cit. in nessuna sua parte, la disposizione che si rivela erronea sul punto, anche per le evidenziate ragioni tecniche, è quella introdotta dal nuovo art. 98 cit.; e che pertanto le micce di sicurezza rientrano tra i prodotti che possono detenersi in deposito e trasportarsi in numero illimitato senza vincolo di licenza per entrambe le condotte. Pur senza prendere posizione in relazione alla segnalata antinomia in ragione di un omesso esame dell’art. 98 Reg. cit. come interamente novellato dal D.M. 272 cit., la Corte di Cassazione in una recente decisione (Sez. I, 14/4-25/5/2004, n. 23971, Mele) non ha espresso alcun dubbio sull’attuale legittimità in via generale del trasporto delle micce di sicurezza in qualunque quantità in assenza di licenza trattandosi di prodotti esplodenti esonerati da tale obbligo, indicando, tuttavia, tale esenzione come una novità che sarebbe stata introdotta in seno all’art. 97 Reg. dal D.M. 272/2002; ciò non è esatto perché, la novità è consistita - come già rilevato - nell’aggiungere nel primo comma di tale disposizione un altro periodo riguardante, tra l’altro, l’esenzione da licenza per determinate condotte concernenti i prodotti esplodenti di cui alla V Categoria, Gruppi D ed E. L’esenzione dalla licenza di trasporto (e di deposito) per le micce di sicurezza, esiste invece dal 1940.
Ma il difetto di coordinamento più vistoso tra gli artt. 97 e 98 Reg. cit. riguarda proprio la condotta di detenzione in deposito delle munizioni in numero non superiore a 1.500 per le cartucce per fucile da caccia, e le condotte di detenzione in deposito e di trasporto in numero non superiore a 200 per le cartucce per pistola o rivoltella, rispettivamente affrancati, a mente della prima parte dell’art. 97 Reg. cit., dall’obbligo di munirsi di licenza. Come già più volte riferito, a seguito della suddivisione in Gruppi della V Categoria ad opera del D.M. 272/2002 cit., tali manufatti sono stati inseriti nel Gruppo A al n. 5 di cui all’art. 82 Reg. cit., sotto la denominazione di munizioni per armi comuni (e tali sono quelle impiegate nei fucili da caccia, nelle pistole e nelle rivoltelle in commercio, che sono, per l’appunto, armi comuni). Orbene se si legge il primo comma dell’art. 98 Reg. cit. nella sua nuova formulazione, con il quale vengono regolate in dettaglio le condotte relative ai prodotti esplodenti distribuiti tra i cinque Gruppi della V Categoria, vi si trova scritto che per il deposito ed il trasporto (e per altre condotte) dei prodotti esplodenti del Gruppo A, è richiesto il possesso “delle relative autorizzazioni di cui alla legge ed al presente regolamento, salvo quanto previsto dal capitolo 1°, n. 3, dell’All. C al presente regolamento …”. Ma tale ultima disposizione, preesistente alla sostituzione dell’art. 98 Reg. cit., che si pone come eccezione al principio generale enunciato dal 1° comma dell’art. 98 Reg. cit. novellato, riguarda, per quanto concerne le munizioni, soltanto la condotta di trasporto delle cartucce per fucile da caccia, per le quali viene confermato (così come disposto dalla prima parte dell’art. 97 Reg. cit.) che la relativa licenza è richiesta nell’ipotesi di superamento delle 1.500 unità. Nulla vien detto, in veste di analoga eccezione, in ordine alla condotta di trasporto delle cartucce per pistola o rivoltella (ma la questione è stata già esaminata rilevandosi che il mancato coordinamento riguarda per tale ragione anche il capitolo 1°, n. 3 dell’All. C con la prima parte dell’art. 97/1° c., rimasto invariato nella sua formulazione); ma, soprattutto, nulla vien detto in veste di eccezione in ordine alla condotta di deposito di entrambi i tipi di munizioni ai fini di una conferma di quanto disposto dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit..
Ne segue un’altra situazione paradossale ed incongruente. Per l’art. 97/1° c. Reg. cit. la condotta di detenzione in deposito delle cartucce per fucile da caccia o delle cartucce per pistola o rivoltella è esentata da licenza nei limiti del quantitativo numerico ivi indicato, e così dicasi anche per la condotta di trasporto concernente gli stessi manufatti. Per l’art. 98/1° c. Reg. cit. integrato dalla sua eccezione, la condotta di detenzione in deposito dovrebbe essere sempre assistita da licenza per entrambi i tipi di munizione a prescindere dal loro numero (pertanto, anche per la detenzione in deposito di una sola cartuccia occorrerebbe la licenza); quella di trasporto sarebbe invece esente da licenza solo con riguardo ad un numero inferiore o pari a 1.500 cartucce per fucile da caccia ma non per le cartucce per pistola o rivoltella (pertanto, anche per il trasporto di una sola cartuccia allestita per tali armi occorrerebbe munirsi di licenza). Ed anche qui non può che sostenersi che, non essendo stato abrogato l’art. 97 cit. in nessuna sua parte, la disposizione che si rivela ancora erronea in punto di condotte di deposito è quella introdotta dal nuovo art. 98/1° c. cit. nel cui contesto avrebbe dovuto essere escluso l’obbligo di munirsi di licenza per le condotte di deposito riguardanti le munizioni nei limiti numerici detti, per come stabilito dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit.; ed allo stesso modo – facendovi riferimento l’art. 98/1° c. Reg. cit. – sarebbe stato necessario procedere ad un’integrazione del Capitolo I, n. 3 dell’All. C prevedendo, per come indicato dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., l’obbligo della licenza di trasporto alle munizioni per pistola o rivoltella solo nell’ipotesi di superamento del limite quantitativo delle 200 unità.
Avendovi più volte fatto riferimento, va chiarito che le licenze per l’espletamento delle condotte indicate nell’art. 97 cit. sono rilasciate dal Prefetto, provvedendo per gli esplosivi il Ministro dell’Interno ex art. 46 T.U.L.P.S. (eccezionalmente il Prefetto per il deposito ed il trasporto degli esplosivi di cui al 3° c. e per determinate quantità - il termine improprio di “detonanti” è adoperato nel significato di “detonatori”, tanto che ne viene fatta un’indicazione numerica e non di qualità, che appartengono, per l’appunto, alla III Categoria -). La licenza di deposito è permanente per come dispone l’art. 51 T.U.L.P.S., esplicitamente richiamato al riguardo in seno al 3° c. dell’art. 97 Reg. cit.., in deroga al principio generale sancito dall’art. 13 del T.U.L.P.S. che fa salva per l’appunto l’ipotesi che la legge disponga altrimenti. Né possono farsi distinzioni basate sui destinatari della norma: l’art. 47 T.U.L.P.S., non pone al riguardo alcuna distinzione, e, come più sopra evidenziato, l’art. 97 Reg. è norma rivolta anche alla detenzione in deposito ed al trasporto di determinati prodotti esplodenti da parte dei privati cittadini, circostanza confermata specificamente dalla recente integrazione apportata all’art. 97/1° c. cit. dal D.M. 273 cit., posto che in essa vien detto, per un verso, che i destinatari dell’esonero dall’obbligo di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. (che sono i privati cittadini) vengono al contempo esonerati dall’obbligo di licenza per il deposito ed il trasporto dei medesimi prodotti esplodenti (oltre che per l’acquisto e per l’impiego), e, per l’altro, che tale esonero non si estende a tutti gli altri prodotti esplodenti indicati nell’art. 97 cit., per i quali i soggetti esonerati (che sono sempre i singoli consociati) sono tenuti all’obbligo di denuncia ed all’obbligo di munirsi di licenza alle condizioni quantitative ivi stabilite.
Tornando ora al regime dell’esonero alternativo dall’obbligo delle licenze stabilito dall’art. 97 Reg. cit., interessa qui riassumere la sua operatività con riguardo alla condotta di detenzione in deposito delle polveri da sparo nere e senza fumo (materie esplodenti della I Categoria) e delle cartucce per fucile da caccia (manufatti appartenenti alla V Categoria, Gruppo A, n. 5, e disciplinati in numero superiore a 1.500 allo stesso modo delle materie esplodenti), evidenziando, quanto a quest’ultime ed alle cartucce per pistola o rivoltella, due pleonasmi che le riguardano, individuabili nelle espressioni “ cartucce…caricate a polvere” e “ …cartucce cariche…”. Le cartucce, infatti, non possono essere che caricate con polvere da sparo, ed il termine cartucce è di per sé indicativo, senza necessità di alcuna precisazione al riguardo, del fatto che sono cariche, dal momento che quelle scariche non possono essere qualificate cartucce, ma bossoli di risulta o bossoli innescati; né tale precisazione può rivelarsi utile a differenziarli da tali ultimi manufatti, visto che gli stessi sono esplicitamente indicati subito dopo. Peraltro il contesto in cui le cartucce vengono menzionate (“…cartucce per fucile caricate…” “…cartucce cariche per pistola o rivoltella…”) essendo confermativo di una predisposizione all’uso normale che è loro proprio, esclude qualunque possibilità di riferimento alle cartucce a salve.
Quindi, in base alla disciplina dell’esonero delle licenze di deposito per le polveri da sparo e le munizioni per fucile da caccia, al privato è consentito detenere (tenere in deposito) senza munirsi di licenza prefettizia o un quantitativo di polveri da sparo che non superi i cinque Kg. (di qualunque tipo e, cioè, polveri nere e/o senza fumo – la norma fa infatti generico riferimento alla categoria di appartenenza ma non al tipo), o 1.500 cartucce per fucile da caccia; ed il superamento di uno di tali limiti quantitativi non assistito da licenza è sanzionato ai sensi dell’art. 678 C.P.. Ed errata o giusta che sia la valutazione operata dal legislatore del ’40 in ordine al possibile verificarsi di eventi disastrosi in dipendenza della contestuale detenzione entro i limiti detti di polvere da sparo e munizioni (ipotesi che appare oltremodo improbabile anche in un contesto di detenzione cumulativa di tutte le materie esplodenti di cui al 1° comma nei limiti quantitativi ivi previsti, e si propende pertanto per la prima ipotesi), un fatto certo è che la formulazione della norma non consente interpretazioni diverse.
Si è detto più sopra che le polveri da sparo detenute devono contemporaneamente formare oggetto di denuncia all’Autorità di P.S. se, nel quadro degli interessi tutelati dall’art. 679 C.P., si rivelano “ pericolose per la loro quantità “; (ciò che a tenore della fondamentale decisione dei Giudici di legittimità e per indicazione dello stesso legislatore – i manufatti pirotecnici da divertimento ad effetto di scoppio e/o ad effetto luminoso di cui alla Categoria V/D n. 4, solo per fare un esempio, sono costituiti da polvere da sparo nera - si verifica oltre il limite dei 5 Kg. di tali materie esplodenti), e che la violazione di tale obbligo è sanzionata dalla norma appena richiamata; violazione che concorre con quella presidiata dall’art. 678 C.P. se la quantità di polvere da sparo detenuta supera il limite dei 5 Kg. e la sua detenzione non è assistita da licenza. Quindi tale limite quantitativo segna la soglia oltre la quale vi è obbligo di denuncia ex art. 679 C.P. ed obbligo di munirsi di licenza ex artt. 97/1°c. Reg. cit. e 678 C.P..
E si è detto ancora che, sempre ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., anche le munizioni detenute in qualsiasi quantità e di qualsiasi genere (e, quindi anche le munizioni per fucile da caccia di cui all’art. 97 Reg. cit. ed a prescindere dal fatto che si tratti di munizioni spezzate o a palla unica) sono sottoposte, per esigenze diverse da quelle cui si ispira l’art. 679 C.P., ad obbligo di denuncia e che della violazione di tale obbligo si risponde ai sensi dell’art. 697 C.P.; violazione che concorre con quella sanzionata dall’art. 678 C.P. se le munizioni per fucile da caccia detenute superano il numero delle 1.500 e la loro detenzione non è assistita da licenza, essendo disciplinate dall’art. 97 Reg. cit in tale consistenza. come materie esplodenti.
Ma in relazione all’esonero dall’obbligo di munirsi di licenza per le poveri da sparo in quantitativo inferiore ai 5 Kg., si è anche detto che esso realizza il giusto contemperamento dell’interesse dei singoli allo svolgimento di attività consentite dalla legge (venatoria, sportiva etc.) con quello dell’esigenza di tutela dell’incolumità pubblica; quanto dire, in altri termini, che per la polvere da sparo tenuta in deposito fino all’indicato limite quantitativo (o, segnatamente, per ogni singola materia esplodente di cui alla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit.) è escluso per definizione che una sua accensione simultanea possa compromettere l’incolumità pubblica. E, d’altro canto, passando dal regime della licenza di deposito per la polvere da sparo a quello della sua denuncia, si è detto che ha analogo fondamento il fatto che, nei limiti del quantitativo consentito (oltre il quale è presunto astrattamente iuris et de iure il pericolo di infortuni collettivi e di disastri, donde la necessità di regolamentarne il deposito attraverso il rilascio della licenza) l’obbligo di provvedervi ex art. 679 C.P. sorga allorché essa si riveli concretamente pericolosa per la sua quantità, tale individuata più sopra, con conferma giurisprudenziale e legislativa, in non oltre 5 Kg..
Deve peraltro riflettersi che - pur dopo l’entrata in vigore dell’art. 26 della L. 110/75 integrativa della disciplina per il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi (che consente, come si vedrà a breve, di detenere senza la denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. ed a determinate condizioni, 1000 cartucce da caccia) - il regime di detenzione in deposito delle materie esplodenti delineato dall’art. 97 Reg. cit. in forma rigorosamente alternativa, porta ad una situazione per certi versi aberrante: se si detiene lecitamente (si è, quindi, fuori dall’ambito operativo dell’art. 679 C.P.) un quantitativo di polvere da sparo inferiore ai 5 Kg (per la cui diversa condotta di detenzione in deposito l’obbligo di munirsi di licenza sorge al suo superamento), risulta impossibile detenere contestualmente in modo lecito (provvedendo, cioè, alla loro denuncia all’Autorità di P.S. ex artt. 38 T.U.L.P.S. ) un numero di munizioni per fucile da caccia inferiore alle 1.500 unità (ad es. 100, ma il discorso vale anche per una sola cartuccia), perché sorgerebbe immediatamente l’obbligo in capo al detentore di munirsi di licenza prefettizia di deposito sia per la detenzione della polvere da sparo sia per la detenzione delle munizioni, anche se si versa in quantitativi inferiori a quelli per i quali è previsto tale obbligo. E viceversa.
Né su tale stato di cose influisce l’esenzione da denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S., a determinate condizioni, delle mille cartucce per fucili da caccia a munizione spezzata di cui all’art. 26 L. 110/75, norma che formerà a breve oggetto di analitico esame sotto altri più rilevanti profili, tra i quali l’estensione della norma anche alle munizioni a palla asciutta o unica. Si è infatti più volte ripetuto che il concetto di detenzione ex art. 38 T.U.L.P.S. , è cosa ben diversa dalla detenzione in deposito di cui all’art. 97/1° c., Reg. cit.. Quindi, o che si detengano di 500 cartucce per fucile da caccia esentati da denuncia in ragione della sussistenza delle condizioni previste dall’art. 26 L. 110/75, o che si detengano 500 cartucce per fucile da caccia in assenza di tali condizioni e, quindi, soggette obbligatoriamente a denuncia, o che si detengano 1100 cartucce per fucile da caccia soggette ad obbligatoria denuncia anche in presenza delle dette condizioni, tanto queste che la polvere da sparo che si vuole lecitamente detenere pur in misura inferiore ai 5 Kg. dovranno formare oggetto di rilascio di licenza prefettizia. Ed analogo discorso è a farsi con riguardo alle cartucce per arma corta (per queste l’obbligo i denuncia è sempre obbligatorio anche in numero di una, esenzioni a parte).
L’abnormità di tale situazione non coinvolge tuttavia le cartucce per fucile da caccia e quelle per quelle per arma corta per la forma cumulativa con cui il legislatore ha reso la detenzione di entrambi tali manufatti senza licenza entro il quantitativo numerico stabilito nella prima parte dell’art. 97/1° c., Reg. cit., attuata attraverso l’uso della congiunzione “ nonché “ posta tra essi; di guisa che possono detenersi contemporaneamente ex art. 38 T.U.L.P.S., e senza licenza di deposito, fino ad un massimo di 1500 cartucce per fucile da caccia e fino ad un massimo di 200 cartucce per pistola o rivoltella. Con la conseguenza che il superamento di uno di tali limiti che comporta l’obbligo di munirsi di licenza, non comporterà analogo obbligo con riguardo all’altro tipo di manufatti se rimane nei limiti per esso indicati.
Quindi, per riassumere con riguardo alle materie esplodenti detenibili in deposito ex art. 97/1° c., prima parte, Reg. cit. (e tralasciando gli “Artifici” per i quali, comunque, vale analogo discorso), risulta che possono essere detenute lecitamente e formare contestualmente oggetto di detenzione in deposito senza licenza prefettizia nel limite quantitativo per esse previsto o le polveri da sparo o le munizioni (1500 cartucce per fucile da caccia e 200 cartucce per arma corta). Nel momento in cui si vogliono detenere lecitamente entrambi i tipi di manufatti, sorge, sia per l’uno che per l’altro, l’obbligo di munirsi di licenza ex art. 97/ 1° c., prima parte, Reg. cit. anche se i rispettivi quantitativi non superano quelli per i quali essa è obbligatoria.
E deve infine rammentarsi che il regime di detenzione delle munizioni ex art. 38 T.U.L.P.S. isolatamente considerato prevede in via generale (art. 26 L. 110/75 cit. a parte) l’obbligo di denuncia anche di una sola cartuccia per arma lunga e per arma corta.
Orbene, proprio nel solco di un più razionale, pratico e duttile contemperamento degli interessi più volte richiamati, si pongono un intervento legislativo diretto ad attenuare l’intransigenza dell’art. 38 T.U.L.P.S. in tema di denuncia di munizioni, con il quale vengono esonerati, entro certi limiti numerici ed a determinate condizioni, coloro che detengono cartucce per fucili da caccia, nonché alcuni interventi giurisprudenziali in materia di polveri da sparo volti, in derivazione del primo, alla realizzazione di una snella interazione di tali materie esplodenti con le munizioni da caccia per superare l’abnormità creata dall’alternatività della loro detenzione in deposito; ma tanto coerenti, puntuali e sostanziali si sono rivelati i secondi, quanto maldestro è stato il legislatore nel realizzare il proprio, entro il quale si colloca per di più la vicenda principale oggetto del presente procedimento.
Prendendo le mosse proprio da quest’ultimo intervento, è noto che esso veniva realizzato nel 1975 nel contesto della normativa (la L. 110) tesa ad irrigidire il controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi in conseguenza dei dilaganti fenomeni eversivi verificatisi in quegli anni. La norma che lo prevede (l’art. 26, cui in sede di lavori preparatori era stato invece assegnato dalla Commissione-Senato il numero 25-bis) e che, apparentemente, sembra, alla lettura del suo titolo, incanalarsi in tale direzione, “Limiti alla detenzione senza denuncia di munizioni”; all’esame del suo contenuto rivela invece l’intenzione del legislatore di renderla come eccezione ai criteri ispiratori del nuovo sistema: ma, come si diceva, realizzato alla fine in modo contorto e, come tale, fonte di pesanti dubbi interpretativi comunque superati da puntuali ed inoppugnabili soluzioni esegetiche offerte dai pur non puntuali lavori preparatori e dalla successiva produzione normativa in materia.
E iniziando proprio dalla titolazione della norma, essa rivela, ad un’attenta lettura, un’evidente anomalia di fondo, lasciando chiaramente intendere che tra le norme che avevano regolato fino a quel momento tali manufatti ve ne fosse qualcuna che ne consentisse la detenzione senza denuncia in misura illimitata o, quanto meno, in misura superiore a quella che si voleva stabilire con la nuova disposizione. Situazione, al contrario, priva di qualunque fondamento vigendo, ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., l’obbligo generale ed assoluto di denuncia della detenzione anche di una sola munizione. Né appariva ipotizzabile – pena una patente confusione tra le due condotte e le loro diverse finalità - che i “Limiti…” fossero riferibili alla quantità delle munizioni detenibili in deposito senza licenza di cui all’art. 97 Reg. cit., dal momento che la condotta di detenzione cui viene fatto esplicito riferimento nel corpo della nuova norma è proprio quella disciplinata dall’art. 38 T.U.L.P.S.. Con la conclusione obbligata che la dicitura adoperata per la titolazione dell’articolo si rivela di significato del tutto opposto alla situazione delineata dal contenuto della norma, la quale ribadisce in via generale ed assoluto l’obbligo di denuncia delle munizioni comprimendolo eccezionalmente a determinate condizioni. Un titolo reso in termini più lineari, come quello, ad es., del tenore “Casi di detenzione di munizioni senza denuncia”, non avrebbe creato alcuna disarmonia con il contenuto della norma, mai modificata sino ad oggi.
Dalla lettura dei lavori preparatori emerge sostanzialmente – pur a fronte della confusione tra le due diverse condotte di detenzione e della poca dimestichezza con la materia evidenziate da qualcuno dei componenti la Commissione - che con la nuova norma si è voluta sostanzialmente riprodurre con riguardo all’art. 38 T.U.L.P.S. la stessa situazione vigente in tema di esonero della licenza di detenzione in deposito per le munizioni, salvo che per la loro quantità. Al riguardo, deve tenersi presente che la Commissione per prima impegnata nella redazione della nuova norma (la I Commissione-Senato – Commissioni in sede legislativa - 36° Resoconto sten. 19/2/1975- pag 389) la licenziava, con identica titolazione, con questo contenuto “ È soggetto all’obbligo della denuncia, stabilito dall’art. 28 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, chi, in possesso di armi regolarmente denunziate, detiene munizioni per armi comuni da sparo eccedenti la dotazione di 50 cartucce cariche per pistola o rivoltella o di 300 cartucce cariche per fucili da caccia “. Orbene, all’esame della Commissione camerale (Camera dei Deputati – Commissioni in sede legislativa – VI Legislatura – Seconda Commissione – Seduta del 26/3/1975), procedutosi alla correzione dell’errato riferimento all’art. 28 del T.U.L.P.S. indicato in luogo dell’art. 38 T.U.L.P.S., il Relatore dichiarava di voler emendare la norma in esame espungendo da essa la detenzione senza denuncia eccedente “ la dotazione delle 50 cartucce cariche per pistola o rivoltella o di 300 cartucce cariche per fucile da caccia “, e proponendo in sua sostituzione quella dell’obbligo di denuncia eccedente la dotazione di “ 1000 cartucce a pallini per fucile da caccia “. Spiegava che la soppressione riguardante le 50 cartucce per arma corta era riconducibile al fatto che “la dotazione per pistole e rivoltelle è già prevista dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza “. La confusione fatta dal relatore è di tutta evidenza: non solo il T.U.L.P.S. non prevede al riguardo alcuna esenzione, ma l’unica riguardante le munizioni per arma corta è disciplinata dal Regolamento in un contesto giuridico ben diverso da quello dell’art. 38 T.U.L.P.S., e, cioè, dell’esenzione dalle licenze di deposito. Ma uno dei componenti la Commissione - che aveva proposto l’esenzione da denuncia per un numero di 1500 cartucce per fucili ad anima liscia (e di 300 per fucili ad anima rigata) – obiettava, quanto alla proposta di riduzione delle cartucce da caccia a 1000 esentate da denuncia, che il numero maggiore di 1500 da egli indicato non faceva altro “ che riprodurre la dotazione autorizzata dal regolamento di pubblica sicurezza per il trasporto “, sembrando “ assurdo che la norma attualmente in vigore consenta di trasportare fino a 1500 cartucce da caccia mentre se si lasciano a casa si è legittimato a detenerne 1000” . Aggiungeva che la cifra di 1500 non era stata indicata “ per una volontà transattiva ma fa della soglia di 1500 cartucce il quantitativo che si può sia trasportare e sia detenere perché il concetto di trasporto è identico a quello di detenzione, perciò sarebbe più corretto e coerente fissare a 1500 questa soglia “. A parte l’erroneità dell’identità concettuale tra le due condotte giuridiche di detenzione e di trasporto, rappresentando la prima la naturale e necessaria modalità in fatto della realizzazione della seconda allo stesso modo della condotta giuridica di porto (di cui si è già ampiamente parlato), a parte ciò, le considerazioni dell’autore dell’ emendamento appaiono esatte e confermano, come si diceva, una volontà volta a riprodurre per le munizioni in seno all’art. 38 T.U.L.P.S. la stessa situazione disciplinata per la libera condotta di detenzione in deposito di tali manufatti dall’art. 97 Reg. cit.., usufruendo - in assetto integrativo della condotta di detenzione senza la denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. - della contestuale possibilità di trasportarli liberamente consentita dall’art. 97 Reg. cit. in quanto ritenuta non in grado (in tale misura) di compromettere le esigenze cui è preordinata tale norma. Incongruenti e risibili quanto dimostrative della mancanza di cognizione di determinate realtà le ragioni addotte da altro componente la Commissione adesive al limite delle 1000 cartucce per fucile da caccia. La prima: “La limitazione del numero delle cartucce è stata fatta per evitare che con la scusa di andare a caccia si trasferissero munizioni per altro uso”. Concretamente non riesce di correlare la cessione illecita delle munizioni da caccia detenute senza denuncia rispetto a quelle detenute con denuncia, con la maggiore facilità di cederle nella prima ipotesi piuttosto che nella seconda. Trattandosi di munizioni destinate ad un incontrollabile assiduo consumo, tanto nell’uno che nell’altro caso una volontà del genere sarebbe in ogni caso mascherabile con tale finalità. Non si capisce poi perché la detenzione senza denuncia di 1000 cartucce renderebbe meno agevole la loro cessione totale o parziale rispetto a quella senza denuncia nel numero di 1500. La seconda: “Non capisco poi perché un cacciatore non debba comprare le cartucce sul luogo di caccia invece di portarle da casa”. Non risulta che gli accidentati percorsi di caccia siano disseminati di chioschi adibiti alla vendita al dettaglio di cartucce.
Ma è dalla lettura complessiva della norma che si trae la pesante sensazione di una sua dismorfia strutturale in ragione dell’evidente mancanza di una sua parte che, all’esame dei lavori preparatori, risulta presente nel testo originario, dal quale veniva successivamente estrapolata senza che si provvedesse agli opportuni adattamenti per rendere la parte restante armonicamente sintonica.
E si osserva al riguardo quanto appresso.
Nella norma si indicano quali suoi destinatari soltanto coloro che possiedono armi regolarmente denunciate, ma non si fa menzione di quale tipologia. Di talché occorre procedere alla loro individuazione. In questa direzione devono certamente escludersi le armi bianche dal momento che nella titolazione della norma si fa riferimento alle munizioni, che sono corredo soltanto di quelle da sparo (a scanso di equivoci la balestra e l’arco – quest’ultimo specificamente previsto come mezzo di caccia - non sono armi ed i loro rispettivi dardi e frecce non sono munizioni ma strumenti da punta); devono escludersi altresì le armi ad aria compressa ed a propulsione a mezzo di gas compressi (che sono la stessa cosa) a non modesta capacità offensiva, tenuto conto che la norma ha ad oggetto l’esenzione dall’obbligo di denuncia di munizioni per le quali detto obbligo è previsto in via generale, mentre le munizioni per le armi ad aria compressa ed a propulsione a mezzo di gas sono liberamente detenibili in quantità illimitata essendo materiale inerte. Peraltro le armi ad aria compressa si vedrà che non rientrano tra quelle impiegabili in attività venatoria. Emerge pertanto che con l’espressione “armi regolarmente denunciate” il legislatore ha voluto riferirsi alle armi comuni da fuoco lunghe e corte che costituiscono il maggior numero delle armi da sparo. E non c’è da sbagliarsi perché i lavori preparatori sono dedicati soltanto a queste: che possono indicarsi anche come armi comuni da sparo non comprensive delle armi ad aria compressa e di quelle a propulsione a mezzo di gas. La disposizione precisa poi che deve trattarsi di armi regolarmente denunciate, per cui non può avvalersi della sua provvidenza chi detiene armi non denunciate o, peggio ancora, clandestine. Ed allo stesso modo non può avvalersene chi è riuscito a denunciare il possesso di un’arma risultata alterata dal medesimo (diversa l’ipotesi riferibile ad un’arma regolarmente denunciata ricevuta da altri già alterata: questa condotta, assieme a quella del porto, non è infatti prevista dalle legge come reato).
Detto ciò può meglio comprendersi la consistenza del difetto di articolazione della norma: esplicitata la qualità soggettiva dei destinatari, identificabili in coloro che detengono armi comuni da sparo lunghe e corte, essa – con periodare massimamente contorto - passa ad indicare ciò che tali soggetti hanno l’obbligo di denunciare e cioè la detenzione di “munizioni per armi comuni da sparo eccedenti la dotazione di 1000 cartucce a pallini per fucile da caccia”, e non il contenuto dell’esenzione; passa ad enunciare, cioè, il principio generale sancito dall’art. 38 T.U.L.P.S. che, per essere arcinoto, non v’era alcun bisogno di ripetere, consentendo di arrivare solo per esclusione all’oggetto dell’esenzione e, cioè, la detenzione di “munizioni per armi comuni da sparo non eccedenti la dotazione di 1000 cartucce a pallini per fucile da caccia”. In che cosa è consistita la mutilazione è allora di tutta evidenza: si parla prima di munizioni per armi comuni e, cioè, per le armi corte (pistole e rivoltelle) e per quelle lunghe (fucili con canna ad anima liscia e fucili con canna ad anima rigata), ed a seguire si indicano invece soltanto le cartucce per fucili da caccia a pallini e, quindi, non le cartucce per tutti i fucili ma per quelli con canna ad anima liscia. Ancora una volta la lettura dei lavori preparatori spiega ciò che si verificava in tale sede lasciando “apprezzare” uno dei più consistenti esempi della superficialità e della frettolosità con cui si è soliti legiferare in una materia così delicata, complessa ed importante. L’originaria formulazione della norma veniva infatti veniva emendata della parte riguardante l’esenzione dall’obbligo di denuncia delle munizioni per pistola o rivoltella (che, unitamente a quelle per le armi lunghe, dava un senso all’indicazione del possesso delle armi comuni da sparo), e veniva quindi sollecitamente approvata senza che si provvedesse ad effettuare gli opportuni aggiustamenti pretesi dalla modifica (e cioè il possesso riferito ai soli fucili da caccia e l’esenzione riferita alle omologhe munizioni). Con l’effetto di creare numerose incertezze interpretative al momento dell’applicazione della norma. Alcune sono state più sopra illustrate e risolte, ma quella più vistosa, che sorge alla lettura della norma, è che essa autorizza legittimamente ad escludere ogni consecutio tra la condizione soggettiva (quella, cioè, di essere possessori di armi regolarmente denunciate) e quella oggettiva (le munizioni per fucile da caccia detenute); con la conseguenza che anche il lecito possesso di una pistola renderebbe lecita la detenzione senza denuncia delle 1000 cartucce a pallini per fucile da caccia. E così infatti, su questo punto la norma è stata interpretata: “ La detenzione delle cartucce caricate a pallini per fucile da caccia è consentita ai possessori di armi regolarmente denunciate, purché la dotazione di cartucce non super il numero di mille, a nulla rilevando che le munizioni siano o no dotazione quantitativamente propria dell’arma dell’arma detenuta “ (Cass. Pen., Sez. I, 5/12/1983-11/2/1984 n. 01190). Per la verità sembra eccessivo sotto il profilo logico ritenere – a fronte del dato letterale della norma – che il possesso di un’arma corta possa giustificare la detenzione senza denuncia di munizioni per le quali è esclusa ogni correlazione funzionale con la tipologia dell’arma denunciata. Ed in tale direzione si colloca invero una recente pronuncia della giurisprudenza di legittimità che, in contrasto con il precedente indirizzo, ha affermato – sottolineando così la necessità di una lettura della norma orientata nel senso dell’esistenza di un collegamento sinergico ed interattivo tra le due condizioni – che l’esenzione dalla denuncia delle cartucce a pallini per fucili da caccia riguarda esclusivamente “…riguarda esclusivamente lo specifico modello per il quale è intervenuta la denunzia “ (Cass. Pen., Sez. Fer., 6/8/2004, Fumosa). A parte l’imprecisione con cui è stata massimata la decisione dovendosi fare riferimento al calibro dell’arma (è questo che va posto in correlazione con quello delle cartucce, mentre il modello dell’arma non indica alcunché e non potrebbe mai influire sulla questione che si tratta), ed a parte che in motivazione non si spiega l’origine della necessità di una lettura correlata limitandosi ad affermare che la previsione dell’esenzione da denuncia delle munizioni per fucili da caccia si richiama, con il riferimento “alle armi regolarmente denunziate” al loro specifico modello (e si è visto invece che tale riferimento implica il coinvolgimento di ogni arma da fuoco corta e lunga), a parte ciò, anche l’interpretazione offerta dall’indirizzo contrario sembra eccessiva quanto quella del primo (ma qui per estrema rigidità) in quanto, pur dovendosi ritenere legittima, come si dirà a breve, l’identificazione delle armi denunciate con quelle lunghe da caccia che impiegano cartucce a pallini (ed anche a palla, come si vedrà), la norma non condiziona in alcun modo l’operatività dell’esenzione alla corrispondenza del calibro dell’arma con quello delle cartucce esentate, ma tutt’al più, al fatto che debba trattarsi di fucili con canna ad anima liscia essendo solo queste le armi lunghe da caccia che impiegano munizioni a pallini. Peraltro la rigidità del secondo orientamento porterebbe, ad es., all’affermazione di responsabilità ex art. 697 C.P. di chi – iniziale detentore di munizioni nel numero esentato in calibro corrispondente a quello dell’arma lunga da caccia denunciata – decidesse successivamente di cedere quella in precedenza posseduta e di detenerne lecitamente un’altra di calibro diverso, lasciando presso di sé, per dimenticanza o nella previsione di utilizzarle nel caso di riacquisto di un’arma di identico calibro, un residuo di cartucce di dotazione della precedente arma. E si verificherebbe, in base all’orientamento in questione, che la detenzione delle precedenti cartucce perderebbe il suo stato di liceità. Ora ciò potrebbe avere un senso se la “residua” detenzione delle cartucce fosse conseguenza della commissione di un fatto illecito con l’uso dell’arma lunga da caccia lecitamente detenuta e di un successivo divieto di detenere armi pronunciato ex art. 39 T.U.L.P.S. ; la qual cosa provocherebbe l’illiceità della detenzione delle munizioni da caccia prima detenute lecitamente senza denuncia, in quanto detenute ora sine titulo. Ma nell’esempio fatto – tutt’altro che raro nella quotidianità - il mutamento dello stato di liceità deriverebbe dal compimento di due fatti altrettanto leciti quali la cessione del precedente fucile da caccia e l’acquisto del nuovo in calibro diverso, che - proprio perché leciti – non potrebbero pertanto avere alcuna incidenza negativa sullo stato di liceità delle munizioni in precedenza detenute per l’arma dismessa. E lo stesso è a dirsi nel caso di cessione dell’arma intervallata da un periodo di tempo prima di entrare in possesso di un’altra in ragione del tempo occorrente dall’acquisto per averne la materiale disponibilità; ed ancora, nell’ipotesi in cui si decida di cedere la propria arma per l’impossibilità di dedicarsi per un certo tempo, per le più svariate ragioni, all’esercizio dell’attività venatoria.
Una corretta interpretazione della norma, equidistante dai due opposti orientamenti giurisprudenziali ed in grado di rimediare alle nefaste conseguenze che originano dall’omesso adeguamento della condizione soggettiva a quella oggettiva, deve necessariamente prendere le mosse dai lavori preparatori. Se c’è una cosa che si ricava con certezza dalla loro lettura complessiva e dimostra qual’era l’effettiva volontà di chi la emanava è che all’origine l’esenzione doveva riguardare l’esenzione da denuncia entro determinati limiti numerici tanto delle munizioni per arma corta che quelle per armi lunghe; e con questi contenuti la norma era stata licenziata dalla Commissione Camerale. Ed ancora con questi contenuti era stato ripreso dalla Commissione-Senato, tanto che gli emendamenti suggeriti avevano ad oggetto la modifica del numero di cartucce detenibili senza denuncia per l’una e l’altra tipologia di armi. A titolo di esempio si cita quello che indicava di aumentare il numero delle cinquanta cartucce per arma corta da 50 a 400. Qualche altro intervento guardava anche alla tipologia delle armi lunghe da caccia proponendo che un’esenzione da denuncia per 300 cartucce per fucili “fucili ad anima rigata nonché 1500 cartucce per fucili ad anima liscia”; altri interventi indicavano un aumento a 1000 delle 300 cartucce per fucili ad anima rigata e l’esenzione dalla denuncia delle 1500 cartucce a pallini per fucile da caccia estesa anche ai fucili “da tiro a piattello” (precisazione, quest’ultima, quanto mai superflua essendo i fucili con cui vengono esercitate le due attività ad anima liscia ed utilizzandosi in entrambe cartucce a pallini). Vi è poi che tutta la discussione mutava direzione incentrandosi sulle munizioni per i fucili da caccia, circostanza spiegabile probabilmente con l’intervento del relatore, più sopra riportato, che opponeva erroneamente alla trattazione dell’esenzione da denuncia riguardante le cartucce per pistola un’inesistente disciplina in tal senso recata dal T.U.L.P.S.. Erronea indicazione non rilevata da nessuno dei componenti la Commissione che, in ipotesi contraria, avrebbe consentito di vedere la luce anche all’esenzione numerica da denuncia delle cartucce per arma corta. Fatto si è, comunque, che la Commissione procedeva e concludeva i lavori relativi all’art. 26 nell’esclusiva e comune ottica dell’esenzione da denuncia delle cartucce a pallini per fucili da caccia in numero di 1000, dimenticando, tuttavia, come si è detto, di adattare la sua originaria struttura al nuovo contenuto. Quindi, una norma fatta per i cacciatori.
E ne costituisce una chiara testimonianza l’intervento del Sottosegretario di Stato per l’Interno presente ai lavori – riportato parzialmente più sopra parzialmente ed oggetto di critica – in cui si coglie già questo intendimento; intendimento che veniva reiterato nella restante parte nei seguenti termini: “All’inizio si era posto il limite di 300 cartucce; ora sotto la pressione di tutti i gruppi politici, credo che la soluzione migliore sia quella di elevare questo limite a 1. 000. In tal modo a me sembra che ogni cacciatore possa accontentarsi. “.
Sembra proprio, tornando alla norma, che l’espressione “armi regolarmente denunciate” (che legittima la detenzione delle cartucce a pallini senza denuncia entro il limite numerico previsto), non possa allora che essere riferita a tutti i fucili impiegabili nell’esercizio dell’attività venatoria. Del resto tale interpretazione trova una conferma di fondo in quella più rigorosa della Suprema Corte, che, richiedendo l’identità del calibro delle cartucce con quello dell’arma posseduta, non può non aver fatto implicito riferimento proprio ai fucili da caccia dal momento che sono soltanto queste armi che camerano le “cartucce a pallini”. Sono solo questi i manufatti cui in definitiva ha dedicato la propria attenzione il legislatore nel corso dei lavori preparatori e proprio in funzione dell’esercizio della correlata attività che consentono di svolgere, e sono solo questi i manufatti in grado di camerare cartucce a pallini. E l’ulteriore specificazione che porta a restringerne la tipologia ai fucili ad anima liscia è superflua in quanto solo questi tipi di armi a poterle camerare. Ma è esclusa ogni distinzione basata sul calibro dell’arma, sia perché, come si è visto, essa era lontana anni luce dalla mente di coloro che concepivano la norma, sia perché questa, nel suo testo definitivo, non vi fa alcun riferimento. Ne consegue, pertanto, che le mille cartucce a pallini possono essere detenute senza la denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. da parte di chi detiene armi lunghe da caccia ad anima liscia a prescindere dal loro calibro e, quindi, dalla diversità del calibro delle prime rispetto a quello delle seconde (e con riserva di illustrare che tale interpretazione va estesa alle munizioni a palla camerabili nei fucili con canna ad anima liscia – situazione di cui beneficia l’odierno imputato - ed ai fucili con canna ad anima rigata camerati per le munizioni a palla).
La posizione esegetica sin qui delineata, a parte l’indubbia obiettiva aderenza alla sostanziale volontà legislativa, impedisce che possano essere investite da successiva illiceità situazioni del tipo di quelle portate ad esempio, che hanno avuto un’origine lecita e tale si è mantenuta fino alla cessione dell’arma, evitabili invece, a tenore dell’orientamento giurisprudenziale che pretende l’identità dei calibri, soltanto con apposita denuncia delle munizioni rimaste “orfane” e con l’assillo di ricordarsi di provvedervi ogni qualvolta si proceda alla sostituzione dell’arma con altra di calibro diverso (evenienza ricorrente tra i cacciatori). Peraltro tutto ciò che costituisce per la categoria un modo di rendere gravoso l’esercizio dell’omologa attività trova una ferma disapprovazione proprio nella giurisprudenza della Suprema Corte che, con riguardo alla norma in questione esaminata in altro contesto (inammissibilità di una questione di costituzionalità riguardante il trattamento differenziato per le munizioni da caccia e per quelle delle armi non da caccia – Cass. Pen., Sez. I, 11/7/1984-26/9/1984, n. 07475, Innocenzi) ha affermato incisivamente che l’indicato esonero dalla denuncia si ispira “ ad evidenti esigenze di utilità pratica sia per il privato, che viene affrancato da un faticoso adempimento di ‘routine ’, con frequenze ossessive per i cacciatori, sia per la pubblica amministrazione, che, correlativamente, viene liberata dalle corrispondenti numerose pratiche burocratiche “.
Così ricomposto l’assetto applicativo di fondo della norma, resta da trattare la questione di ordine tecnico-terminologico che pone l’espressione “ cartucce a pallini “ adoperata nella parte finale della norma. La stessa potrebbe indurre infatti a ritenere che di esse non facciano parte le cartucce c.d. a pallettoni. Ma al di là del significato con cui essa è entrata nel linguaggio comune e, cioè, quello di indicare il loro maggiore diametro rispetto a quelli di più piccola dimensione adoperati per la caccia a selvaggina di taglia modesta, non vi è dubbio che anch’essi rientrino nella generica dizione di “pallini”, non riuscendo ipotizzabile al loro interno una precisa linea di demarcazione in ragione del loro variegato diametro. Ed in questi termini la questione è stata già da tempo affrontata, risolta e ribadita dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., Sez. I, 6/6/1983-26/10/1983, n. 08835, Gallelli; Ib. 3/12/1985-14/2/1986, n. 01465, Fazio). Linea di demarcazione mai del resto assunta in alcuna norma per attestarne la diversità di disciplina e men che mai dai redattori di quella in esame, i quali – dando anche prova di mancanza di conoscenza oltre che di adeguato tecnicismo anche di quella necessaria e prodromica alla formulazione delle norme in questa materia – avrebbero dovuto più correttamente parlare di munizioni “spezzate” in contrapposizione a quelle a palla.
Per quanto la questione non riguardi in alcun modo le mille cartucce a pallini di cui alla norma in esame, essendo le stesse, alla condizione ivi prevista, detenibili senza denuncia, per cui ogni loro variazione entro lo stesso numero non interessa nessuno, va comunque rammentato il principio che le variazioni in decremento del numero delle munizioni comuni lecitamente detenute ex art. 38 T.U.L.P.S. non vanno denunciate, né vanno denunciate quelle acquistate od ottenute per effetto di caricamento o ricaricamento manuale per ricostituire il numero massimo. L’art. 58 del Regolamento esecutivo del T.U.L.P.S., pur parlando di obbligo di denuncia di qualsiasi modificazione nella specie e nella quantità delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, va inteso, con riguardo alle munizioni ed alle materie esplodenti (ad es., per quest’ultime, le polveri da sparo), nel senso che è sufficiente che sia reso noto all’Autorità di P.S. il quantitativo massimo inizialmente denunciato, essendo la norma preordinata a rendere edotta l’Autorità di P.S. dell’identità delle persone che ne sono in possesso per esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, che non potrebbero essere lese dalla detenzione di un quantitativo inferiore dal momento che la detta Autorità ha consentito, prendendone atto, la detenzione di un quantitativo maggiore, di cui peraltro si conosce la sorte e, cioè, quella di essere consumato. Con la conseguenza che va denunciata la detenzione di tali manufatti quando viene superato l’originario quantitativo denunciato affinché l’Autorità di P.S. possa prendere cognizione della nuova situazione e valutare, ad es., se si renda necessario impartire al detentore eventuali obblighi nell’interesse della sicurezza pubblica. Ed in questi termini è il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., Sez. I, 1/12/1993- 4/2/1994, n. 1327, Marrapodi; ib. 10/4/2001-18/5/2001, n. 20234, Signorelli). Quanto sin qui rilevato non può invece riguardare le armi da sparo, trattandosi di manufatti che – a differenza delle polveri da sparo e delle munizioni che, all’interno della rispettiva ampia categoria di appartenenza sono rispettivamente distinguibili solo per la diversa qualità e per il calibro - hanno una propria precisa individualità attribuita loro dai segni di riconoscimento che devono possedere all’origine e, primo fra tutti, il numero di matricola.
Non sembra poi possibile che la liceità della detenzione di munizioni senza denuncia entro il limite fissato possa derivare anche dal fatto di avere in disponibilità un fucile da caccia ricevuto in comodato, dovendosi ritenenere che la detenzione dell’arma da caccia posseduta a tale titolo non debba formare oggetto di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. in ragione del fatto che dell’arma si dispone solo temporaneamente, elemento peraltro posto a base dell’assetto civilistico di tale figura di contratto, laddove l’art. 26 richiede rigorosamente, perché la detenzione delle munizioni senza denuncia sia legittima, che si sia in possesso di armi (da caccia, secondo l’interpretazione che si è data) regolarmente denunciate. Non si ignora l’orientamento contrario espresso al riguardo dalla giurisprudenza di legittimità (che pure ritiene il comodato di cui all’art. 22 della L. 110/75 caratterizzato dagli elementi soggettivi ed oggettivi propri della corrispondente figura civilistica – Cass. Pen., Sez. I, 5/4/1991, n. 3712) secondo cui l’art. 22 cit. “…non prevede alcuna deroga all’obbligo di denunzia della detenzione dell’arma trasferita ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., obbligo che prescinde dal titolo o dalla durata della detenzione medesima “(Cass. Pen., Sez IV, 20/1/2006, n. 7292). Ma può osservarsi in contrario che il principio enunciato, formalmente esatto, risulta paradossalmente in contrasto proprio con le finalità dell’art. 38 T.U.L.P.S. che tendono massimamente alla precisa individuazione del luogo ove l’arma è denunciata e dell’unico soggetto che ne è titolare; esso infatti non tiene conto della conseguenza, tutt’altro che irrilevante, cui darebbe luogo la sua applicazione concreta e, cioè, che la stessa arma risulterebbe denunciata contemporaneamente in due luoghi diversi e verrebbe a trovarsi nella contemporanea disponibilità di due soggetti diversi, con buona pace dei risultati di un’eventuale attività di verifica sull’esatta titolarità dell’arma, sull’esattezza del numero di armi esistenti nei luoghi di dimora di comodanti e comodatari o sull’intero territorio nazionale e, soprattutto, della fedeltà dei contenuti della banca dati del servizio elettronico di documentazione informativo interforze istituito presso la Direzione centrale di Polizia Criminale del Ministero dell’Interno. Se poi si volesse obiettare che ciò non può accadere perché l’Autorità di P.S. provvede ad eliminare la precedente titolarità dell’arma e ad annotarla sotto il nome del comodatario, allora diventa obbligatorio osservare che non vi sarebbe stata alcuna necessità di introdurre la norma sul comodato di armi perché la situazione appena prospettata è quella che si verifica in tutti i casi di ordinaria cessione di armi e, quindi, anche di quelle che non possono formare oggetto di comodato, indicate nel 1° comma dell’art. 22 cit.. Nello specifico, peraltro, non sarebbe dato di cogliere alcuna differenza tra un comodato avente ad oggetto armi da caccia e sportive ed un cessione ordinaria avente ad oggetto la medesima tipologia di armi (che, è bene rammentare, prima di essere sportive e da caccia, sono comuni).
Ed invece, stante l’attuale operatività dell’art. 22 cit., l’unica ragione che spiega il diverso trattamento riservato alle armi da caccia e sportive è proprio il fatto che la loro temporanea cessione a tale titolo non comporta l’obbligo per il comodatario di denunciarne il possesso ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., sussistente invece per le cessioni ordinarie cui consegue una nuova titolarità dell’arma in capo al cessionario: sono queste situazioni che disciplina l’art. 38 del T.U.L.P.S. e non quelle eccezionali come l’ipotesi della temporanea cessione in comodato; ciò che spiega la ragione per la quale il legislatore ha ritenuto superfluo in tale ipotesi l’espressa previsione di una deroga all’obbligo di denuncia.
Che poi l’Autorità di P.S. debba essere messa al corrente dell’avvenuta cessione a titolo di comodato e della cessazione di tale situazione sia da parte del comodante che da parte del comodatario sembra cosa del tutto ovvia: ma per soddisfare tale esigenza è sufficiente una semplice comunicazione scritta che lascia integra la persistenza della titolarità dell’arma in capo a chi l’ha denunciata.
È ovvio, poi, che la questione riguardante l’impossibilità per il comodatario di detenere munizioni ai sensi dell’art. 26 della L. 110/75 fa capo all’ipotesi che questi non detenga armi da caccia; in presenza di una situazione contraria la detta questione non avrebbe ragione di essere posta.
Un’altro problema posto dall’art. 26 L. 110/57 – che interessa ancora l’operativita dell’art. 38 T.U.L.P.S. – concerne la denuncia delle munizioni nell’ipotesi di superamento del limite che ne è esentato. È incerto, cioè, se debba formare oggetto della denuncia tutto il complesso delle munizioni possedute o soltanto di quelle in eccedenza. La lettera della legge sembra far propendere per la prima soluzione, esordendo la norma con l’obbligo generale di denuncia per tutte le munizioni che si possiedono e ponendo l’esenzione come eccezione a tale principio; peraltro le finalità cui è preordinato l’art. 38 T.U.L.P.S. ed il suo stesso dato letterale (“…in qualsiasi quantità…”) confortano tale scelta: va tenuto presente che, mutando l’eccezionale regime giuridico che giustifica l’esenzione e riprendendo vigore quello ordinario, l’Autorità di P.S. deve essere informata dell’intero numero di munizioni possedute e non solo dell’eccedenza che, a questo punto, non rappresenterebbe la situazione reale per come invece richiesto dalla norma del T. U.. Sotto un profilo pratico la questione non sembra possedere importanza: dal momento che in ogni caso dovrebbe essere denunciata l’eccedenza, non occorrono sforzi sovrumani per scrivere in denuncia la possidenza dell’intero quantitativo. Del tutto ovvio che l’esenzione viene meno sia che l’eccedenza riguardi cartucce a munizione spezzata sia che riguardi munizioni a palla.
Come già indicato, l’art. 97 del Reg. cit. fa obbligo di munirsi di licenza prefettizia allorché la condotta di detenzione in deposito - da tale norma disciplinata – riguarda un numero superiore di 1500 cartucce per fucile da caccia ed un numero superiore di 200 cartucce per arma corta.
Del tutto diversa la situazione disciplinata dall’art. 38 del T.U.L.P.S. (esenzioni qualitativo-personali a parte, essendo state già esaminate), che prospetta una situazione che nulla a che vedere con quella prima indicata, richiedendo obbligatoriamente di denunciare il possesso delle munizioni detenute in qualunque numero, ed oltre quello, quindi, che, a sua volta, obbliga distintamente a munirsi pure di licenza prefettizia, situazione in cui, tuttavia, le due norme si trovano ad interagire tra loro.
Bisogna anzitutto chiarire che del tutto apparente si rivela la differenza che sembrerebbe porre l’analisi comparata delle due norme in punto di individuazione tipologica delle munizioni per arma lunga, stante che, mentre nell’art. 38 T.U.L.P.S. esse risultano comprese, unitamente a quelle per arma corta, nell’ampia generica espressione di “ munizioni “, l’art. 97 Reg. cit. parrebbe indicare solo una tipologia delle munizioni per arma lunga e, cioè, le cartucce per fucile da caccia, insinuando l’esistenza di cartucce per armi lunghe destinate ad altra finalità e, restringendo, in conseguenza, la possibilità di detenere in deposito senza licenza solo alla prime. In altri termini, occorre stabilire se il legislatore del ’40, riferendosi, con riguardo alle armi lunghe, soltanto alle cartucce a corredo dei fucili da caccia, abbia voluto dire qualcosa in meno rispetto alle cartucce per armi lunghe indicate, unitamente alle cartucce per arma corta, seno all’art. 38 del T.U.L.P.S.. Va rilevato al riguardo che la valenza significativa dell’espressione adoperata nell’art. 97 Reg. cit. deve essere correlata all’epoca in cui la norma veniva emanata, dal momento che era piuttosto lontana dagli occhi del legislatore del ’40 la situazione che concerne l’assetto attuale delle armi da caccia. E tenuto conto del fatto che tutti i fucili, senza alcuna distinzione, erano adoperabili per l’attività venatoria, essi erano stati indicati nella norma come fucili da caccia correlandovi le relative cartucce. Quindi il legislatore del ’40 con tale espressione aveva inteso in concreto fare riferimento a tutte le armi lunghe ed a tutte le loro cartucce; situazione che, unitamente a quella relativa alle cartucce per pistola o rivoltella, riflette la forma generica con cui esse vengono indicate in seno all’art. 38 del T.U.L.P.S., emergendo, in tal modo, un’assoluta identità tra le munizioni menzionate nell’art. 97 Reg. cit. e quelle genericamente menzionate nell’art. 38 del T.U.L.P.S..
Quindi, tornando al contenuto dell’art. 38 T.U.L.P.S., le munizioni, in qualunque numero, devono formare oggetto di obbligatoria denuncia. La norma non pone tra esse alcuna distinzione: quindi devono essere denunciate le munizioni per arma lunga e per arma corta; quelle a palla e quelle spezzate. L’esigenza che trae origine da tale situazione è tuttavia quella di individuare qual’è il criterio per stabilire se una cartuccia va qualificata per arma corta o per arma lunga refluendo tale distinzione sulla costituzione del numero oltre il quale le munizioni – pur seguitando a dover formare oggetto di obbligatoria denuncia - diventano pure oggetto di rilascio di licenza prefettizia di deposito di cui occorre munirsi obbligatoriamente. È escluso che tale distinzione possa essere operata guardando al tipo di proiettile assemblato alla cartuccia: questo criterio potrebbe essere valido solo per le munizioni spezzate e non in via esclusiva, posto che cartucce di tale tipo vengono impiegate - in alcuni casi raramente (ad es., quelle a pallini in cal. .38 special) ed in altri normalmente (ad es. quelle a pallini in cal. 9 Flobert) – anche in armi corte; laddove la palla unica viene assemblata in cartucce per armi corte e per armi lunghe. Il criterio distintivo è invece costituito in via generale ed astratta dall’individuazione dell’arma per la quale le munizioni sono state concepite, se, cioè, queste siano state concepite per arma corta o per arma lunga ed adoperate in prosieguo esclusivamente o prevalentemente nell’una o nell’altra. E da tale principio distintivo discende il corollario che è del tutto ininfluente sulla qualifica delle munizioni così delineata una loro destinazione particolare. È così che si risolve la particolare situazione che viene a verificarsi allorché – come spesso accade da qualche tempo – munizioni concepite per armi corte ed in prosieguo prevalentemente adoperate in esse, vengono camerate in armi lunghe allestite per particolari ragioni nello stesso calibro, come, ad es., le carabine camerate in cal. 9x21, in cal. .357 Mg., in cal. .44 Mg. e via discorrendo, o (ma è molto più raro – ad es. il cal. .22 Hornet) viceversa. Per tornare all’esempio delle munizioni appena indicate, esse sono state in origine ed in seguito allestite per essere impiegate in arma corta e devono pertanto essere considerate cartucce per tali armi, a prescindere dalla loro successiva adozione in armi lunghe. Allo stesso modo deve essere risolta l’individuazione riguardante le cartucce nei calibri . 22 L. R., . 22 short (quest’ultimo è una derivazione del precedente, per così dire, in formato ridotto) e le cartucce Flobert nei calibri 6 mm. e 9 mm., sia a palla che spezzate, che sono tutte cartucce a percussione anulare (rimfire) distinte, sotto tale aspetto, dalla maggioranza delle munizioni che sono a percussione centrale (center fire); tale tipologia di munizioni, che, in proposito, è stata talvolta, ma senza valida ragione, oggetto di qualche incertezza, è senza dubbio qualificabile come per arma lunga. È certo, infatti, che il cal. .22 è nato nel 1887 per essere camerato in carabine (e lo dice, del resto, la seconda delle due parole abbreviate dalla sigla che lo qualifica, che sta per “ rifle “, e, cioè, fucile – l’altra sigla abbrevia la parola “ long “ ed assieme risultano estrapolate dalla dicitura “ special . 22 long cartridge for rifle use “ -) e, solo successivamente veniva impiegato in armi corte costruite in prevalenza per uso sportivo. Lo stesso è a dirsi per ciò che concerne le cartucce Flobert, munizioni a limitata capacità lesiva, che vedevano la luce nel 1849 e che venivano perfezionate e migliorate tra il 1850 ed il 1860, da sempre adoperate in armi lunghe e raramente in armi corte costruite in entrambi i calibri.
Deve poi aggiungersi come criterio suppletivo a quello appena indicato che, allorquando risulta impossibile od incerto stabilire l’origine d’impiego della cartuccia, la stessa deve necessariamente ritenersi di uso promiscuo. Non risulta, con riguardo alle munizioni di uso corrente, che ve ne sia qualcuna che versi in tale situazione: ma se proprio si volesse continuare a fare questione in tal senso in relazione alle cartucce in cal. .22 L. R. e short, a queste non potrebbe che essere assegnata tale natura. Ma, come si diceva, tale incertezza sarebbe ascrivibile solo a ragioni velleitarie, dal momento che è indubbia la loro origine di munizioni per arma lunga.
Va precisato inoltre che l’individuazione delle cartucce impiegabili nei fucili con cui è consentito l’esercizio dell’attività venatoria, è legislativamente predeterminata attraverso l’indicazione dei loro calibri per i fucili con canna ad anima liscia, e dei loro calibri e dell’altezza del loro bossolo per i fucili con canna ad anima rigata. Dipendendo esclusivamente da tali dati l’individuazione delle cartucce da impiegare nei fucili con cui può essere svolta l’attività venatoria, si può verificare (ed effettivamente si verifica con riguardo ai fucili con canna ad anima rigata) che tali dati coincidano con quelli di calibri di cartucce originariariamente e prevalentemente adoperate in arma corta. Quanto dire cioè che l’attività venatoria può essere svolta con fucili che camerano cartucce per armi corte. Ma tale situazione non determina la trasformazione di tali munizioni in cartucce per armi lunghe, per cui, in conseguenza dei criteri distintivi più sopra delineati, la loro detenzione numerica, in assenza di licenza di deposito, non potrà superare le duecento unità.
Passando ora a qualche esempio riferito ai calibri più ricorrenti che riflette concretamente i criteri di individuazione sopra enunciati, le cartucce nei calibri 6,35 mm., 7,65 mm., 9x19 mm., 10 mm. Auto, .38 Special, .357 Mg, .40 S&W, .44 Mg, .455 W., .45 HP, .45 ACP, sono cartucce da sempre allestite per arma corta ed in tale qualità esse vanno denunciate; e ne consegue che, denuncia a parte ex art. 38 T.U.L.P.S. in qualunque numero, l’obbligo di munirsi di licenza prefettizia di deposito sorgerà al superamento del numero delle 200 unità, considerate in un solo calibro o comunque numericamente e variamente combinate in calibri diversi. A tal fine l’art. 97 Reg. cit., indicando soltanto il numero complessivo delle cartucce e non anche il riferimento di tale quantità ad ogni calibro delle armi corte, non lascia spazio ad interpretazioni diverse od alternative. E lo stesso discorso vale per le cartucce per armi lunghe delle quali si indicano i calibri più ricorrenti: 12, 16, 20, 24, 28, .30.30 W, .30.06, .308 W, 7,62x39, .222 R, .223 R, 6 PPC, etc. D’altro canto, che le rispettive quantità indicate nell’art. 97 Reg. cit. facciano riferimento ad un numero da considerare come rispettivamente complessivo, è in perfetta armonia con le esigenze di tutela cui è preordinata tale norma, che sarebbero compromesse dalla possibilità di detenere senza licenza un numero massimo di munizioni elevatissimo e pari comunque a tutti i calibri esistenti.
Versandosi in argomento non è superfluo rammentare, sia pure sotto un profilo che raramente rispecchia la realtà, che le condotte di detenzione di armi e munizioni ex art. 38 T.U.L.P.S. si muovono su un piano di perfetta autonomia, per cui è possibile detenere lecitamente munizioni senza detenere armi e viceversa.
Riprendendo la via degli esempi, le munizioni nei calibri testé indicati sono cartucce per armi lunghe perché concepite sin dall’origine per tali armi ed in prosieguo sempre adoperate per esse; in tale qualità pertanto (ed in qualunque numero) esse vanno denunciate, rammentandosi che l’obbligo di munirsi di licenza sorge al superamento delle 1500 unità considerate in un solo calibro o comunque numericamente e variamente combinate tra loro nei vari calibri in tale quantità.
D’altro canto, come si è già detto, la detenzione congiunta ex art. 38 T.U.L.P.S. di munizioni per arma lunga e per arma corta è consentita dal fatto che (è questo uno dei modi di interagire della norma appena indicata e dell’art. 97 Reg. cit.) l’obbligo di munirsi di licenza di deposito per ciascuno di tali manufatti è disciplinato distintamente e deve, pertanto, essere soddisfatto solo al superamento di ciascun limite quantitativo previsto per le due diverse tipologie di munizioni. Al contrario, si è visto come la detenzione anche di una sola tipologia di munizioni ex art. 38 T.U.L.P.S., anche in quantità inferiore a quella per cui sorge l’obbligo di munirsi della licenza di deposito, impedisce la contestuale detenzione di polvere da sparo nella stessa misura, in quanto l’art. 97 Reg. cit. rende in forma alternativa la possibilità di detenere in deposito quantitativi di munizioni pari od inferiori a quelli per cui occorre munirsi di licenza e la possibilità di detenere in deposito polvere da sparo in quantitativi pari od inferiori a quelli per cui occorre obbligatoriamente la licenza. Del tutto evidente come la norma regolamentare, in esecuzione dell’art. 50 del Testo Unico, realizzi, in questo contesto, una fortissima compressione dell’operatività dell’art. 38 T.U.L.P.S., in relazione alle munizioni, e degli artt. 38 T.U.L.P.S. e 679 C.P., in relazione alla polvere da sparo quale materia esplodente, visto che, in concreto, è preclusa ogni possibilità di detenere legittimamente in contemporanea munizioni e polvere da sparo senza licenza di deposito anche in quantitativi inferiori o pari a quelli per i quali essa non occorre allorché la detenzione riguarda solo uno di tali manufatti. Quanto alle ipotesi concrete concernenti le munizioni in cal. .22 L. R. ed in cal. .22 short e le munizioni Flobert nei calibri 6 mm. e 9 mm., sia a palla che spezzate, che fin dall’origine ed in prosieguo sono state e vengono impiegate in armi lunghe e, solo per ragioni del tutto particolari (ad. es. di tipo sportivo), hanno trovato successivo impiego in armi corte, esse vanno denunciate ex art. 38 T.U.L.P.S. in tale originaria qualità (ed in qualunque numero), rammentandosi che l’obbligo di munirsi di licenza sorge al superamento delle 1500 unità o detenute in tale complessiva quantità alternativamente in ciascuno dei quattro calibri indicati o comunque numericamente e variamente combinate in tale complessiva quantità tra loro ed eventualmente con le cartucce per armi lunghe di altro calibro . Ne deriva, a maggiore chiarimento, che possono detenersi, limitandosi a denunciarne il possesso ex art. 38 T.U.L.P.S. :
o fino a 1500 cartucce in cal. .22 L. R. (diversa questione, che verrà esaminata in prosieguo, è se esse possono essere adoperate per fini venatori);
o fino a 1500 cartucce in cal. 22 short;
o fino a 1500 cartucce in cal. 9 mm Flobert spezzate;
o fino a 1500 cartucce in cal. 9 mm. Flobert a palla;
o fino a 1500 cartucce in cal. 6 mm. Flobert spezzate;
o fino a 1500 cartucce in cal. 6 mm. Flobert a palla;
o fino a 1500 cartucce tra quelle che precedono, comunque tra loro combinate, ed eventualmente con cartucce di altri calibri per armi lunghe.
Alcune applicazioni pratiche della situazione testé illustrata attengono alla contestuale detenzione di due armi, una lunga ed una corta, dello stesso calibro tra quelli testè indicati o in calibri diversi tra questi, o alla detenzione di un’arma corta in uno di tali calibri. Applicando il principio più sopra enunciato, e cioè che si versa in tema di munizioni per armi lunghe perché concepite in linea principale per queste ed in queste adoperate in prosieguo, e tenuto sempre nel debito conto che per le munizioni per armi lunghe l’obbligo di licenza di deposito sorge al superamento delle 1500 unità, si potranno detenere complessivamente in entrambi i casi non oltre 1500 cartucce o in uno dei predetti calibri o in calibri diversi tra questi, eventualmente combinate con cartucce di altri calibri, sia a palla che spezzate, per armi lunghe, ma sempre entro tale quantità.
Può farsi un esempio con riguardo alla detenzione di una carabina in cal. .22 l.r. e di una pistola in cal. .22 l.r.: n. 1500 cartucce complessivamente in tale calibro per entrambe le armi;
o con riguardo alla detenzione di una carabina in cal. .22 e di una pistola in cal. 9 mm. Flobert: n. 1500 cartucce complessivamente in tali calibri per entrambe le armi, variamente combinate;
o con riguardo alla detenzione di una carabina in cal. .22 short, di una pistola in cal. 9 Flobert e di un fucile cal. 12: n. 1500 cartucce complessivamente in tali calibri per tutte e tre le armi, variamente combinate;
o con riguardo alla detenzione di un revolver in cal. .22: n. 1500 cartucce in tale calibro per la detta arma.
Alcune applicazioni pratiche che invece riguardano le munizioni sin dall’origine concepite per armi corte ed in queste adoperate prevalentemente, ma impiegate in prosieguo anche in armi lunghe costruite negli stessi calibri, attengono al numero di cartucce detenibili per una o più di quest’ultime armi. Anche qui, applicando il principio già esplicitato, non vi è dubbio che si versi in tema di munizioni per arma corta che vanno sempre denunciate ex art. 38 T.U.L.P.S. in qualunque quantità ed il cui quantitativo esonerato da licenza prefettizia è complessivamente di non oltre 200 unità.
Può farsi un esempio con riguardo ad una carabina in cal. .44 Mg.: n. 200 cartucce complessivamente in tale calibro;
o con riguardo alla detenzione di una carabina in cal. .44 Mg. e di una in cal. 9x21: n. 200 cartucce complessivamente nei diversi calibri per entrambe le armi comunque variamente combinate;
o con riguardo alla detenzione di una carabina in cal. .44 Mg., di una carabina in cal. 9x21 e di una pistola in cal. 7, 65 mm.: n. 200 cartucce complessivamente nei diversi calibri per tutte e tre le armi, comunque variamente combinate.
Concludendo l’argomento, l’assetto quantitativo giuridico vigente in materia di detenzione di munizioni per armi da fuoco risulta così composto:
Deve ora esaminarsi se l’esenzione dall’obbligo di denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. previsto per le munizioni dall’art. 26 della L. 110/75 abbia una qualche influenza sull’assetto delle quantità detenibili come sin qui delineato. Anzitutto va precisato che l’area di interesse coinvolta è esclusivamente quella delle munizioni per arma lunga: l’art. 26 cit. indica infatti quale oggetto dell’esenzione soltanto le munizioni a pallini per fucili da caccia. Riservando al prosieguo di esaminare se l’esenzione risulti estensibile anche alle munizioni a palla (tale questione, comunque risolta, non ha alcuna incidenza su quella in atto), può sin d’ora confermarsi che essa lascia del tutto immutato l’assetto numerico come sopra indicato in tema di munizioni per arma lunga. L’esenzione stabilita nell’art. 26 è infatti inquadrata nell’ambito di operatività dell’art. 38 T.U.L.P.S. e non in quello disciplinato dall’art. 97 Reg. cit.. Essa riguarda l’esenzione dall’obbligo di denunciare un certo numero di munizioni e non anche l’esenzione dall’obbligo di munirsi per esse di licenza di deposito. È del tutto escluso, in conseguenza, che le mille munizioni esentate da denuncia possano assommarsi al numero esentato dall’obbligo di munirsi di licenza di deposito. Le mille cartucce esentate da denuncia devono essere infatti sempre correlate al regime numerico disciplinato dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., e non possono essere considerate come un’entità diversa rispetto al numero esentato dalla licenza di deposito. In altri termini, al di là del fatto che le munizioni siano denunciate ex art. 38 T.U.L.P.S. o che per esse esista al riguardo una qualche eccezione legislativa, il numero di 1500 cartucce, oltre il quale vi è obbligo di munirsi di licenza di deposito, è costituito da ogni munizione comunque detenuta. Peraltro, se le mille cartucce esentate da denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. dovessero considerarsi fuori dal numero per cui è obbligatorio munirsi di licenza di deposito, la soglia per questa fissata lieviterebbe a 2500, smentendo la norma nel punto in cui stabilisce implicitamente che le esigenze da essa tutelate sono garantite, in punto di detenzione di munizioni senza licenza di deposito, fino alla detenzione di un numero di 1500 cartucce. Incidentalmente, deve pure osservarsi, sotto un profilo pratico, che l’obbligo di munirsi di licenza di deposito al superamento dell’entità numerica fissata, è di ostacolo, se non assolto, alla possibilità di denunciare ex art. 38 T.U.L.P.S. la detenzione di altre munizioni. Una comunicazione in tal senso all’Autorità di P.S. – pur ipotizzabile – non potrebbe avere alcun esito in relazione alla conseguente annotazione, datosi che il prenderne atto a questo fine equivarrebbe a consentire di violare apertamente l’obbligatoria prescrizione contenuta nell’art. 97/3° c. Reg. cit.. La condotta di detenzione sotto il profilo fattuale (della diretta ed immediata relazione, cioè, tra un determinato oggetto ed il luogo di detenzione di cui si dispone) è identica sia nel contesto dell’art. 38 T.U.L.P.S. sia in quello delineato dall’art. 97 Reg. cit.; ognuna delle due norme la prende tuttavia in considerazione sotto due profili giuridici diversi: la prima consentendo la detenzione delle munizioni ma esigendone la denuncia in qualunque numero, la seconda consentendo la detenzione delle stesse munizioni ma fino alle 1500 unità, oltre il quale la possibilità di continuare a detenerne nelle diverse prospettive tutelate dalle due norme è rigorosamente condizionata al rilascio di licenza di deposito (non a caso si parlava più sopra di compressione dell’operatività dell’art. 38 T.U.L.P.S. ad opera dell’art. 97 Reg. cit. – ed identica situazione vale per la – sola - detenzione della polvere da sparo, con la differenza che, per le ragioni che sono state illustrate e nel solco del fondamentale e rassicurante orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, l’obbligo di denuncia di tale materia esplodente sorge con il superamento del quantitativo di cinque Kg.).
Quindi, per tornare allo schema esemplificativo finale già tracciato dell’assetto numerico delle munizioni detenibili con riguardo alle armi lunghe, non vi è dubbio che esso rimane immutato. La questione che 1000 di tali cartucce possono essere esentate da denuncia a determinate condizioni è un’altra cosa ed attiene alla sfera applicativa dell’art. 38 T.U.L.P.S. e vuol dire che fino a tale numero si potrà fare a meno di darne contezza all’Autorità di P.S.. E non è poco perché, anche se il legislatore si è voluto “garantire” legittimamente richiedendo “in cambio” di tale provvidenza che il detentore delle cartucce esentate fosse in possesso almeno di un fucile da caccia (rectius: di un fucile per esercitarla), ipotizzando astrattamente, che chi si trova in tale condizione è in condizione di potervisi dedicare (ed offre comunque, deve aggiungersi, attraverso il legittimo possesso dell’arma, una concreta affidabilità sotto il profilo della Polizia di Sicurezza), tutto ciò, si diceva, non è poco perché con la norma in questione si è, per un verso, attenuata la rigidità dell’art. 38 T.U.L.P.S., e per l’altro confermato che le ragioni ispiratrici della L. 110/75 non riguardavano di certo la categoria dei cacciatori. Ed effettivamente la norma – a parte le opacità con cui è stata resa - ha introdotto per tale categoria un evidente trattamento di favore, affrancandola, per evidenti esigenze di utilità pratica, da faticosi adempimenti di routine con frequenze ossessive. E proprio in questi termini si è espressa la Suprema Corte (v. la massima più sopra riportata) confermando la ragione di posizione di tale norma.
Ed anche allorché in prosieguo il legislatore, probabilmente sotto l’onda mediatico-emozionale di qualche drammatico episodio che ha interessato l’uso delle armi (e delle munizioni), ha voluto adottare frettolosi provvedimenti di contrasto che avrebbero avuto come inevitabile conseguenza quella di coinvolgere nel loro raggio d’azione le attività venatorio-sportive (che vengono, per l’appunto svolte con l’uso di tali manufatti), prendendo consapevolezza di ciò, dapprima ha cercato di porvi rimedio con altro provvedimento provvisorio, ed in prosieguo ha lasciato sostanzialmente cadere l’originaria posizione non curandone la concreta attuazione delegata ad altri provvedimenti. E ciò che è accaduto nel 1992 (ma se ne parla per evidenziare l’illegittimità di taluni provvedimenti amministrativi di polizia che riflettono ancora oggi i contenuti di una norma che non è entrata mai in vigore) allorquando, nel contesto del D. L. 8/6/1992, n. 306, convertito con modificazioni nella L. 7/8/1992, n. 356, veniva stabilito, all’art. 12/1° e 2° c., che “nel permesso di porto d’armi e nel nulla osta all’acquisto di cui all’art. 55, terzo comma, del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza approvato con regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, è indicato il numero massimo di munizioni di cui è consentito l’acquisto nel periodo di validità del titolo. Non sono computate le munizioni acquistate presso i poligoni delle sezioni della Unione italiana tiro a segno, immediatamente utilizzate negli stessi poligoni.
Con decreto del Ministro dell’interno, sono determinate le modalità per l’attuazione della disposizione del comma 1° “.
Tale disposizione veniva accompagnata, qualche giorno dopo la pubblicazione del D. L., da una Circolare telegrafica del Ministero dell’Interno emanata il 17/6/1992 in cui, quasi a volerne anticipare l’efficacia definitiva riservata alla legge di conversione, si invitavano perentoriamente Prefetture e Questure ad apporre sulle licenze di porto d’armi “.. . annotazione relativa al numero massimo di munizioni acquistabili, adeguato alla situazione ordine e sicurezza pubblica rispettive province “. Ora, è di tutta evidenza il fatto che non sarebbe stato possibile in alcun modo determinare a priori la quantità di munizioni utilizzabili in un anno (periodo di durata della licenza del porto di pistola) o in sei anni (periodo di durata della licenza del porto di fucile per uso di caccia), dipendendo ciò da una serie di fattori non preventivabili in anticipo (tipo di attività venatoria cui si sceglie di dedicarsi ed intensità di partecipazione alla stessa, esercitazioni correlate al tipo di attività agonistica cui si sceglie di partecipare); di talché il Ministero dell’Interno, cercando in qualche modo di rimediare alle difficoltà operative create dalla disposizione e, soprattutto, dal telex diramato qualche mese prima, con Circolare del successivo Settembre 1992 n. 550/C. 117464. 10171(1) chiariva che le munizioni cui si faceva riferimento nella norma erano da identificarsi con quelle a palla e che nel numero delle cartucce a pallini non dovevano essere computate quelle acquistate sui campi di tiro a volo, dal momento che per quelle adoperabili per l’attività venatoria esisteva, sussistendo la condizione soggettiva di cui all’art. 26 L. 110/75 cit., l’esenzione da denuncia fino al numero di mille. Nonostante l’apprezzabile intento dei suoi redattori, il contenuto di tale circolare si discostava tuttavia appena impercettibilmente dal contenuto della norma. Pur volendo identificare le munizioni a palla con quelle che vengono adoperate nelle armi corte per difesa personale (probabilmente era questo l’intendimento del Ministero), non si teneva infatti conto della circostanza che l’arma oggetto dell’omologa licenza di porto viene utilizzata anche per le esercitazioni di tiro nei luoghi che lo consentono e per la partecipazione all’attività agonistica.
Un fatto certo è che, comunque, il Decreto Ministeriale attuativo della dispozione in questione non è mai stato emanato per cui la stessa è tamquam non esset. Peraltro deve anche considerarsi che dalla sua eventuale operatività sarebbero rimaste escluse, in quanto non contemplate, tutte le cartucce oggetto di ricarica manuale, situazione comunque del tutto incontrollabile nella prospettiva presa in considerazione dalla norma. Per non dire, in tale direzione, che la minuta vendita ai privati delle munizioni spezzate non va annotata nel registro di cui all’art. 55 del T.U.L.P.S. pur dopo la sua modifica ad opera dell’art. 12 in questione (comma 6°), essendo rimasta in vita per tale tipologia di munizioni l’esenzione prevista dall’art. 5/1° c. L. 110/75(va annotata invece la vendita al minuto di quelle a palla), emanato per snellire il flusso degli acquisti che precedono l’apertura della stagione venatoria e le esercitazioni precedenti l’effettuazione di gare di tiro a volo, ed in un quadro normativo, quindi, che, in definitiva, conferma il trattamento di favore stabilito per le munizioni spezzate per le ragioni di praticità già esplicitate, condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità; ragioni del resto tenute presenti dal contenuto della circolare ministeriale appena richiamata che, chiarendo come il contenuto del 1° comma della norma poi inattuata dovesse intendersi riferito esclusivamente alle cartucce a palla e non a quelle “a pallini”, confermava sostanzialmente che la modifica dell’art. 55 T.U.L.P.S. ad opera del successivo 6° comma dell’art. 12 cit. riguardava le prime e non le seconde, ed indirettamente l’attuale vigenza dell’art. 5 della L. 110/75. Deve infine aggiungersi che la disposizione in questione era pure priva di sanzione e tale sarebbe rimasta pur se fosse entrata in vigore, non essendo applicabile, per colmare tale lacuna, la sanzione residuale prevista dall’art. 17 del T.U.L.P.S., in quanto la situazione disciplinata dall’inattuato 1° comma dell’art. 12 cit. non veniva espressamente inquadrata nella norma (né nel titolo del D. L) come modifica o integrazione di una delle disposizioni del T.U.L.P.S..
Nonostante la situazione sin qui evidenziata impedisse pertanto una qualunque concreta applicazione della norma in questione e men che mai, in conseguenza, della disposizione contenuta del telex ministeriale che invitava perentoriamente gli Uffici periferici ad annotare sulle licenze di porto d’armi il numero massimo di munizioni acquistabili, “adeguato alla situazione richiesta dall’ordine e della sicurezza pubblica delle rispettive province”, ciononostante, ancora oggi si insiste da parte di un buon numero di Uffici periferici del Ministero dell’Interno nell’apporre con un timbro su tali documenti un limite all’acquisto delle munizioni. Questo il tenore di qualcuno di tali provvedimenti anche di epoca recente “Ai sensi dell’art. 9 del T.U.L.P.S., ed in attesa dell’emanazione del decreto ministeriale previsto dall’art. 12 comma 2° decreto legge n. 306 dell’8/6/1992 n. 356, coordinato con la legge di conversione 7. 8. 1992 n. 356, possono essere acquistate, con licenza di porto d’armi e nulla osta all’acquisto di cui all’art. 55, 3° comma del T. U. L. P:S., massimo 200 cartucce per pistola o rivoltella e n. 1500 munizioni spezzate a palla, nel periodo di validità del titolo. Sono escluse dalla predetta limitazione le cartucce uso caccia e tiro a pallini, nonché le munizioni acquistate presso i poligoni delle sezioni dell’Unione Italiana Tiro a Segno, immediatamente utilizzate negli stessi poligoni “. (tra le parole “ spezzate a palla “ è stata omessa per errore la disgiuntiva “ o “ perché le munizioni o sono spezzate o sono a palla “). Tale situazione riproduce quella ordinariamente prevista per l’assetto numerico delle munizioni detenibili ex art. 38 T.U.L.P.S. senza obbligo di munirsi di licenza di deposito ex art. 97/1° c., Reg. cit., ma non tiene conto, essendo le munizioni finalizzate al consumo, di una loro possibile legittima compensazione entro tale numero attraverso l’acquisto nel tempo di altri quantitativi di munizioni, che, invece, con questo tipo di provvedimenti viene arbitrariamente esclusa. Ancora più illegittimi quelli che riducono l’acquisto a 500 munizioni a palla, e, quindi sotto il limite legislativamente determinato (l’art. 97 cit. parla genericamente di 1500 cartucce per arma lunga senza specificare se le stesse devono essere a palla o spezzate, ragion per cui tale quantitativo potrebbe essere legittimamente costituito solo da munizioni del primo tipo). Trattasi, quindi, di provvedimenti amministrativi di polizia del tutto illegittimi perché basati, come si è detto, su una disposizione sostanzialmente inefficace, destinati ad essere travolti se sottoposti all’esame del Giudice amministrativo e senz’altro oggetto di incidentale disapplicazione nel corso di eventuali giudizi incoati avanti l’Autorità Giudiziaria ordinaria nel corso di procedimenti penali concernenti una loro (pretesa e presunta) violazione. Per di più, la consapevolezza che tali provvedimenti, se azionati giudiziariamente, non avrebbero potuto avere altra sorte è stata certamente avvertita dalle Autorità emananti, ma, tuttavia, con un opposti risultati: alcune hanno infatti saggiamente omesso l’annotazione limitativa, mentre altre, ritenendo di poter aggirare l’ostacolo, hanno ritenuto di poterli adottare ugualmente indicando surrettiziamente come loro fonte di legittimazione autonoma l’art. 9 del T.U.L.P.S.. Rimedio, a sua volta, doppiamente illegittimo per le seguenti ragioni. La norma in questione recita che “…chiunque ottenga una autorizzazione di polizia deve osservare le prescrizioni che l’autorità di pubblica sicurezza ritenga di imporgli nel pubblico interesse”. Orbene, il provvedimento che viene apposto sulle licenze è privo di qualunque motivazione in quanto si limita a riportare in forma stereotipa la finalità ivi indicata (“…nel pubblico interesse”), a volte sostituita da quella ministeriale di adeguatezza del numero delle munizioni “alla situazione richiesta dall’ordine e della sicurezza pubblica delle rispettive province”, manon indica espressamente né i suoi presupposti, è cioè, da che cosa è rappresentato concretamente il pubblico interesse che si intende tutelare, o qual’è la situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica riscontrata nelle rispettive province che ne giustifica l’adozione, né, in entrambi i casi, qual’è stato il criterio adoperato per stabilire che proprio quella entità numerica si ritiene adeguata a soddisfarle. E non potrebbe farlo, perché, come si è detto, il provvedimento limitativo è apposto con identica formula stampigliata con un timbro, il cui contenuto – allorché è accompagnato dall’uso della seconda formula - evoca un’identità di situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica in tutto il territorio nazionale, finendo con lo smentire – ed anche questo costituisce un altro motivo di illegittimità – la disposizione ministeriale che, richiedendo una limitazione numerica correlata alle varie situazioni provinciali, muove dal presupposto che queste sono territorialmente diverse. Ma provvedimenti di questo contenuto sono anche illegittimi in parte qua perché si pongono in stridente contrasto con norme giuridiche e regolamentari che legittimano in argomento la titolarità di posizioni del tutto opposte che, come tali, non possono essere in alcun modo limitate dalla loro adozione, posto che un provvedimento amministrativo (per di più illegittimo sotto vari profili) non ha la forza necessaria per rendere inoperante il contenuto di una norma o del provvedimento che la rispecchia. Ed invero, disciplinando l’art. 97/3° c. Reg. cit., in esecuzione dell’art. 50 del T.U.L.P.S., il rilascio di licenza prefettizia per la detenzione di quantitativi di munizioni maggiori di quelli indicati nella parte iniziale della prima norma, ne deriva che la limitazione in oggetto non potrebbe mai essere apposta sul porto d’armi di chi è titolare di licenza prefettizia, autorizzato, ad es., a detenere in deposito 1500 cartucce a palla e 4000 munizioni spezzate che possono essere acquistate, a seconda delle esigenze (venatorie, di preparazione ad avvenimenti agonistici, etc.) in una sola volta o in più riprese.
La situazione sin qui descritta evoca altro tipo di provvedimenti emessi in materia da taluni uffici periferici del Ministero dell’Interno, ancor più illegittimi dei primi pur se dotati in prosieguo da (apparente) copertura normativa. Da qualche anno era invalsa la prassi di sdoppiare la licenza di porto di arma lunga in quella per difesa personale ed in quella per uso di caccia, in sostituzione dell’unica licenza che abilitava a portarla anche per uso di caccia; e l’uso della congiunzione anche attestava chiaramente, se pur in forma implicita, che il rilascio avveniva prima di tutto per motivi di difesa personale . Sdoppiamento del tutto illegittimo perché non disciplinato da alcuna disposizione di legge (tant’è che i requisiti per il rilascio della licenza erano identici nell’uno e nell’altro caso); ed altrettanto illegittima era l’imposizione di autonoma tassa di concessione governativa (di importo pari a quella della licenza di porto per uso di caccia, epurata dalle tasse riguardanti l’esercizio dell’attività venatoria). Con la conseguenza che, chi intendeva conseguirle entrambe, doveva pagare due distinti balzelli a fronte del solo prima esistente per l’unica licenza. La consapevolezza dell’illegittimità di tale operato era così presente nei suoi autori che nel 2001 gli stessi hanno pensato di correre ai ripari, ritenendo di fornire a tale situazione una parvenza di legalità. E’ accaduto infatti che in seno al D. P. R. 28/5/2001, n. 31, avente, tra l’altro, ad oggetto norme regolamentari per la semplificazione dei procedimenti amministrativi relativi ad autorizzazioni per lo svolgimento di attività disciplinate dal T.U.L.P.S., con l’art. 3, lett. b) è stato aggiunto all’art. 61 del Regolamento esecutivo un secondo comma avente questo contenuto: “Il rilascio del porto di arma lunga per difesa personale è soggetto alle condizioni richieste per il porto di altre armi per il medesimo motivo, compresa la dimostrazione dell’effettivo bisogno di portare l’arma”. L’inesistenza, al riguardo, di un potere di normazione secondaria emerge di tutta evidenza se si considera che è stata regolata una situazione non prevista dalla legge (dal T. U., cioè), posto che la dimostrazione dell’effettivo bisogno di portare l’arma è disciplinata dall’art. 42 del T.U.L.P.S. soltanto per le pistole e per l’altra desueta tipolologia di armi costituita dai bastoni animati. Peraltro, la “regolamentazione” della nuova licenza non è stata coordinata, in ragione della frettolosità con cui è stata emanata, con le altre norme che attestano espressamente o implicitamente ancora l’esistenza in vita dell’unica “licenza di porto di fucile anche per uso di caccia”. L’esempio di primo tipo è costituito dall’art. 13/6° c. della L. 157/1992 in materia venatoria; e quello di secondo tipo si rinviene proprio nell’art. 44/2° c., T.U.L.P.S., ove l’eccezione riguardante la facoltà di concedere, a determinate condizioni, al minore che abbia compiuto sedici anni, la licenza di porto di fucile per solo uso di caccia, conferma che le licenze vanno rilasciate ancora oggi “anche per uso di caccia”, ciò che presuppone che il loro rilascio avviene in via principale per difesa personale.
Non v’è dubbio, pertanto, che la situazione determinata dalla nuova norma “regolamentare”, se sollevata giudiziariamente, condurrebbe alla sua dichiarazione di illegittimità perché emanata in assenza di una fattispecie legale inesistente e per di più modificatrice di quella disciplinata. Nel frattempo, comunque, i singoli consociati continuano ad essere garantiti al riguardo da un ormai costante orientamento giurisprudenziale di legittimità il cui sacrosanto contenuto – di notevole ragionevolezza e di pregevole coerenza - relega nella più totale irrilevanza il principale effetto che taluno, sia in conseguenza della precedente prassi sia dopo l’emanazione della norma “regolamentare”, ha ritenuto di poter far discendere da tale poco ortodossa situazione, e, cioè, che la licenza per uso di caccia renderebbe illegale il porto per difesa personale e viceversa. “ L’autorizzazione al porto di fucile rilasciata per l’esercizio della caccia rende legittimo il porto di detta arma anche se l’esercizio stesso venga attuato non per l’attività venatoria ma per fini diversi, compresi quelli non leciti. Invero, le finalità per le quali il titolare di una licenza si avvalga dell’autorizzazione concessagli sono, in genere, penalmente irrilevanti, ferma restando la sanzionabilità in via amministrativa (e penale) dell’eventuale abuso accertato, che può essere colpito da provvedimenti sospensivi o ablativi dell’autorizzazione “(Cass. Pen., Sez. I, 24/4/1997-29/7/1997, n. 7563, Roich; ib. 17/5/2001-4/7/2001, n. 26985, Coriglione). Con una prima conclusione, pertanto, che l’attuale licenza di porto di fucile per uso di caccia autorizza il suo titolare, sia nel corso della stagione venatoria che dopo la sua chiusura, a portare legittimamente l’arma lunga per difesa personale; viceversa, il titolare della licenza di porto per difesa personale non potrà utilizzarla per l’esercizio della caccia: ma nell’ipotesi che ciò avvenga, risponderà delle correlate violazioni venatorie ma non certo di porto illegale dell’arma; e con una seconda, ancor più importante della prima, che una volta concessa la licenza che abilita al porto di un’arma, non vi potranno essere norme giuridiche limitative, in qualunque misura, del modo di estrinsecare tale facoltà, salvo che essa coincida con condotte autonomamente costituenti illeciti amministrativi e/o penali. E tale situazione è espressa in modo molto chiaro nella motivazione la prima delle due decisioni indicate “…la licenza di porto d’arma, una volta emessa consente al cittadino di esercitare il diritto di andare armato e l’esercizio ancorché illecito di tale diritto non incide sulla legittimità dell’autorizzazione, allo stesso modo in cui l’uso illecito di un’autovettura (per es. per commettere un omicidio) non fa divenire illegittima la patente di guida “.
Quindi, conclusivamente sul punto ed a prescindere dal richiamato estemporaneo intervento, il legislatore ha mostrato in definitiva un atteggiamento di sostanziale disponibilità nei confronti di determinate categorie di soggetti che con le armi e le munizioni si pongono in relazioni di contenuto lecito per di più riconosciute e regolate dall’ordinamento o nella forma di discipline sportive (tiro a volo) o in quella venatoria. E l’art. 26 L. 110/75 ne costituisce, al di là delle sue iniziali difficoltà interpretative, comunque superate, un esempio lampante. E ne costituisce un altro esempio - che viene in aiuto alle categorie di soggetti che esercitano discipline sportive comportanti l’uso di un cospicuo numero di munizioni (ad es., il tiro dinamico) - l’art. 97/3° c. Reg. cit., che consente con licenza prefettizia di avere la disponibilità in detenzione di un numero maggiore di munizioni per pistola. Licenze, il cui rilascio, è stato reso più facilitato da due interventi in tal senso del Ministero dell’Interno formalizzato nelle Circolari n. 557/B. 20013-10171(1) del 31/3/2004 e n. 557/PAS. 6340-10171(1).
Ed anche in questo contesto di apertura, si pongono gli interventi giurisprudenziali cui più sopra si è accennato, che realizzano, collateralmente alla trattazione della materia che ne è oggetto, una forte attenuazione della rigida alternatività – altrimenti non superabile in ragione dell’intransigenza con cui è posta, attraverso l’uso delle disgiuntive “ o “, “ ovvero” - prevista dalla prima parte dell’art. 97/1° c., Reg. cit., che rende impossibile la contestuale di detenzione in deposito delle materie esplodenti ivi indicate, e, segnatamente, quella tra munizioni e polvere da sparo, argomento già oggetto di dettagliata disamina. Interventi, che realizzano in definitiva - ed al di là di talune erronee imprecisioni giuridiche ed argomentative rinvenibili in qualcuno di essi - un’interpretazione della norma adeguata al “diritto vivente”, attribuendo all’originaria condotta disciplinata un altro concorrente significato che non si discosta dal contenuto fattuale che essa esprime. La norma cui si fa riferimento è ancora l’art. 26 L. 110/75 e gli interventi riguardano in concreto l’equivalenza delle mille cartucce spezzate - che possono essere detenute senza denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. a condizione che si sia in possesso di un fucile adoperabile per l’esercizio dell’attività venatoria - alla polvere da sparo occorrente per il caricamento manuale dei loro bossoli o per il ricaricamento manuale di quelli di risulta, ciò che realizza allo stesso tempo, come si diceva, la possibilità di una contestuale detenzione senza denuncia di queste due materie esplodenti.
Le prime enunciazioni di tale interpretazione giurisprudenziale sono state rese, per la verità, in modo alquanto confuso, correlando due concetti che, come più volte esplicitato, hanno una natura giuridica diversa, pur se, in determinati momenti, si trovano ad interagire tra loro. Il riferimento è al concetto di detenzione di armi munizioni ed esplosivi in qualunque quantità da cui scaturisce ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S. l’obbligo di denuncia di tali manufatti, omologo a quello della detenzione delle materie esplodenti, scaturente, per quel che si è detto, dagli artt. 38 T.U.L.P.S. e 679 C.P. quando queste siano pericolose per quantità, erroneamente identificati con quello - di diversa natura giuridica oltre che di contenuto - di detenzione in deposito di cui all’art. 97 Reg. cit., collegato invece all’obbligo di munirsi di licenza prefettizia per le munizioni e le materie esplodenti della I Categoria (le polveri da sparo, cioè) allorché la loro entità numerica ed il loro peso netto superano i limiti indicati in tale norma. Nella motivazione di una di tali decisioni (Cass. Pen., Sez. I, 3/3/1986-8/5/1986, n. 03483, Palamara) si legge infatti che “…Ben è vero che l’art. 97 in esame è stato modificato dall’art. 26 della L. 110/75, ma solo, fermo l’obbligo della denuncia delle armi detenute, per quel che riguarda il numero, che viene ridotto, delle cartucce correlative a dette armi, e non anche per quanto riguarda il quantitativo di esplosivi di prima categoria…”. Ora, l’art. 26 cit. non solo non reca alcuna modifica espressa dell’art. 97 Reg. cit, ma non consente di intravederla nemmeno tacitamente, posto che esso è chiaramente inquadrato nell’ambito della condotta di detenzione di armi, munizioni, ed esplosivi disciplinata dall’art. 38 T.U.L.P.S. e del correlato obbligo di denuncia di tali manufatti; tanto è vero che esordisce riconfermando tale principio con riguardo alle munizioni “È soggetto all’obbligo della denuncia, stabilito dall’art. 38 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza 18 giugno 1931, n. 773, chi…detiene munizioni per armi comuni da sparo…”, introducendo poi in tema un’eccezione a tale principio con riguardo alle munizioni spezzate, allorché - in presenza di una specifica condizione pure refluente nell’area operativa dell’art. 38 T.U.L.P.S. e, cioè, quella di essere in possesso almeno di un’arma regolarmente denunciata impiegabile nell’attività venatoria - l’entità numerica di tali manufatti non supera le mille unità. Principio che, per la sua estrema chiarezza, non consente alcuna commistione con l’art. 97 Reg. cit., riguardante altra materia, tenuta ben distinta da quella trattata dall’art. 38 cit. anche dalle diverse esigenze tutelate da tali norme.
E tuttavia la decisione è degna della massima importanza con riguardo all’affermazione del principio - che non rimane vulnerato dalla circostanza che esso viene correlato erroneamente in motivazione all’art. 97 Reg. cit. datosi che è la stessa Corte di legittimità a ricondurlo implicitamente, correggendo l’impostazione, nel giusto e diverso ambito operativo dell’art. 26 L. 110/75 - riguardante la detenzione del quantitativo di cinque Kg. di polvere da sparo in relazione al quale viene stabilito che “…detto quantitativo, in definitiva, non rappresenta che un modesto accumulo di esplosivo, consentito a chi detiene armi regolarmente denunciate in luogo delle cartucce e per fabbricarsi le medesime. E l’imputato era in possesso di licenza di porto d’armi e di fucile da caccia regolarmente denunciato “(l’indicazione del possesso del porto d’armi è un dato fattuale rilevato dalla Corte dal contesto della fattispecie esaminata ed esula dall’art. 26 cit., posto che tale norma condiziona l’esenzione da denuncia delle 1000 cartucce solo al possesso dell’arma denunciata). Chiara, quindi, la liceità della contestuale detenzione senza denuncia sia delle munizioni che della polvere da sparo utilizzabile per la loro ricarica, condizionata al possesso del fucile utilizzabile per uso venatorio; situazione tuttavia riconducibile non all’art. 97 Reg. cit., come sostenuto dalla Corte di legittimità nella parte iniziale della motivazione sul punto, bensì – come del resto viene implicitamente affermato subito dopo – al possesso di un’arma denunciata, che è proprio la situazione delineata dall’art. 26 cit., posto che – ancora per rimarcare la diversità concettuale e di contenuto tra l’art. 97 Reg. cit. da un lato, e gli art. 38 T.U.L.P.S. e 26 L. 110/5 dall’altro - la detenzione di polvere in quantitativo non superiore ai cinque chilogrammi senza licenza è consentita autonomamente ex lege (prima parte art. 97/1° c. Reg. cit.) e non necessita quindi di essere resa lecita dal possesso di un fucile denunciato (condizione invece indispensabile per l’esenzione ex art. 26 cit. delle mille cartucce dalla loro denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. e, per equivalenza, della polvere da sparo impiegabile per effettuare la loro ricarica manuale; situazione che, in tal modo, viene a legittimare la contestuale detenzione di munizioni e polvere da sparo, altrimenti vietata, che è poi, come si è detto, l’effetto principale delle pronunce che si esaminano). Ed ancor più chiara l’affermazione che la detenzione di 5 Kg. di polvere da sparo, sussistendo la denuncia del fucile, è un fatto penalmente irrilevante ed indifferente per l’ordinamento, tanto che l’annullamento senza rinvio della decisione impugnata veniva disposto perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Principio che indirettamente conferma la giustezza di ciò che si è sostenuto - con il conforto della fondamentale decisione n. 200100110 emessa dalla Suprema Corte con riguardo al solo possesso della polvere da sparo in quantità non superiore a 5 Kg. - e cioè che essa non rappresenta quella quantità pericolosa richiesta dall’art. 679 C.P. per la denuncia obbligatoria di tale materia esplodente, tanto che, in perfetta coincidenza, tale quantitativo, nella decisione in esame, viene per l’appunto definito “ modesto “.
Analogo principio risulta espresso, ancora implicitamente, in una seconda decisione (Cass. Pen., Sez. I, 6/4/1987-21/4/1988, n. 04849, Pagnozzi), la cui motivazione – che compensa ampiamente lo scarno contenuto con cui è reso in massima al punto da non lasciarne cogliere l’esatta portata – prende le mosse dalla storica decisione delle SS. UU. in materia di distinzione tra esplosivi e materie esplodenti basata sulla caratteristica della micidialità posseduta dalle prime e non invece dalle seconde, tra le quali rientra la polvere da sparo. In essa si afferma infatti: “ Ora tale caratteristica è esclusa nella polvere pirica di per sé considerata, la cui detenzione senza licenza per un quantitativo inferiore ai cinque chilogrammi per la confezione di cartucce per armi da caccia è lecita e per un quantitativo superiore integra il reato previsto dall’art. 679 C.P. “. Tale affermazione risulta – ma solo in apparenza - non coordinata giuridicamente nel suo costrutto, posto che la condotta ipotizzata integra il reato di detenzione in deposito senza licenza punito dall’art. 678 C.P., mentre l’indicato art. 679 C.P. punisce l’illegale detenzione delle materie esplodenti, ma non in conseguenza dell’essere sprovvisti di licenza, bensì dell’omessa denuncia all’Autorità di P.S. del suo possesso in violazione dell’art. 38 T.U.L.P.S. allorché il quantitativo posseduto si rivela, ai sensi del cit. art. 679 C.P., pericoloso per quantità. Ma trattasi sicuramente di un’accidentale omissione essendo ben chiara nel pensiero dei Giudici di legittimità la distinzione or ora operata, come dimostra altra osservazione svolta in apertura di motivazione a proposito dell’individuazione della norma che punisce la condotta detenzione illegale degli esplosivi indicata nell’art. 10 della L. 497/74 rispetto a quella di detenzione illegale di materie esplodenti “…prevista dall’art. 678 C.P. o, secondo i casi, dall’art. 679 C. P…”. Deve anzi aggiungersi che la sola indicazione dell’art. 10 della L. 497/74 cit. con riguardo alla condotta di detenzione degli esplosivi denota come sia ben presente nella Corte che tale norma sanziona non soltanto la condotta di detenzione senza denuncia all’Autorità di P.S. in violazione dell’art. 38 T.U.L.P.S. ma anche, in virtù dell’espressione indefinita “a qualunque titolo”, anche quella di detenzione in deposito senza licenza di esplosivi non disciplinata dall’art. 9 della L. 497/74.
Quindi, chiarito come l’affermazione sopra riportata sia solo apparentemente priva di coordinamento nel suo costrutto, dalla stessa si evince qual’è in buona sostanza l’effettivo pensiero dei Giudici di legittimità, e, cioè, che la detenzione di polvere da sparo è esente da denuncia ex art. 679 C.P. quando non è pericolosa per quantità, essendo del resto soltanto questo il parametro fissato nella norma quale limite al superamento del quale la denuncia diventa obbligatoria e sanzionata, in sua mancanza, dalla stessa norma, stabilito in concreto dai decidenti in cinque chilogrammi. E d’altro canto non avrebbe alcun senso riferire l’affermazione in questione alla condotta di detenzione in deposito senza licenza dal momento che essa è già disciplinata come lecita dalla prima parte dell’art. 97/1° c. nei limiti del quantitativo di cinque chilogrammi e, deduttivamente, come illecita al suo superamento se non assistito dalla prescritta obbligatoria licenza.
Piuttosto quel che è degno del massimo rilievo ai fini che qui interessano, è che consente di collocare la decisione che si esamina tra quelle emesse nell’ambito operativo dell’art. 26 della L. 110/75 è la circostanza che, pur non essendo la vicenda oggetto di ricorso formalmente correlata alla situazione delineata da tale norma, di fatto essa non può non essere che ricondotta al suo contenuto. Al riguardo, i Giudici di legittimità non hanno avuto infatti alcuna esitazione a collegare la liceità della detenzione senza denuncia di polvere da sparo in quantità non superiore ai cinque chilogrammi alla sua canonica utilizzazione nel caricamento delle cartucce per armi da caccia. E tale principio risulta perfettamente speculare a quello che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato positivamente, nell’ambito dell’art. 26 della L. 110/75, in tema di equivalenza della polvere da sparo alle mille cartucce esentate da denuncia allorche si è in possesso di un fucile impiegabile nell’attività venatoria (va messo in evidenza che nella decisione de qua, all’esame dei Giudici di legittimità è stato a portata una questione riguardante l’esclusiva detenzione di polvere da sparo ed in tale contesto è stato affermato il suo stato giuridico di liceità della sua detenzione in non oltre cinque chilogrammi finalizzato al caricamento delle cartucce per fucile da caccia, non correlandosi pertanto la corrispondenza di tale quantitativo a quello occorrente per caricare le mille cartucce di cui all’art. 26 cit.).
Una successiva decisione esprime analogo principio ma in un quadro di perfetta sintonia con il contenuto dell’art. 26 cit.. “ La detenzione di polvere da sparo sufficiente al confezionamento di non più di mille cartucce (nella specie quattrocento), da parte di persona munita di porto d’armi e in possesso di fucile da caccia regolarmente denunciato, non configura, in virtù del disposto dell’art. 26 legge 18 aprile 1975, n. 110, l’ipotesi delittuosa di detenzione abusiva, di cui all’art. 2 legge 2 ottobre 1967, n. 895, né altra fattispecie criminosa, in quanto a tale detenzione difetta il carattere di illegalità, non sussistendo l’obbligo della denuncia stabilito dall’art. 38 T.U.L.P.S.. Né la non assoggettabilità all’obbligo di denuncia e la conseguente legittimità della detenzione possono essere validamente contestate sul rilievo che oggetto della detenzione non sono cartucce per fucile da caccia, bensì polvere da sparo, perché per munizioni – quando le stesse costituiscono l’armamento del fucile da caccia – deve intendersi tutto ciò che serve al confezionamento delle cartucce, e, quindi, anche la polvere da sparo “ (Cass. Pen., Sez. I, 9/7/1987-29/12/1988, n. 12853, Politti). Salvo per ciò che concerne l’errata individuazione dell’art. 2 legge 2 ottobre 1967, n. 895, come successivamente modificata dalla L. 497/74, quale ipotesi delittuosa che disciplina la detenzione delle materie esplodenti, prevista e punita invece dall’art. 679 C.P. (il criterio distintivo tra materie esplodenti ed esplosivi era stato già enunciato l’anno precedente nella storica sentenza delle SS. UU. della Suprema Corte), e salvo il richiamo, pure in questa decisione, alla licenza di porto d’armi, per il quale valgono le osservazione più sopra esplicitate, salvo tutto ciò, la decisione conferma il principio posto dalla prima decisione e completa quello enunciato nella seconda, inquadrandoli nell’esclusivo ambito operativo dell’art. 26 cit. in forma di interpretazione evolutiva del suo contenuto, arricchita dall’affermazione che “per munizioni – quando le stesse costituiscono l’armamento del fucile da caccia – deve intendersi tutto ciò che serve al confezionamento delle cartucce, e, quindi, anche la polvere da sparo”. Piuttosto, il contenuto di tale seconda decisione va preso in considerazione sotto il profilo della quantità di polvere da sparo detenibile senza denuncia, al pari delle munizioni, sembrando che essa debba necessariamente corrispondere in peso a quello occorrente per la ricarica di 1000 cartucce da caccia, in contrasto con il contenuto esplicitato al riguardo nelle precedenti due decisioni, che fanno invece riferimento ad un quantitativo di cinque chilogrammi di polvere da sparo detenibile senza denuncia (e solo nella prima decisione) allo stesso modo delle mille cartucce spezzate allorché si è in possesso di un fucile per l’esercizio della caccia. Ma prima di dare una soluzione a tale questione appare opportuno passare in rassegna anche il contenuto di altra successiva decisione emessa, sempre in argomento, dalla Suprema Corte. Essa ha (Sez. I, 26/3/1990-19/4/1990, n. 05593, Orecchio) un contenuto pressoché identico alla prima (che viene all’uopo richiamata in motivazione) dal quale emerge ancora una volta il non appropriato principio della detenzione senza licenza ex art. 97 Reg. cit. di cinque chilogrammi di polvere da sparo resa lecita dalla condizione che si possieda un’arma (nella decisione, per la verità, si tace sul profilo della liceità della detenzione della polvere da sparo sequestrata nella prospettiva di un suo utilizzo per il caricamento delle munizioni spezzate impiegabili in fucili da caccia, che rappresenta, in definitiva, proprio la ragione di detta liceità; ma essendo richiamato in questa, come si è detto, il contenuto della prima decisione, il riferimento a tale prospettiva deve fondatamente ritenersi implicito anche in questa). Ma a differenza della prima decisione, in quella che si esamina - oltre a reiterarsi l’impropria correlazione dell’esenzione da denuncia della polvere da sparo al contenuto della prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., - se ne spiegano anche le ragioni giuridiche con un assetto motivazionale sul quale è necessario soffermarsi per rilevare che, nonostante le imprecisioni che reca, esso, conclusivamente, non contraddice e lascia integro il principio di fondo della non obligatorietà della denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. della polvere da sparo quando il suo quantitativo non supera i 5 chilogrammi (e si è in possesso di un fucile impiegabile in attività venatoria regolarmente denunciato). L’oggetto della fattispecie portata all’esame dei Giudici di legittimità riguardava la condanna pronunciata da una Corte territoriale ai sensi degli artt. 10 e 14 L. 497/74 (sostitutivi degli artt. 2 e 7 della L. 895/67) per detenzione illegale di Kg. 3, 570 di polvere da sparo, qualificata dalla Corte di merito materia esplodente ma parificata agli esplosivi sotto il profilo sanzionatorio. Contestazione di tutta evidenza erronea sotto un duplice profilo: primo perché la detenzione senza denuncia della polvere da sparo, proprio perché materia esplodente, è punita, se pericolosa per quantità, dall’art. 679 C.P., mentre la normativa richiamata sanziona gli esplosivi così tecnicamente intesi e cioè quelli micidiali, giusta la distinzione fattane nella storica decisione delle SS. UU.; secondo perché il richiamo all’art. 14 della L. 497/74, in successione all’art. 10 della stessa normativa, è del tutto fuori luogo in quanto tale norma ha ad oggetto le armi comuni da sparo, e le loro parti, atte all’impiego, di cui all’art. 44 del Reg. cit., e non le materie esplodenti o gli esplosivi che armi non sono. Quindi il richiamo non può essere giustificato nemmeno a volere ritenere che la Corte di merito avesse voluto considerare la polvere da sparo, per i suoi più blandi rispetto agli esplosivi, nella stessa prospettiva configurata dall’art. 14 cit. per le armi comuni da sparo in considerazione della minore gravità delle condotte che le riguardano. Tuttavia, a parte ciò, sono ineccepibili le considerazioni giuridiche che la stessa Corte di merito poneva a sostegno della condanna, e, cioè, che l’esonero dall’obbligo di munirsi di licenza di deposito per le materie esplodenti non esimeva l’imputato dalla denuncia della stessa ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S., pur risultando lo stesso possessore di armi regolarmente denunciate (è di tutta evidenza che la Corte di merito non si orientava nella direzione evolutiva dell’art. 26 L. 110/75 tracciata dalle prime decisioni in termini di equipollente finalità tra munizioni e polvere da sparo nella prospettiva di un loro utilizzo venatorio, forse ancora troppo recenti – la decisione impugnata è infatti del luglio del 1987). E comunque essa ribadiva nella sua decisione un principio esattissimo ed incontestabile, e, cioè, l’obbligo incondizionato di denuncia delle materie esplodenti ex art. 38 T.U.L.P.S. a prescindere dal fatto che, in determinate quantità, esse sono svincolate dalla licenza di detenzione in deposito, essendo le due norme finalizzate alla tutela di esigenze diverse: solo che, nel caso di specie, essendo state le materie esplodenti equiparate agli esplosivi, l’enunciazione risultava errata nel punto in cui si affermava l’esistenza di un loro esonero dal munirsi di licenza entro determinati limiti quantitativi, posto che per gli esplosivi tale possibilità è del tutto esclusa, nel senso che la licenza di detenzione in deposito è per essi sempre obbligatoria in qualunque quantità.
La Corte di legittimità, rilevava l’errore di individuazione della fattispecie punibile giudicando che la normativa richiamata riguardava gli esplosivi la cui detenzione è sempre illegittima se non assistita da licenza: “ Infatti, gli artt. 10 e 14 L. 14 Ottobre 1974, n. 497, puniscono colui che ‘illegittimamentè detiene, fra l’altro, esplosivi; la detenzione di questi è illegittima se effettuata da parte di persona che, avendone l’obbligo, non è munito di necessaria licenza “.
Qualificando correttamente la polvere da sparo come materia esplodente, la Corte di legittimità esponeva, quindi, le ipotesi in cui la sua detenzione deve considerarsi legittima affermando in proposito che “ Colui che, invece, per essere legittimo possessore di un’arma, non ha bisogno della licenza per detenere polvere da sparo e/o materie esplodenti in quantità non superiore ai Kg. 5, non ha neppure obbligo alcuno di denunciare all’Autorità di Polizia il possesso della polvere e delle materie esplodenti predette “. Più d’una le osservazioni che potrebbero muoversi a tale enunciazione. Anzitutto quella di correlare la non necessità della licenza per detenere in deposito materie esplodenti in quantità non superiore ai 5 Kg. al possesso di un’arma regolarmente denunciata. Tale possibilità - disciplinata dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit. (ma solo per le materie esplodenti, come la polvere da sparo, e non per gli esplosivi- II e III Categ.) - è resa lecita infatti non dal possesso di un’arma, ma esclusivamente dal quantitativo della materia esplodente detenuta in deposito, che deve essere, per l’appunto, inferiore a 5 chilogrammi; circostanza che non potendo sfuggire alla Corte per l’estrema chiarezza con cui è formulata la disposizione appena citata, insinua il legittimo dubbio che con tale affermazione essa abbia voluto dire una cosa diversa.
Segue poi che dall’indicata correlazione discenderebbe l’esenzione da denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. dell’identico quantitativo di polvere da sparo. Ed anche qui deve osservarsi come non poteva sfuggire alla Corte che una tale affermazione non solo è del tutto priva di addentellati normativi, ma è pure erronea alla stessa stregua del presupposto da cui muove. Errato essendo, infatti, che il possesso dell’arma denunciata rende lecita la detenzione in deposito di un quantitativo di polvere da sparo inferiore a 5 Kg., altrettanto errata si rivelerebbe l’esenzione dall’obbligo di denuncia fondata su tale presupposto.
Ma non a caso è stato adoperato ancora il condizionale, perché non attribuendo a questa seconda parte del ragionamento il senso fatto palese dalla sua costruzione fraseologica, che confligge in modo patente con cognizioni giuridiche che invece risultano ben note alla Corte di legittimità, e rivisitandolo alla luce della ragione fondamentale da cui muove - che è quella (tenuta presente in motivazione per relationem attraverso l’indicazione della prima decisione) di porre sullo stesso piano giuridico le 1000 munizioni spezzate esentate da denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. con la polvere da sparo utilizzabile per il loro caricamento – diventa certo che i decidenti abbiano più semplicemente inteso dire che il possesso di un’arma legittimamente detenuta rende legittima ex art. 26 cit. la detenzione senza denuncia di munizioni spezzate, altrimenti obbligatoria ex art. 38 T.U.L.P.S. ; che un quantitativo di polvere da sparo fino a 5 Kg. può essere detenuto in deposito ex prima parte art. 97/1° c. Reg. cit. senza licenza; che esso rappresenta un “modesto accumulo di esplosivo” (v. prima decisione); e che la sua detenzione, proprio perché tale, può essere consentita senza denuncia allo stesso modo delle 1000 cartucce esentate da tale obbligo quando si è in possesso di un’arma denunciata (più precisamente, di un fucile utilizzabile per l’esercizio venatorio) in quanto finalizzata a “fabbricarsi le medesime”. Ed è il risultato che si ottiene – dimostrandosi così che è proprio questo il pensiero dei giudici di legittimità – se si considera che esso non risulta comprensibile in tale significato a causa dell’accidentale dimenticanza, nel periodo che lo esprime, di una congiuntiva “ e “; si riporta ancora di seguito il periodo come scritto in motivazione e come, invece, risultante dall’apposizione della locuzione congiuntiva: “ Colui che, invece, per essere legittimo possessore di un’arma, non ha bisogno della licenza per detenere polvere da sparo e/o materie esplodenti in quantità non superiore ai Kg. 5, non ha neppure obbligo alcuno di denunciare all’Autorità di Polizia il possesso della polvere e delle materie esplodenti predette “ - “ Colui che, invece, per essere legittimo possessore di un’arma, e non ha bisogno della licenza per detenere polvere da sparo e/o materie esplodenti in quantità non superiore ai Kg. 5, non ha neppure obbligo alcuno di denunciare all’Autorità di Polizia il possesso della polvere e delle materie esplodenti predette“
Stabilita così per interpretazione giurisprudenziale la legittimità di fondo dell’equiparazione delle 1000 cartucce alla polvere da sparo utilizzabile per la loro ricarica, nonché la legittimità della loro esenzione da denuncia, resta da risolvere, alla stregua di quanto sin qui esplicitato, la questione se tale corrispondenza debba essere intesa in senso aritmetico, come indicato dalla terza pronuncia, o, piuttosto, contrassegnata da un limite di volare identico per tutti i casi.
Si osserva al riguardo che la corrispondenza aritmetica è quella che più si presta astrattamente al rispetto dei limiti fissati dalla norma. Peraltro, per assicurarne formalmente l’osservanza, si potrebbe prendere in prestito il computo stabilito al riguardo dal D.M. 23/9/1999 (modificativo del Capitolo VI, n. 3, dell’All. B al Reg. cit.) che regola il rapporto tra materie esplodenti e munizioni detenibili per la minuta vendita all’interno delle armerie, che stabilisce, tra l’altro come 1 Kg. di polveri da lancio della I Categoria è considerato pari a 300 cartucce per armi lunghe ad anima liscia o rigata caricate con polvere nera, oppure a 560 cartucce per armi lunghe ad anima liscia o rigata caricate con polvere senza fumo. Basterebbe pertanto applicare tali parametri per mantenere nei limiti la proporzione tra numero di munizioni e quantità di polvere da sparo. Non è, tuttavia, difficile rendersi conto di come la realizzazione di tali calcoli diventa in concreto piuttosto complicata e difficoltosa e che, proprio per tale ragione, potrebbe portare spesso inavvertitamente oltre i limiti stabiliti dalla norma. Diventa pertanto più praticabile l’orientamento giurisprudenziale prevalente, che fissa nel limite di 5 chilogrammi il quantitativo di polvere da sparo detenibile senza denuncia in corrispondenza delle 1000 cartucce esentate da tale obbligo ex art. 26 L. 110/75 allorché si è in possesso di un fucile impiegabile in attività venatoria: possesso che legittima, a questo punto, sia la detenzione delle munizioni, sia la polvere da sparo a sé stante essendo la sua detenzione funzionale al caricamento di munizioni spezzate. In tal caso l’unica prescrizione da osservare è costituita dalla scrupolosa osservanza del non superamento del limite quantitativo esterno dei 5 chilogrammi di polvere da sparo (sempre reintegrabile in tale misura) che legittima il caricamento di non più di mille cartucce spezzate (anch’esse reintegrabili in tale numero), questo essendo il numero esentato da denuncia ex lege: ciò che evita di tenere sotto costante controllo al termine di ogni attività di ricarica l’effettività del mantenimento del rapporto tra munizioni e polvere da sparo; tenendo, tuttavia, nel debito conto che il caricamento di un numero superiore di 1000 munizioni obbliga alla denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. di tutto il compendio. Peraltro deve osservarsi come la determinazione del quantitativo di polvere da sparo non superiore a cinque chilogrammi funzionale al caricamento delle munizioni spezzate a condizione che si possieda un fucile da caccia, è in perfetta sintonia sia con quello esentato ex se da licenza in quanto non idoneo presuntivamente a provocare infortuni e disastri e sia con quello esentato ex se da denuncia ex 679 C.P. in quanto non ritenuto pericoloso per quantità secondo la fondamentale decisione della Suprema Corte emessa al riguardo nel 2002 (n. 200200110): e d’altro canto non può sfuggire che, proprio in relazione al quantitativo dei 5 Kg. di polvere da sparo utilizzabile per il caricamento delle munizioni spezzate, la giurisprudenza di legittimità si è espressa nel senso che “…detto quantitativo, in definitiva, non rappresenta che un modesto accumulo di esplosivo, consentito a chi detiene armi regolarmente denunciate in luogo delle cartucce e per fabbricarsi le medesime” (n. 198603483).
Ma come si è gia detto, l’effetto più importante che realizza l’interpretazione giurisprudenziale evolutiva dell’art. 26 L. 110/75 è quello di rendere lecita la contestuale detenzione delle munizioni e della polvere da sparo, altrimenti sbarrata, come si è visto, dall’intransigente contenuto della prima parte dell’art. 97/1° comma Reg. cit.; ma, quel che è più importante è che tale effetto, di cui direttamente beneficia la categoria di soggetti dedita all’esercizio venatorio, risulta estensibile indirettamente, anche a quella costituita da soggetti che, nell’ambito di altre discipline agonistico-sportive, hanno esigenze di provvedere al caricamento di cartucce a palla per arma lunga (ad es., la disciplina del bench rest tradizionale richiede l’allestimento manuale delle cartucce datosi i migliori risultati sono legati ad un dosaggio della polvere da sparo eccezionalmente preciso e che tiene conto di una serie di fattori esterni) e di cartucce a palla per arma corta (si pensi alla disciplina del tiro dinamico; ma qui la necessità di ricorrere all’attivita di ricarica è dettata dal consistente risparmio economico che con essa si realizza, in ragione del cospicuo numero di munizioni che viene consumato nel corso delle esercitazioni finalizzate all’attività agonistica). E ciò perché l’art. 26 della L. 110/75 condiziona la detenzione senza denuncia delle mille cartucce spezzate o la detenzione senza denuncia del quantitativo dei 5 Kg. di polvere da sparo soltanto al possesso di un’arma lunga impiegabile nell’attività venatoria ma non al suo effettivo esercizio; presume, cioè, astrattamente che una tale situazione è preordinata – ed in effetti è in concreto quel che di solito accade – all’esercizio venatorio ma non richiede per la liceità dell’esenzione della denuncia di entrambi i manufatti che essa venga effettivamente svolta. Si vuol dire, in altri termini, che il possesso dell’arma lunga impiegabile in attività venatoria legittima la detenzione senza denuncia di mille munizioni spezzate e del quantitativo di polvere da sparo utilizzabile per la loro ricarica, ma non richiede né che le mille cartucce spezzate detenute senza denuncia siano effettivamente utilizzate in attività venatoria né che il quantitativo di polvere da sparo venga effettivamente adoperato per la loro ricarica o che venga adoperato solo per la ricarica di tale tipologia di munizioni o che sia detenuto solo per tale finalità. Non è superfluo annotare al riguardo che l’oggetto della decisione riportata per prima (n. 1986/03483) era costituito da polvere nera utilizzata per lavori di sbancamento e che, essendo idonea in astratto al contempo per la ricarica di munizioni per arma lunga utilizzabile in attività venatoria di cui l’imputato risultava lecitamente in possesso, veniva ritenuta altrettanto lecitamente detenuta a prescindere dalla sua effettiva destinazione all’attività di ricarica. Bisogna però aggiungere che il vantaggio indirettamente acquisito da tali categorie di soggetti (non si menzionano coloro che esercitano la disciplina del tiro a volo perché le munizioni impiegate in tale attività sono spezzate e l’arma denunciata che viene utilizzata è impiegabile, ancor prima che in tale disciplina, in attività venatoria) si ferma – sempre a condizione del possesso di un’arma lunga impiegabile in uso venatorio - alla liceità della detenzione della polvere da sparo. Nel momento in cui essa è concretamente impiegata nell’attività di ricarica di munizioni per arma corta a palla e/o di munizioni per arma lunga a palla non impiegabili in attività venatoria, tutte le munizioni che saranno allestite dovranno infatti formare oggetto di obbligatoria denuncia ex art. 38 T.U.L.P.S. con il limite numerico di 200 per le prime e con quello di 1500 per le seconde, che potranno essere ricostituite in dette quantità o in quelle inferiori inizialmente denunciate senza alcuna necessità di una denuncia della loro ricostituzione, salvo che la soglia numerica di quest’ultime non venga elevata. È preferibile, pertanto, caricare inizialmente cartucce nei limiti massimi consentiti e provvedere alla loro denuncia, reintegrandole in qualunque quantità nell’ambito dei rispettivi limiti massimi senza necessità di denunciare le varie modifiche perché operate all’interno di essi. E le cose non mutano se i limiti massimi vengono innalzati in ragione del conseguimento di licenza prefettizia ai sensi dell’art. 97/3° c. T.U.L.P.S. ; in tal caso, nel corso dell’attività di ricarica, non dovrà mai essere superato il limite massimo consentito dalla licenza (bisogna dare atto al riguardo di una recente Circolare del Ministero dell’Interno - n. 557/PAS. 6340-10171 (1) del 29/5/2006 - che, dimostrandosi molto sensibile alle esigenze della categoria dei soggetti che sono dediti a discipline sportive che comportano un cospicuo utilizzo di munizioni per arma corta, ha invitato gli Uffici Territoriali del Governo a rilasciare, previo accertamento dell’effettività dell’esercizio della corrispondente attività sportiva, licenze per un numero di 1500 cartucce per arma corta oltre le 200 previste dalla prima parte dell’art. 97/1° c. Reg. cit., ribadendo che, dato il modesto quantitativo di polvere da sparo contenuto nel numero complessivo di munizioni per arma lunga detenibili senza licenza prefettizia – 1500 – e quelle per arma corta detenibili ex lege e con licenza prefettizia – 200 +1500 – per la loro detenzione non è necessario predisporre un idoneo locale di deposito).
La situazione sin qui illustrata non tiene conto della circostanza che – essendo la maggior parte delle cartucce a palla per arma lunga impiegabili contestualmente sia in attività sportiva che nell’esercizio dell’attività venatoria – anch’esse, come si sta per illustrare, entrano a far parte delle mille esentate da denuncia, per cui, in definitiva, se l’attività di ricarica si mantiene entro tale limite, non dovrà provvedersi ad alcune denuncia delle stesse. Il compendio delle mille cartucce esentate potrà pertanto essere costituito o dalle sole munizioni spezzate, o dalle sole munizioni a palla o da entrambe le tipologie di munizioni.
A chiusura dell’argomento appare della massima importanza svolgere altre due considerazioni. La prima: tutto quanto è stato detto a proposito delle denuncia delle munizioni di qualunque tipologia non riguarda quelle acquistate all’interno dei poligoni di tiro o dei campi di tiro a volo se vengono subito dopo consumate nel corso dell’attività di esercitazione o di quella agonistica. E lo stesso discorso vale per quelle acquistate in armeria e consumate nell’immediato. Non avrebbe alcun senso sottoporre a controllo – a questo è finalizzata infatti la loro denuncia ex 38 T.U.L.P.S. – un manufatto destinato ad essere distrutto immediatamente dopo il suo acquisto (e, se si riflette un momento, proprio per tale ragione, cioè quella della destinazione alla distruzione, rende in via generale inutile la denuncia delle munizioni, specie se si considera che, pur mantenuto entro i limiti di legge, il numero di quelle caricate manualmente in via di integrazione, si sottrae ad ogni forma di controllo. Appare sufficiente al riguardo, per quelle commerciali e per le tipologie per cui esso è previsto, il controllo effettuabile attraverso la loro annotazione sul registro di vendita. In sostanza la denuncia delle munizioni, specie di quelle destinate ad uso sportivo e venatorio realizza soltanto un’inutile perdita di tempo per coloro che a tali attività si dedicano e per gli uffici amministrativi di polizia. E nell’affermare ciò non si è certamente lontani dal vero, posto che – almeno con riguardo alle munizioni spezzate che rappresentano nel settore la parte più cospicua – la stessa giurisprudenza non si è lasciata sfuggire l’occasione di porre in ampia e sattisfattiva evidenza questo stato di cose “…l’esonero dalla denuncia non implica eccesso di potere normativo, ispirandosi tale trattamento speciale ad evidenti esigenze di utilità pratica sia per il privato, che viene affrancato da un faticoso adempimento di ‘routine ’, con frequenze ossessive per i cacciatori, sia per la pubblica amministrazione, che, correlativamente, viene liberata dalle corrispondenti pratiche burocratiche “ (n. 1984/070475).
La seconda. Si è più volte ribadito che l’effetto più importante dell’interpretazione evolutiva dell’art. 26 della L. 110/75 è costituito dalla possibilità di detenere contestualmente polvere da sparo e munizioni, o, se si vuole essere piu precisi – ma il risultato è identico - di detenere lecitamente polvere da sparo per l’attività di caricamento di munizioni spezzate entro il numero esentato da denuncia, con la conseguenza, a caricamento avvenuto, di poter detenere quindi entrambi tali manufatti in modo lecito; possibilità altrimenti esclusa tout-court dalla rigorosa alternatività imposta dalla prima parte dall’art. 97/1° c. Reg. cit. in tema di detenzione dei manufatti ivi indicati anche entro i limiti quantitativi previsti e, segnatamente, per quel che qui interessa, tra polvere da sparo (materia esplodente della I Categoria) e munizioni. Probabilmente tale rigorosa alternatività non forma oggetto nella realtà di particolare attenzione perché in qualche modo superata dalla prassi vigente, avallata dal tacito consenso dell’Autorità amministrativa di Polizia, in base alla quale viene consentita la coeva detenzione dell’una e delle altre. Non si conosce se detta prassi è una conseguenza della mancata conoscenza di tale divieto, o se la stessa è stata instaurata nonostante la consapevolezza della sua esistenza (si propende per la prima ipotesi) per venire incontro in qualche modo alle difficoltà derivanti da una tale situazione rispetto a quelle che erano e sono legittime istanze delle categorie di soggetti che si dedicano ad attività sportive e venatorie. Ma un fatto certo è che la prassi, per quanto lungamente osservata, non è una fonte normativa e, per tale motivo, può essere sempre neutralizzata dall’esigere l’esatta osservanza della norma che vieta le condotte da essa “ legittimate “, la cui violazione non può essere giustificata dalla sua esistenza. Quanto sin qui rilevato è utile per far comprendere come, a seguito degli interventi giurisprudenziali di indiscusso valore resi nella materia de qua, la situazione risulta sensibilmente mutata in quanto legittimata non più dalla prassi ma, indirettamente, dalla lettura di una norma (l’art. 26 della L. 110/75) orientata, senza mutarne il senso, verso gli stessi canoni di praticità che costituiscono la ragione principale della sua emanazione. Può dirsi conclusivamente che la liceità della contestuale detenzione di polvere da sparo e di munizioni è, per tale ragione, oggi solidamente garantita.
VII1°
Si è detto che l’art. 26 L. 110/75 lascia immutato l’assetto numerico riguardante la detenzione delle munizioni delle armi lunghe in virtù del modo di interagire dell’art. 38 T.U.L.P.S. con la prima parte dell’art. 97/1° comma Reg. cit., nel senso che le mille cartucce esentate da denuncia vanno comunque a costituire il numero massimo (1500) di quelle detenibili senza l’obbligo di munirsi della licenza prefettizia di cui all’art. 97/3° c. Reg. cit..
Altra questione è stabilire se tra le mille cartucce “a pallini per fucili da caccia” esentate da denuncia, alla (autonoma) condizione che si possieda un fucile da caccia regolarmente denunciato, possa essere estesa alle munizioni a palla, essendo un dato di comune conoscenza che l’attività venatoria viene esercita anche con tale tipologia di munizioni. Ma questa che può sembrare una situazione del tutto scontata, trova una precisa legittimazione in una norma che disciplina la tipologia di armi che le impiegano. A queste pertanto deve essere rivolta l’attenzione per avere poi conferma della legittimità del loro impiego ed in quali limiti.
Intanto è a dirsi che la lettura della norma deporrebbe, in ragione della sua estrema chiarezza, per una risposta negativa alla questione principale posta in apertura. Con l’espressione munizioni spezzate (costituite, cioè, da pallini di variegato diametro) viene indicata tecnicamente una ben precisa tipologia di munizioni e la stessa non può in alcun modo essere omologabile ad altra tipologia, qual’è quella costituita da un solo proiettile, che ha una sua propria unitarietà strutturale ed effetti balistici intermedi e terminali del tutto diversi da quelle spezzate. Ed in questi termini si è espressa del resto la Suprema Corte quelle poche volte in cui è stata investita della questione. Una di tali pronunce - con la quale si è anche affermato che il calibro delle munizioni a pallini detenute deve corrispondere, perché l’esenzione operi, a quello dell’arma legittimamente posseduta – è stata già esaminata (n. 2004/39539, Fumusa) dandosi ampia contezza che tale situazione non è affatto richiesta dalla norma. Per tenere presente la ragione per la quale la Suprema Corte dà una soluzione negativa alla questione che le cartucce esentate da denuncia sarebbero quelle spezzate e non quelle a palla, può indicarsene un’altra che, sul punto, motiva nel modo seguente: “ …le cartucce in questione erano caricate a palla e non potevano essere detenute senza farne denunzia all’autorità di pubblica sicurezza. Il possesso del porto d’armi per fucile autorizza infatti a detenere cartucce caricate a pallini, non anche cartucce caricate a palla per le quali è sempre obbligatoria la denunzia, anche se il cacciatore le detenga per caccia, in particolare quella al cinghiale” (Cass. Pen., Sez. I, 8/10/1996-29/11/1996, n. 09871, Spadini). La decisione, che ricalca l’orientamento che si è detto, contiene tuttavia un errore di consistente rilevanza, costituito dall’avere individuato la condizione che legittima l’esenzione nel possesso di porto di porto di fucile da parte dell’imputato. Questo nella norma non c’è assolutamente scritto: essa richiede infatti che a legittimare l’esenzione sia il possesso di armi regolarmente denunciate, o meglio, per le ragioni, già ampiamente esplicitate, di un arma lunga idonea all’impiego venatorio.
Tornando alla questione intermedia relativa all’individuazione della tipologia delle armi da caccia essendo prodromica rispetto a quella che legittima l’uso delle munizioni a palla nell’esercizio dell’attività venatoria, va rilevato che la normativa che vi provvede è quella sulla caccia (L. 157/92) che a tale argomento dedica l’art. 13 – intitolato “ Mezzi per l’esercizio dell’attività venatoria” - nell’ambito del quale si stabilisce che tale attività può essere esercitata non con fucili che abbiano particolari caratteristiche tecniche esteriori da consentirne l’individuazione all’osservazione, bensì con tutti quelli che abbiano un calibro che non superi quello stabilito dalla norma o un calibro compreso nei dati metrici indicati dalla stessa (si vedrà che la norma esprime un altro concetto,e cioè, con munizioni in determinati calibri camerabili in armi lunghe). Tale modo di individuare il principale mezzo di caccia è produttivo di un’implicazione di fondamentale importanza e, cioè, che esso è identificabile con qualunque arma lunga (e tali sono i fucili e le carabine) camerata per i calibri compresi tra quelli indicati dalla norma. In altri termini, non esistono armi da caccia, bensì armi comuni da sparo impiegabili in attività venatoria se i loro calibri rispondono metricamente a quelli indicati dalla norma. Definizione di “mezzo di caccia”, quindi, stabilita normativamente in modo puntuale e preciso, e che, come tale, non può essere mutata o modificata che da un’altra legge, nel cui solo ambito vanno individuati i calibri delle armi lunghe per accertare la loro possibilità d’impiego in tale settore. La precisazione si rende necessaria perché, dando un’occhiata al Catalogo nazionale delle armi comuni da sparo (perché i fucili e le carabine impiegabili nell’attività venatoria, prima di essere mezzi di caccia sono “armi comuni” iscritte ai sensi dell’art. 7 della L. 110/75 esclusivamente in tale qualità sul detto Catalogo - innumerevoli le perplessità sulla sua utilità istitutiva - con esclusione dei fucili con canna ad anima liscia solo in ragione della loro enormità numerica, comunque ugualmente elencati in appendice per disposizione ministeriale, ma pur essi, prima di tutto, armi comuni ad ogni effetto ai sensi dell’art. 2 della Legge citata), dando uno sguardo al Catalogo, si diceva, potrà osservarsi che, in relazione ad un nutrito numero di armi lunghe fra quelle con canna ad anima rigata, viene annotata sulle rispettive schede la dicitura “uso consentito per l’attività venatoria”. Ora, la superfluità di una tale annotazione è di tutta evidenza, perché la qualifica di arma impiegabile nell’attività venatoria è, come si è detto, direttamente stabilita dalla legge, per cui tale dicitura assume il valore di pleonasmo, di una pedissequa ed inutile ripetizione, che non si sa per di più quanto legittima in quanto l’unica annotazione da apportare sulla scheda dell’arma può, a tutto concedere, essere costituita dall’indicazione di “arma comune”, pur essa, comunque superflua, perché tale qualità discende direttamente dal fatto stesso della sua iscrizione sul Catalogo, per come dispone la legge (art. 7/3° c., L. 110/75). Quindi, la circostanza che, per talune armi lunghe di calibro compreso in quello indicato dalla norma, tale dicitura non figuri, non ha assolutamente alcuna rilevanza, anzi rientra nella normalità data la sua assoluta superfluità. Così, solo per fare un esempio, è arma impiegabile in attività venatoria, anche se sulla scheda non è riportata la scritta in questione, la carabina iscritta in Catalogo al n. 11936 denominata Adler-Ak a funzionamento semiautomatico con caricatore da dieci colpi, il cui calibro (7,62x39) rientra a pieno titolo tra i dati metrici di quelli indicati dalla norma (trattasi, in sostanza, del fucile Kalashnikov scioccamente accreditato per via mediatica nell’immaginario collettivo come arma dotata di particolare capacità lesiva – non è mai superfluo ripetere che la capacità lesiva è delle cartucce e non dell’arma – laddove in Catalogo sono iscritte altre armi senz’altro superiori sotto tale profilo, come il fucile Garand M1 in cal. 30.06, a funzionamento semiautomatico, con caricatore a 8 colpi, iscritto al n. 6725 e per il quale viene inutilmente riportata l’annotazione di arma utilizzabile a fini venatori, o la carabina in cal. 308 Winchester, denominata Adler-Fal, a funzionamento semiautomatico, con caricatore da 10, iscritto al n. 8959, per il quale viene riportata l’identica annotazione. Peraltro tanto la prima arma (il fucile Kalashnikov) che quest’ultima (gemella del FAL-Fucile Automatico Leggero- in dotazione alle nostre truppe) provengono, come evidenziato nelle rispettive schede, da stabilimenti ed arsenali militari cinesi, romeni, bulgari, polacchi, ungheresi, russi, argentini, canadesi e brasiliani, che, dopo opportuna irreversibile eliminazione della loro funzione automatica (o a raffica), sono state iscritte in Catalogo, non differenziandosi più, a questo punto, dalle numerosissime armi lunghe semiautomatiche che vi sono state inserite.
E lo stesso discorso è a farsi per le armi catalogate come sportive che, prima di essere tali, sono armi comuni ed in tale qualità iscritte anzitutto sul Catalogo, (art. 2/ 3° c., L. 85/1986). Per esse, tuttavia, la specificazione appare necessaria in quanto è legata al numero detenibile e, cioè, sei. Non inganni l’espressione adoperata nel secondo comma della disposizione or ora indicata “ … che per le loro caratteristiche strutturali e meccaniche, si prestano esclusivamente allo specifico impiego nelle attività sportive. “ Essa è legata esclusivamente all’individuazione di tale tipologia di armi, ma una volta stabilitane la qualifica, non esiste alcun divieto di impiegarla – se muniti di valido porto d’armi per uso di caccia – in attività venatoria o per difesa personale. E non tragga altresì in inganno il contenuto del 5° comma dell’art. 13 cit., in ordine al divieto di uso di tutte le armi “non esplicitamente…ammessi (e) dal presente articolo”. L’indicazione completa infatti esplicitamente il riferimento riguardante le armi consentite che, nei commi precedenti, vengono prese in considerazione non per tipologia ma esclusivamente con riguardo al calibro, e vuole dire semplicemente che è vietato l’uso di armi che camerino cartucce in calibri diversi da quelli rispettivamente indicati per le canne ad anima liscia e per quelle ad anima rigata, ed altresì di quelli che hanno un modo ed una capacità di alimentazione diversi da quelli pure indicati nella norma. Diverso invece il senso da attribuire al divieto degli altri mezzi di caccia che è ristretto alla loro tipologia, ma non alla loro concreta individuazione. L’attività venatoria risulta consentita anche con l’arco ed il falco, ma non certamente con la balestra o con trappole di qualunque specie, data la tassatività dei due mezzi indicati. Ma lascia liberi, tuttavia, al loro interno, di adoperare qualunque tipologia di arco o qualunque animale facente parte della specifica famiglia. Di fatto, comunque, a proposito dell’impiego delle armi sportive, trattasi di situazioni difficilmente praticabili in ragione sia della loro pesantezza di canna priva di tacca di mira e di mirino, sia della loro sofisticata conformazione tecnico-strutturale esteriore che le rendono ingombranti e d’impaccio, e che contraddice con la caratteristica maneggevolezza che deve possedere un’arma da caccia, sia, infine, per le particolari meticolose attenzioni che vengono riservate a tali tipi di armi non tributabili sul terreno di caccia.
Come più sopra si è avuto modo di accennare, l’art. 13 cit. della legge sulla caccia basa l’individuazione generale dell’arma lunga adoperabile per fini venatori, o sull’esclusione di quelle che camerano cartucce superiori un determinato calibro, o sull’indicazione di determinati dati metrici di calibro entro i quali devono essere comprese le cartucce impiegabili nell’arma lunga. Il primo criterio viene riservato alle armi lunghe con canna ad anima liscia (non iscritte in Catalogo), le quali devono possedere anche determinati limiti correlati alla loro tecnica di alimentazione. Deve, cioè trattarsi di fucili che camerino munizioni di calibro non superiore al 12. Verrebbe semplice arguirne che sono vietati quelli con misurazione superiore a tale numero. E invece è tutto il contrario poiché – trattandosi di misurazione inglese effettuata in modo del tutto particolare - un calibro superiore al 12 risulta essere il cal. 10 ed inferiori invece i fucili nei calibri 16, 20, 24, 28, 32, 36 (quest’ultimo viene indicato anche in millesimi di pollice come cal. .410); e tali munizioni possono essere tanto spezzate che a palla, posto che, al riguardo, la norma non pone alcuna limitazione. Tra tali armi rientrano anche tutte quelle che camerino cartucce Flobert a percussione anulare (rimfire) nei calibri 6 mm. e 9 mm. (inferiori diametralmente al cal. 12) che, per l’appunto, sono a canna liscia. Quanto al secondo requisito, si richiede che deve trattarsi di armi che devono avere il caricatore con capacità di contenimento non superiore a due colpi. L’arma completamente carica risulterà pertanto dotata di tre cartucce: due nel caricatore ed una camerata pronta allo sparo. La limitazione del caricatore – rivolta al cacciatore e non al fabbricante - non deve intendersi in senso assoluto, ma deve essere realizzata in modo tale che non consenta di sparare più di tre colpi consecutivamente e che non consenta una reversibilità ad un maggiore numero di colpi in tempi compatibili con l’uso dell’arma sul terreno di caccia. Tale modo di intendere il concetto di irreversibilità (peraltro in sintonia con il fatto che trattasi di armi fabbricate per contenere nel serbatoio un maggior numero di colpi e che possono essere portate per difesa personale senza alcuna limitazione al riguardo) è senz’altro autorizzato dall’uso, in seno all’art. 13 cit., dell’espressione “con caricatore contenente non più di due cartucce”, di senso molto più ampio, quanto ai modi di realizzazione di tale situazione, rispetto all’espressione adoperata sotto il vigore della precedente normativa (L. 968/77) che richiedeva aprioristicamente l’esistenza di un “apposito accorgimento tecnico” che la rendesse tale. Ed una ulteriore conferma di ciò è rinvenibile con riguardo alle armi adoperabili nella zona faunistica delle Alpi (art. 13 cit., 4° comma) il cui caricatore deve essere “adattato” in modo da non contenere più di un colpo. Ed il concetto di adattamento evoca, per l’appunto, un’attività correlata alla realizzazione del fine per cui è imposto quell’uso specifico, ma non esclude il suo eventuale originario riadattamento, purché non in tempi compatibili con l’uso in tale ultimo assetto nel corso dello svolgimento dell’attività venatoria. Libere invece le modalità di alimentazione (purché non automatica) che l’arma deve possedere: manuale semplice (così nei fucili monocolpo, a canne giustapposte o sovrapposte), a ripetizione manuale (fucili a pompa), e a ripetizione semiautomatica (per rendere estremamente semplice il concetto di tale modo di alimentazione, dopo lo sparo della prima, la successiva munizione viene introdotta automaticamente in camera di cartuccia ma richiede, per essere sparata, una nuova pressione sul grilletto e così dicasi per la terza – l’arma automatica, introdotta la cartuccia in camera di scoppio, consente invece lo sparo di questa e quello consecutivo delle cartucce - che automaticamente prendono a seguire il posto della prima - alloggiate nel caricatore, attraverso una pressione continua esercitata sul grilletto).
Passando invece ai fucili con canna ad anima rigata (o alle carabine – nessuna differenza esiste tra tali manufatti sotto il profilo giuridico in quanto armi comuni tra loro equiparate giusta il contenuto dell’art. 2/1° c., lett. d, L. 110/75), anche per esse la modalità di alimentazione è libera (purché non automatica): quindi a caricamento singolo manuale (introduzione nella camera di cartuccia di una munizione per volta, come avviene sia nelle armi lunghe concepite senza caricatore, sia per quelle concepite con caricatore ma in cui la cartuccia deve essere deve essere introdotta in camera attraverso l’arretramento manuale dell’otturatore, che consente l’estrazione del bossolo di quella prima sparata, ed il trascinamento – nel corso della sua spinta manuale in avanti per effettuarne la chiusura – di quella successiva che si presenta alloggiata sul piano dell’elevatore del serbatoio), o a ripetizione semiautomatica (cioè, con lo stesso sistema descritto per le armi con canna ad anima liscia). Le munizioni per le quali sono predisposte le canne ad anima rigata sono per definizione quelle a palla, ove le rigature della canna sono funzionali all’impressione di un moto elicoidale funzionale alla realizzazione della massima precisione, ciò che è, per l’appunto, ipotizzabile con riguardo ad un proiettile unico con apice ad ogiva e, ovviamente, il cui uso è riservato agli animali di grossa mole, essendo estremamente difficile avere dei risultati positivi con riguardo a bersagli di piccole dimensioni in veloce movimento, come, ad es., i volatili o le piccole prede di terra, come conigli e lepri. Priva invece di alcun senso una tale predisposizione per le munizioni spezzate, per le quali la precisione richiesta al proiettile singolo è qui compensata da un’apertura a raggiera - massimamente favorita dall’anima liscia della canna - dello sciame dei pallini durante la loro corsa a causa dell’impatto con l’aria, che rende più facile attingere bersagli di piccole dimensioni in movimento. Ma, come si è detto, la caccia a bersagli di grossa mole viene anche esercitata con le armi lunghe ad anima liscia alimentate da munizioni a palla (anzi, statisticamente, sono le armi più diffuse per tale tipo di caccia); ma qui, la non eccessiva precisione del proiettile causata dall’adozione di tale tipologia di canna, viene compensata dall’uso di munizioni assemblate con palla non sferica ma, grosso modo, per rendere l’idea, con proiettile cilindrico con apice ogivale e dotato lungo il corpo di alette elicoidali utili anche per imprimergli una rotazione su sé stesso. Ma è altrettanto diffuso l’uso di munizioni spezzate costituite da pallini di grossa granitura (i c.d. pallettoni) che, anzi, si prestano ancora meglio ad attingere grosse prede in movimento.
A differenza delle armi lunghe con canna ad anima liscia, per quelle in trattazione la norma non impone alcuna limitazione quanto al numero dei colpi che possono essere contenuti dal serbatoio. In questo senso si è del resto espressa la giurisprudenza di legittimità che ha messo in luce l’estrema chiarezza al riguardo della norma (Cass. Pen., Sez. I, 29/7/1999, n. 1897), dissolvendo inoltre così qualche dubbio in contrario sollevato in relazione al contenuto dell’art. 8 della Direttiva C. E. E. 409/79 e dell’art. 8 della Convenzione di Berna, ratificata con legge 5/8/1981, n. 503, recepita ed attuata a prescindere dall’adozione di specifici atti normativi. La Suprema Corte, partendo invero dalla considerazione che la direttiva riguarda la conservazione degli uccelli selvatici, ha sottolineato che il divieto di utilizzo di armi semiautomatiche con caricatore contenente più di due colpi è prescritto “ solo relativamente alla caccia degli uccelli e non anche dei mammiferi ed, in particolare, degli ungulati, dal che può trarsi spunto per ritenere che l’interpretazione data alla norma di cui all’art. 13 co. 1 L. 157/92 non è contraria a norme o principi di diritto comunitario, dal momento che per la caccia ai primi viene abitualmente usato il fucile ad anima liscia, mentre per quella dei mammiferi i cacciatori adoperano quello ad anima rigata come la carabina “(Cass. Pen., Sez. III, 26/10/1999-6/12/1999, n. 3316, Vitali). Presupposto di tale principio – riportato in motivazione – è ovviamente che i fucili con canna ad anima rigata, camerati sempre con munizioni a palla unica, non possiedono la capacità di colpire più volatili contemporaneamente, capacità che invece hanno le armi con canna ad anima liscia per effetto dell’apertura a rosa dei pallini delle cartucce impiegabili esclusivamente in esse per tale tipo di caccia; ciò che spiega la limitazione del contenuto del caricatore a solo due colpi per tali armi.
Con riguardo alle armi con canna ad anima rigata, è richiesto in generale che il loro calibro (rectius: il calibro delle loro cartucce - esatta, quindi, solo l’espressione adoperata con riguardo alle armi con canna ad anima liscia) non sia inferiore a “millimetri 5,6 con bossolo a vuoto di altezza non inferiore a millimetri quaranta”. Pleonastica l’indicazione “a vuoto” perché con il termine “bossolo” viene indicato tale manufatto quando è privo di proiettile e, quindi, allorché è, per l’appunto, “vuoto .
Per quanto poi il tenore letterale della norma sembra riferire il termine “calibro” all’arma, in concreto esso fa sostanziale ed esclusivo riferimento alla cartuccia. Poiché, infatti, l’indicazione di una delle due metriche riguarda il bossolo della cartuccia, l’altra non può che essere necessariamente riferita al suo proiettile e, quindi, al suo diametro misurato in millimetri: donde, come si diceva, la sussistenza di una compiuta correlazione tra calibro di palla e cartuccia. Peraltro non avrebbe alcun senso stabilire una metrica che riguarda una ben individuata entità (l’arma) determinandola oltre che con dati che le sono propri con altri riferibili ad un’entità eterogenea (la cartuccia) che non è costitutiva della struttura della prima. Diverso sarebbe stato se il legislatore avesse indicato come correlato riferimento anziché la metrica del bossolo quella della camera di cartuccia, che è propria della struttura dell’arma. In conseguenza di ciò, la metrica afferente il calibro non avrebbe potuto che essere riferita a quello dell’arma, trovando così conferma in questa direzione il dato letterale espresso dalla norma. Ma anche se ciò fosse accaduto sarebbe stata realizzata una cosa priva anch’essa di senso logico per le seguenti ragioni. Non vi è dubbio, infatti, che la nozione tecnica di calibro è propria anche delle armi con canna ad anima rigata ed è la risultante della misurazione della distanza massima fra due pieni di rigatura. Ma quando si indica il calibro di un’arma come corrispondente a quello della cartuccia che camera si esprime un dato convenzionale che in realtà è del tutto fittizio, posto che il primo è sempre è in concreto sempre inferiore a quest’ultimo e viene così stabilito per esigenze di massima aderenza e tenuta pressoria del proiettile all’interno della canna subito dopo lo sparo. Così stando le cose – lontane anni luce dalla mente del legislatore che, nell’indicare tali metriche, aveva solo in mente di vietare l’uso del calibro . 22 L. R. ed, in conseguenza, delle relative armi che lo camerano, temendone un impiego a fini di bracconaggio notturno in ragione della bassa intensità sonora che producono al momento dello sparo – così stando le cose, si diceva, l’indicazione del calibro come riferibile all’arma sarebbe del tutto falsata e fuorviante rispetto a quello effettivo (del proiettile) della cartuccia, posto che la realizzazione del primo non corrisponde specularmene alle dimensioni metriche di quest’ultima, essendo invece correlato alla resa dei suoi effetti attraverso l’individuazione tecnica all’interno della canna di metriche inferiori. Questo stato di cose è del resto “canonizzato nelle decisioni della Commissione Internazionale Permanente istituita con la convenzione per il riconoscimento reciproco dei punzoni di prova delle armi da fuoco portatili adottata a Bruxelles l’1 Luglio 1969 e ratificata con L. 12/12/1973, n. 993. Nelle tavole dedicate alla materia, le metriche dei calibri delle cartucce impiegabili in un’arma, vengono tenute ben distinte da quelle possedute dal calibro di quest’ultima; in relazione alla quale vengono prese per di più in considerazione due misure: quella del diametro risultante tra la distanza fra due pieni di rigatura e quella esistente al fondo della rigatura. Cosicché, per restare in tema di munizioni cal. 22, mentre per esse viene annotato soltanto il diametro del proiettile rilevato all’altezza della bocca del bossolo che è pari a millimetri 5,72; per l’arma vengono invece annotate le due riferite misure rispettivamente pari a millimetri 5,38 e 5,58.
La misura del calibro che, in definitiva, assume rilevanza è esclusivamente quello della cartuccia: ed è proprio con questo calibro che viene contrassegnata l’individuazione dell’arma e non quelli rilevati ad altri effetti all’interno della sua canna. E le cose del resto non mutano nella sostanza se si prendono i calibri anglosassoni dei fucili con canna ad anima liscia: anche qui infatti la determinazione è legata, sia pure con altri criteri, al proiettile (intesa l’espressione in senso lato) e non all’anima della canna, posto che, quando si indica uno di questi calibri, si fa riferimento al numero di palle di piombo aventi un determinato diametro nominale che pesano una libbra inglese (l’espressione cal. 12 indica, per l’appunto, 12 palle di un determinato diametro il cui peso è uguale ad una libbra; e venti invece ce ne vogliono per raggiungere tale peso quando il riferimento è a palle di piombo il cui diametro stabilito convenzionalmente è inferiore: questo il significato della cifra 20 che contraddistingue l’omonimo calibro, e così via discorrendo per gli altri). E non è senza importanza rammentare, ai fini che qui interessano, che, quando si vuole progettare un’arma, la prima cosa che deve essere conosciuta è la consistenza ed il calibro della cartuccia che dovrà impiegare.
Al calibro nominale dei proiettili delle cartucce allude in definitiva l’indicazione metrica in millimetri riportata dalla norma con riguardo alle armi ad anima rigata; ed a quella della sua lunghezza in millimetri per ciò che concerne i loro bossoli.
L’individuazione della cartuccia impiegabile per fini venatori secondo i dati metrici indicati dalla norma trova la sua ragion d’essere – per come chiaramente indicato nei lavori preparatori e per come più sopra riferito – nella preoccupazione del legislatore di escludere dal novero delle munizioni da caccia quelle cartucce di calibro inferiore che, per l’effetto soffocato del rumore del loro sparo, avrebbero potuto trovare impiego, oltre che nel normale assetto di caccia, anche nell’attività di bracconaggio, che, svolta di solito nelle ore notturne, alle brevi distanze, a bersaglio fermo e con l’ausilio di fonti di illuminazioni artificiali. Indubbia, pertanto, la qualifica in linea di principio di munizioni da caccia spettante anche a tale tipologia di munizioni, preclusa in concreto dalla possibilità anche di un loro uso illegale. E pur se nell’indicazione di tali esigue metriche debbono essere comprese tutte le cartucce che le possiedono, di fatto il legislatore, nello stabilirle, aveva chiaramente fatto riferimento soltanto alle cartucce a percussione anulare e, segnatamente, a quelle in cal. .22 l.r. ed a quelle della stessa “famiglia” con lunghezza di bossolo inferiore (l’indicazione numerica .22 è resa in misura anglosassone con il significato di 22 centesimi di pollice di diametro di palla, ed è equivalente a 5,72 millimetri del sistema metrico decimale; la metrica esatta di esse è, pertanto, 5,72x15,57 secondo elaborazione C. I. P. - 15,57 è invece la lunghezza del bossolo).
Non sembra tuttavia che – così come sono state indicate nella norma - tali metriche interdittive consentano di realizzare in concreto la finalità cui tendeva il legislatore del ’92. Peraltro, anche se ciò fosse stato possibile, il risultato sarebbe stato raggiunto solo a metà. Basti riflettere al riguardo che - essendo il limite di uso delle munizioni con diametro di palla inferiore a 5,6 mm. e con bossolo inferiore a 40 millimetri previsto soltanto in relazione alle armi lunghe con canna ad anima rigata – esse risultano legittimamente impiegabili in fucili con canna ad anima liscia, posto che l’unico limite per queste è rappresentato dall’uso di munizioni superiori al cal. 12 e quelle in esame sono metricamente di gran lunga inferiori a tale calibro. Per non dire che è perfettamente legittimo l’uso delle munizioni a percussione anulare nei calibri 6 e 9 millimetri Flobert a palla ed a pallini legittimamente adoperabili nelle omologhe armi che sono, per l’appunto, dotate di canna ad anima liscia. E trattasi di cartucce ancora più “silenziose” di quelle in cal. .22, che, specie se adoperate a palla, sono idonee ad abbattere piccole prede poste alle brevi distanze. Peraltro il divieto dell’uso delle cartucce in cal. .22 L. R. (e di quelle appartenenti metricamente alla stessa “famiglia”) non vige con riguardo ai fucili c.d. combinati, risultanti cioè composti dall’assemblamento fino a tre canne, di cui una o due ad anima rigata. È l’ipotesi disciplinata dal 2° comma dell’art. 13 cit., ove, per l’appunto, - a differenza di ciò che disponeva al riguardo la legislazione previgente - viene consentito l’uso di tale tipologia di armi la cui canna (o le cui canne) canna ad anima rigata è sottoposta (o sono sottoposte) – a differenza di quel che dispone al riguardo il comma precedente – all’unico limite del diametro di palla che deve essere non inferiore a mm. 5,6, ma non anche a quello della lunghezza del bossolo; e tra queste cartucce rientrano proprio quelle in cal. .22 il cui diametro di palla è superiore a tale misura. Ma qui, avuto anche riguardo alla modifica normativa, l’apertura nei confronti di tale calibro non è accidentale o dovuta ad una dimenticanza del legislatore; anzi essa è in sintonia con le esigenze poste a base del divieto nel senso che non le contraddice, derivando dalla fondata constatazione che, nel caso di specie, l’uso di tale calibro è associato ad altri molto più consistenti in fatto di sonorità di sparo che evocano un loro uso legittimo, non finalizzabile, quindi, in linea di principio, ad una loro adozione per fini di bracconaggio (è piuttosto inverosimile l’ipotesi dell’acquisto di un combinato solo - od anche - per usare la canna che camera la cartuccia di bassa intensità sonora; più semplice acquistare un fucile, peraltro molto meno costoso, che cameri solo tale tipo di cartuccia).
Ma deve anche riflettersi su quanto possono considerarsi fondate le preoccupazioni del legislatore, posto che, in effetti, l’osservazione giudiziaria dei fenomeni di bracconaggio dimostra una realtà ben diversa essendo rivolta alla soppressione di prede di consistente mole (cinghiali, caprioli, daini, camosci, mufloni etc.) non abbattibile con l’uso di munizioni di piccolo calibro ma con quelle adoperate nel periodo della stagione venatoria. D’altro canto la cattura della selvaggina di modeste o piccole dimensioni viene affidata a mezzi che consentono la loro acquisizione senza contestuali rischi per chi vi è dedito ed in un numero più elevato rispetto all’uso di un fucile, per di più caricato a palla. Peraltro l’uso delle cartucce in cal. .22 per l’attività venatoria è consentito in tutti i paesi europei, in alcuni dei quali – in controtendenza alle preoccupazioni del nostro legislatore - è allo studio la problematica sull’impatto ambientale – di fatto difficilmente risolvibile per intuibili ragioni – delle conseguenze riguardanti l’intensità sonora provocata dallo sparo delle armi delle armi da fuoco.
Ma, come si diceva, le metriche così come indicate dalla norma non consentono in ogni caso di realizzare il proposito avuto di mira dal legislatore. Ciò in diretta dipendenza del modo con cui deve essere interpretata l’espressione che li riguarda. Si è fatta questione, invero, se i parametri indicati dal primo comma del’art. 13 cit. debbano coesistere o ricorrere alternativamente, datosi che, nel primo caso, rimarrebbero escluse sia tutte quelle munizioni a percussione centrale che, pur avendo un proiettile di diametro uguale o superiore a 5, 6 mm., risultano assemblate a bossoli aventi un’altezza inferiore a 40 millimetri, e che certamente il legislatore non aveva alcuna intenzione di proibire essendo adoperate da tempo per l’attività venatoria in numerose armi messe in commercio per tale finalità (come le munizioni in cal. 44 Mg.), sia quelle a percussione centrale che, pur avendo un proiettile di diametro inferiore a 5, 6 mm, risultano assemblate a bossoli aventi un’altezza superiore a 40 millimetri, ristrette in concreto a pochissimi calibri commerciali tra i quali il 5x57 DWM, il . 17 Remington (4,31x45,4), la cui adozione non frustra le preoccupazioni del legislatore dato che esse sviluppano, in ragione del maggior quantitativo di polvere da sparo impiegata, una sonorità tale da renderla inconciliabile con un uso che presuppone invece una bassa percezione. L’interpretazione più ragionevole da accreditare è pertanto certamente la seconda, e cioè quella di considerare le metriche in funzione alternativa, nel senso che è lecito per l’attività venatoria l’uso di ogni cartuccia camerabile in canne ad anima rigata il cui proiettile non sia inferiore ad un diametro di mm. 5,6, o il cui bossolo non sia inferiore a mm. 40. Di talché – non potendo formare rilievo ostativo la circostanza che trattasi di cartucce a percussione anulare in quanto tale caratteristica tecnica non è presa in alcuna considerazione dalla norma – è del tutto legittimo l’impiego di cartucce in cal. .22 L. R. (in uno a quelle della stessa “famiglia”) in fucili o carabine con canna ad anima rigata essendo il diametro del loro proiettile superiore a 5,6 mm..
In questi termini del resto si è espresso lo stesso Ministero dell’Interno (Circolare del 6/5/1997, n. 559/C-50. 065-E-97) quanto a criterio interpretativo dell’espressione adoperata dal legislatore in seno alla norma che si esamina, pur non potendosi condividere la sua ultima parte in quanto immotivatamente non adesiva alla specifica ragione di fondo che orientava il legislatore a proibire l’uso venatorio di determinate munizioni. Pertanto, mentre è da ritenersi conforme a tale orientamento la parte del parere che annovera tra i mezzi consentiti per l’esercizio dell’attività venatoria: “ a) i fucili ovvero le carabine con canna ad anima rigata a caricamento singolo manuale o a ripetizione semiautomatica, qualora siano in essi camerabili cartucce in cal. 5,6 millimetri con bossolo a vuoto di altezza uguale o superiore a millimetri 40; b) i fucili e le carabine dalle medesime caratteristiche tecnico-funzionali che utilizzano cartucce di calibro superiore a millimetri 5,6 anche se il bossolo a vuoto è di altezza inferiore a millimetri 40 “, (e, quindi, tra quest’ultime, anche le cartucce in cal. 22 L. R.), non altrettanto può dirsi, nella cennata direzione, l’affermazione secondo cui “ sono escluse dall’attività venatoria le armi che camerano cartucce di calibro inferiore a millimetri 5,6, a prescindere dalla lunghezza a vuoto del bossolo”, posto, come si è già detto indicando a titolo di esempio le cartucce in calibro 5x57 DWM ed il . 17 Remington (4,31x45,4), che il loro impiego non frustra le preoccupazioni del legislatore sviluppando le stesse, in ragione del maggior quantitativo di polvere da sparo impiegata, una sonorità tale da impedire il loro uso per l’attività di bracconaggio.
All’individuazione generale delle munizioni per armi lunghe adoperabili nell’esercizio venatorio, segue quella (2° comma) relativa all’uso di munizioni, per l’identico fine, nei fucili c.d. “combinati” realizzati con più di due canne in diversi calibri, e quelle adoperabili (4° comma) nella zona faunistica delle Alpi.
Quanto alle prime, essi devono risultare composti o da una canna ad anima liscia di calibro non superiore al 12 ed una ad anima rigata di calibro non inferiore a millimetri 5,6 (billing), oppure due canne ad anima liscia di calibro non superiore al 12 e da una ad anima rigata di calibro non inferiore a millimetri 5,6 o viceversa (drilling). Come si è già rilevato, una delle canne ad anima rigata di tale tipologia di armi può essere legittimamente destinata all’impiego di munizioni in cal. .22 L. R.. Piuttosto, poiché la tipologia di tali armi – che non possono essere tecnicamente realizzabili a funzionamento semiautomatico - è ristretta al “drilling”, non è possibile adoperare quale arma per l’attività venatoria il “vierling “, trattandosi di arma a quattro canne, che rientra, ai sensi del 5° comma dell’art. 13 cit., tra le armi vietate in quanto non contemplate “esplicitamente” dalla norma.
Quanto all’esercizio dell’attività venatoria in zona faunistica alpestre, per esso sono impiegabili tutti i fucili nei calibri indicati dal 1° e dal 2° comma dell’art. 13 cit., con la sola eccezione riguardante i fucili a ripetizione semiautomatica che devono possedere un caricatore adattato per contenere non più di una cartuccia (quindi l’arma non può essere dotata complessivamente di più di due munizioni, una in camera di cartuccia ed una nel caricatore).
All’esito delle considerazioni sin qui svolte, non sembra poter residuare alcun legittimo dubbio sul fatto che l’attività venatoria possa essere svolta con munizioni a palla unica, sia che esse siano camerate da fucili con canna ad anima rigata, sia che esse siano camerate da fucili con canna ad anima liscia. E, come si è detto, a palla erano le cartucce cal. 12 (calibro, quindi, legittimamente adoperabili per fini venatori) detenute dall’odierno imputato.
Detto ciò, e tenendo presente il contenuto dell’art. 26 della L. 110/75, comincia a diventare problematico trovare una particolare spiegazione sul trattamento giuridico riservato alle cartucce a palla rispetto alle munizioni spezzate, che, in numero di mille, possono essere detenute senza denuncia, obbligatoria, invece, per le prime ai sensi dell’art. 38 T.U.L.P.S.. Più specificamente, tale regime differenziato sembra non coperto da solidi criteri di ragionevolezza, al punto da far seriamente ipotizzare una violazione dell’art. 3 della Carta sotto il profilo della disparità di trattamento di situazioni giuridiche sostanzialmente identiche tra loro.
E dubbi non sembrano altresì sussistere sul fatto che le ragioni di favore enunciate dalla giurisprudenza di legittimità circa il favore riservato alle munizioni spezzate debba necessariamente valere anche per le munizioni a palla, in quanto anch’esse munizioni da caccia al pari delle prime: non possono, cioè, non sussistere anche per esse “le esigenze di utilità pratica” che hanno ispirato il trattamento speciale delle munizioni spezzate, per le quali il privato “viene affrancato da un faticoso adempimento di ‘routine’, con frequenze ossessive per i cacciatori, sia per la pubblica amministrazione, che, correlativamente, viene liberata dalle corrispondenti numerose pratiche burocratiche “ (n. 198407475, Innocenzi)
Ed in tali termini si esprimeva del resto la Corte Costituzionale, chiamata, quattro anni dopo, a pronunciarsi sulla questione già sottoposta alla Corte di Cassazione, dichiarando manifestamente infondata la pretesa differenza di trattamento tra il regime delle armi comuni da sparo (quanto a numero detenibile) e delle relative munizioni (sottoposte sempre ad obbligo di denuncia) da un lato, e le armi da caccia (detenibili in numero illimitato) e le correlate munizioni (esentate da denuncia fino al numero di mille) dall’altro, così, sul punto, motivando: “…Considerato che il diverso regime al quale è assoggettata la detenzione di armi da caccia e del relativo munizionamento rispetto a quello delle armi comuni da sparo (e delle munizioni di quest’ultime) trova giustificazione - come emerge dai lavori parlamentari (cfr. Atti Camera, VI legislatura, II Sottomissione, Seduta del 26 marzo 1975) – nell’esigenza di consentire ai cacciatori di poter cacciare diversi tipi di selvaggina;…”(Ord. n. 198800537). Del tutto evidente il passo in avanti compiuto dalla Consulta rispetto alla pronuncia della Corte di Cassazione, posto che la ragione dell’esenzione veniva estesa a tutte le munizioni (a palla e spezzate) e significativamente spiegata con la reale esigenza di un loro differenziato uso correlato al tipo di selvaggina da cacciare. Ed è innegabile che le munizioni a palla (unitamente a quelle spezzate a grossa granitura di diametro) vengono impiegate per la caccia alle grosse prede (cinghiali, daini, caprioli, mufloni) e quelle spezzate (a granitura più fine) per i volatili e per le prede di modesta dimensione. Ma il rilievo degno di sottolineatura è costituito dal richiamo in motivazione ai lavori preparatori (già oggetto di ampia illustrazione) dei quali veniva messo in rilievo il significato complessivo che dagli stessi traspariva e, cioè, l’orientamento ad esentare da denuncia ogni tipo di cartuccia da caccia (ed anche quello delle cartucce delle armi corte, seppur in numero inferiore), prescindendo dal fatto che tale volontà veniva poi tradotta nella norma, senza particolari o fondate ragioni, in modo riduttivo, facendo riferimento alle sole munizioni spezzate.
Di talché, come si diceva, la prospettata diversità di trattamento tra munizioni spezzate e munizioni a palla non può non apparire a questo punto manifestamente velleitaria e capricciosa e, quindi, irrazionale ed arbitaria. E la questione non ha certo il carattere di una mera speculazione dottrinale, dal momento che l'opzione per l'una o per l'altra ha importanti ripercussioni a livello applicativo in tema di sanzioni penali. Si tratta cioè di stabilire se nel novero della cartucce di cui parla la norma, vadano effettivamente comprese solo le cartucce a pallini, a prescindere dalla dimensione dei medesimi, oppure se, nello stesso numero, vadano ricomprese anche cartucce strutturalmente difformi dalle c.d. “munizioni spezzate”. Ne è dato di cogliere nella volontà legislativa un palese errore materiale basato sul distorto convincimento in base al quale l'attività venatoria viene svolta solo ed unicamente tramite l'ausilio di munizioni c.d. “spezzate” e, segnatamente, tramite cartucce a pallini, emergendo di tutta evidenza dai lavori preparatori il fatto notorio che l'attività venatoria viene svolta sul territorio nazionale sia con munizionamento c. d “spezzato”, sia con munizionamento c.d. “a palla singola”.
In sintonia con quanto sin qui rilevato, il Giudice per le indagini preliminari presso la Pretura di Matera (n. 790 Ordinanza – Atto di promovimento – 10 Maggio 1995, in G. U. n. 48 del 22/11/1995), accogliendo la richiesta subordinata avanzata in tal senso dal P. M. (quella principale concerneva l’archiviazione del procedimento), dichiarava rilevante e non manifestamente infondata la questione in esame deducendo tra l’altro che “…Tale differente regime, introdotto dall’art. 26 della legge n. 110/1975 ed avente immediato riflesso sulla configurabilità del reato ascrivibile all’imputato (art. 697 C.P. in rel. all’art. 38 t. u. P.S.), corrisponde a situazioni di fatto fra loro diseguali soltanto all’apparenza ma del tutto omologabili quanto alla sostanza, ossia alla ratio che presiede all’art. 26 cit. e che si individua nella volontà legislativa di allentare i controlli di polizia in considerazioni di circostanze più favorevoli e rassicuranti quali: lo stretto rapporto funzionale tra le munizioni e l’arma (già denunciata), la specifica destinazione venatoria delle cartucce, l’essere queste, entro un dato limite numerico, la normale dotazione dell’arma. La normativa in esame (art. 26 della legge n. 110/1975) sembra pertanto contrapporsi al principio di ragionevolezza sancito dall’art. 3 della Costituzione. Tale principio, secondo gli orientamenti espressi dalla Corte regolatrice, comporta l’inammissibilità di un trattamento normativo differenziato quando, pur a fronte di situazioni di fatto difformi, identica sia la finalità della legge considerata”.
A fronte di argomentazioni cosi chiare e convincenti circa la sussistenza della prospettata illegittimità costituzionale, era legittimo attendersi una pronuncia conforme alle ragioni della dedotta questione, specie alla stregua del contenuto della precedente pronuncia della stessa Corte che, nel motivare, aveva attinto anche ai lavori preparatori.
Al contrario, la Corte Costituzionale non ravvisava alcun profilo di illegittimità sulla base delle seguenti argomentazioni: “…Considerato che la materia della detenzione di armi e munizioni è, dallo Stato, assoggettata a controlli severi, al fine di una rigorosa protezione della sicurezza collettiva;
che il diverso regime al quale è sottoposto il possessore di armi regolarmente denunciate, che detenga munizioni per arma comune da sparo non eccedenti la dotazione di 1000 cartucce a pallini per fucili da caccia, rispetto al possessore di arma da caccia, del pari denunciata, che detenga però cartucce a palla unica entro i medesimi limiti numerici, è frutto di una valutazione compiuta dal legislatore in ordine alla maggiore pericolosità ed offensività delle cartucce a palla unica, usate per la caccia alle grosse prede, rispetto alle munizioni “spezzate”, utilizzate per la caccia di prede più piccole. Valutazione, questa, che, non apparendo arbitraria o irrazionale, non può essere censurata da questa Corte;…”
Numerosi e di varia natura i rilievi che possono essere mossi al costrutto motivazionale, per la verità fragilissimo, quando non destituito di reale fondamento, con il quale il Giudice delle Leggi riteneva inammissibile la questione.
Quello di carattere generale concerne l’avere omesso la Corte di considerare, sotto il profilo tecnico-giuridico, che l'art. 26, L. 110/75 non va visto come norma a sé stante, ma in stretta correlazione con l'art. 13, L. 157/92 cit. il quale, riferendosi ai mezzi per l'esercizio dell'attività venatoria, li individua espressamente nei fucili con canna ad anima liscia e nei fucili con canna ad anima rigata ed in tutte le munizioni (a palla e spezzate) che, in determinati calibri, vi vengono impiegate: in altri termini, l’avere omesso che l'art. 26 della L. 110/75 cit. andava esaminato in posizione integrativa con l'art. 13, L. 157/92 cit.. Se si fosse preso atto di ciò e, cioè, che le due norme costituiscono parti di un unico reticolato normativo, il loro collegamento non avrebbe potuto che dar luogo a due scontate conclusioni: o nel senso che l'art. 13 della legge sulla caccia integra l'art. 26 della L. 110/75 cit., espandendone la portata, e riferendosi così a tutte le munizioni per impiego venatorio oggi esistenti sul mercato; oppure, nel senso che, stante il principio di cronologia delle fonti, l'art. 13, L. 157/92 abroga l'art. 26, L. 110/75 nel punto in cui vengono indicate le sole munizioni spezzate, con la conseguenza che non vanno denunciate le munizioni che possono essere impiegate nelle armi enucleate dall'art. 13 medesimo, e, quindi, tutte le munizioni da caccia. E qualsiasi strada si fosse seguita, la conclusione sarebbe stata sempre una, e, cioè, quella che non sussiste obbligo di denuncia se le cartucce sono destinate all'attività venatoria, a prescindere da quello che può essere il loro profilo strutturale.
Un primo rilievo specifico concerne invece il richiamo in motivazione in veste di premessa che la detenzione di armi e munizioni è assoggettata dal legislatore a severi controlli per la sicurezza della protezione collettiva: non si coglie proprio alcuna connessione o correlazione con la materia in argomento, collocata dallo stesso legislatore in posizione di favore rispetto all’ordinario regime di detenzione, ed avuto riguardo che la questione riguardava esclusivamente munizioni (quelle a palla) che sono indubitabilmente da caccia; ed essa soltanto costituiva il punto centrale del giudizio, e non certo la prima.
Un secondo rilievo è di ordine tecnico e concerne l’erronea affermazione che le cartucce a palla unica vengono adoperate per le grosse prede e quelle spezzate per quelle più piccole, posto che anche quelle spezzate a massima granitura vengono adoperate per la caccia alle prime (sono le c.d. cartucce a pallettoni, rientranti nella tipologia delle munizioni spezzate) e con più frequenza di quelle a palla unica per le maggiori probabilità che offrono di attingere la preda in movimento.
Un terzo ed ultimo rilievo, il più consistente, concerne la ragione su cui è stata fondata la pronuncia di infondatezza, e cioè la non arbitrarietà o irrazionalità del trattamento differenziato delle munizioni a palla in quanto considerate dal legislatore di maggiore pericolosità rispetto a quelle spezzate. Trattasi di affermazione destituita di fondamento sotto un duplice profilo.
Il primo, che è di natura medico-scientifica.
Anzitutto le espressioni “pericolosità“ ed “offensività“ vanno opportunamente sostituite, in ragione della loro genericità, insignificanza ed inidoneità ad esprimere sotto l’aspetto scientifico (ma anche sotto quello giuridico) una nozione concreta, con il termine “capacità lesiva“ o, più tecnicamente, con quello di “capacità di un agente balistico di generare fenomeni di necrosi tissutale”.
È notorio poi il fatto che, essendo i pallini aerodinamicamente inefficienti, nel senso che perdono rapidamente velocità a causa della loro forma (a prescindere dalla loro effettiva dimensione), essi risultano balisticamente inferiori rispetto alle munizioni “a palla singola“. In altri termini, dal momento che le munizioni c.d. “a palla singola” sono in grado di conservare meglio la propria velocità rispetto alle munizioni “spezzate“, le prime potranno colpire un bersaglio con effetti letali a distanze maggiori rispetto alle seconde. Questo farebbe propendere, in prima analisi, per una superiore pericolosità delle munizioni “a palla singola” rispetto a quelle di tipo “spezzato”. Ora, se si guarda la questione dal punto di vista realistico e dell'applicazione pratica, cioè concentrandosi sulla lesività che una data munizione può sviluppare alle distanze operative tipiche del contesto venatorio, la prospettiva della questione cambia radicalmente. Ragionando in questi termini, e soffermandosi ad analizzare la lesività (o idoneità concreta della munizione a originare fenomeni di necrosi tissutale) delle due tipologie di munizioni, si potrà notare che le munizioni c.d. “spezzate” sono estremamente lesive rispetto a quelle a palla. Costituisce invero un fatto notorio nella moderna scienza medica, il fatto che alle distanze brevi (coincidenti per il più con quelle dell’assetto venatorio) le munizioni c.d. “spezzate” originano un particolare fenomeno lesivo denominato fenomeno ablativo, consistente nella violenta asportazione di porzioni più o meno grandi di tessuto in seguito all'impatto con una massa informe di piombo (c.d. rosa). Il fatto che questo particolare effetto lesivo rende le connesse lesioni spesso mortali, è indice certo dell'elevata pericolosità delle munizioni c.d. spezzate. Per questo motivo, l’affermazione in base alla quale le munizioni c.d. “a pallini” sarebbero meno pericolose rispetto a quelle c.d. “a palla singola”, assunta dalla Corte nel contesto motivazionale della decisione, risulta destituita di fondamento.
Ed è preclusa altresì- volendosi sviscerare la questione sino in fondo - una distinzione in tal senso tra munizione a palla camerata da un fucile con canna ad anima liscia e munizione a palla camerata da canna ad anima rigata. Essendo ampiamente nota ogni irrilevanza sotto tale profilo della gittata inferiore della prima rispetto alla seconda (considerando sempre che, comunque, la palla della canna ad anima liscia, se sparata con la giusta angolazione percorre la considerevole distanza di oltre un chilometro a fronte dei due e più che è in grado di percorrere la palla sparata dalla canna rigata), va messo in evidenza che ogni questione non può che riguardare fenomeni residui di rimbalzo del proiettile, che, alle usuali distanze d’imbracciata, abbastanza contenute, sono pressoché identiche nell’uno e nell’altro caso sotto il profilo della loro capacità lesiva, avendo di solito il proiettile devoluto al primo impatto la maggior parte della sua energia.
Ma ammessa per un momento la maggiore pericolosità della palla unica rispetto alla munizione spezzata, è doveroso chiedersi – e si passa così all’esame del secondo profilo – da quale contesto legislativo il Giudice delle Leggi abbia tratto tale differenziata situazione, posto che non esiste alcuna norma giuridica che l’asseveri. E se si passa ad esaminare, così come aveva fatto la stessa Corte in occasione della precedente pronuncia, la storia della norma denunciata – unico sito, a questo punto, in cui poterla riscontrare – è agevole scorgervi la sua assoluta inesistenza, ed anzi che essa non era nemmeno l’ultimo pensiero del legislatore, il quale riteneva invece non necessario affrancare le munizioni a palla dalla denuncia di cui all’art. 38 T.U.L.P.S. perché, fatta eccezione per i camosci, non esisteva altro tipo di caccia che necessitasse dell’uso delle munizioni a palla. Questo infatti il contenuto dei lavori preparatori sul punto: “…Per quanto riguarda le canne ad anima rigata, vorrei far presente che in Italia, se si eccettuano i camosci, che per la verità sono rarissimi, non esiste alcun tipo di caccia che necessiti di questo tipo di arma…. “.
Non si può che prendere atto della poca conoscenza in capo al componente la Commissione della diversa situazione riguardante le specie cacciabili, costituita invece anche da caprioli, cervi, daini, mufloni e cinghiali; ed al riguardo sarebbe stato sufficiente consultare l’art. 2 della L. 2/8/1967, n. 799 come modificato dalla legge n. 1016 del 1939. Ma quel che invece deve essere rilevato è l’errata impostazione della questione, posto che quel che poteva rilevare in merito non era l’entità numerica delle specie cacciabili ma quella dei cacciatori che esercitano l’attività venatoria utilizzando le munizioni a palla unica: che, in verità, erano (e sono) la maggior parte e, certamente, con riguardo alla caccia al cinghiale che è la più frequente.
Peraltro, come può evincersi dal contenuto delle riportate argomentazioni preparatorie – inesatte anche sotto il profilo oggettivo in quanto l’esenzione riguardava le munizioni e non le armi –, esse risultano ristrette a quelle a palla unica per fucili con canna ad anima rigata, con la conseguenza di dover ravvisare in tale limitazione una precisa volontà di considerare implicitamente affrancate da denuncia quelle a palla per fucili con canna ad anima liscia, a prescindere dal monco contenuto con cui veniva resa maldestramente la norma nel suo assetto definitivo.
Si deve quindi osservare conclusivamente che se il Giudice delle Leggi avesse valutato la questione sottoposta al suo giudizio alla stregua delle emergenze sin qui passate in rassegna, certamente la sua decisione sarebbe stata di contenuto contrario o, quanto meno, di non fondatezza correlata alla possibilità di un’interpretazione sistematica delle due norme attraverso una lettura delle stesse costituzionalmente orientata.
Ed in tale ultima prospettiva ha ritenuto di porsi questo decidente, affrontando conseguentemente il merito della vicenda e ritenendo perciò superfluo investire della stessa la Corte Costituzionale.
In questa direzione, tutte le argomentazioni svolte convergono unidirezionalmente per ritenere comprese tra le 1000 cartucce da caccia esentate da denuncia di cui all’art. 26 della L. 110/75, come integrato dal contenuto dell’art. 13 della Legge sulla Caccia, anche le munizioni a palla come sopra individuate, camerate sia dai fucili a canna ad anima liscia sia da quelli con canna ad anima rigata impiegabili in attività venatoria. Ribadendosi la precisazione che se la tipologia di munizioni che viene in considerazione è quella impiegabile solo in via particolare in attività venatoria, essendo stata concepita per arma corta, l’esenzione non potrà che riguardare un numero di munizioni non superiore a duecento unità, questo essendo il numero massimo detenibile in assenza della licenza prefettizia di cui all’art. 97/3 comma del Regolamento di esecuzione del T.U.L.P.S..
Di talché, alla stregua delle considerazioni svolte appare pertanto conforme a giustizia mandare assolto l’imputato dal reato ascrittogli con la formula sopra menzionata.
Consegue, ai sensi dell’art. 262 C.P. p., il dissequestro e la restituzione al **** delle munizioni in giudiziale sequestro.
P. T. M.
Visto l'art. 530, 1° c., C.P.P., assolve **** Giovanni dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste.
Visto l’art. 262 C.P.P., ordina il dissequestro delle munizioni in giudiziale sequestro e la restituzione delle stesse al **** Giovanni.
Lanusei 11 Ottobre 2005.
Il Presidente est.
email - Edoardo Mori |
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