Università di Firenze - Tesi di Laurea in Storia Medievale di
LAURA BERTONCINI

IL MONDO RURALE PONTREMOLESE NEL XV SECOLO

Relatore: Chiar.mo Prof. Giovanni Cherubini Anno accademico 1995/96

PREMESSA
1. La Lunigiana
2. Le fonti
3. La ricerca

I - SOCIETÀ ED ISTITUZIONI PONTREMOLESI NEL XV SECOLO
1. Le origini
2. Il burgus
3. L'ordinamento del comune
4. La situazione finanziaria
5. I burgenses e i districtuales
6. La cultura

II - INSEDIAMENTI, AGRICOLTURA E SFRUTTAMENTO DEGLI INCOLTI
1. Gli insediamenti
2. L'attività agricola
3. L'allevamento
4. L'apicoltura
5. La pesca e la caccia
6. Il legname

III - LE PRINCIPALI COLTIVAZIONI AGRARIE
1. I cereali e i legumi
2. La vite
3. L'olivo
4. La castagna
5. La canapa e la produzione tessile

IV - LA CASA
1. L'esterno
2. L'interno
3. Il vestiario
4. Il mulino

V - BIBLIOGRAFIA

PREMESSA

1. La Lunigiana

Territorio - cerniera tra la pianura Padana, la Liguria e il Tirreno, la Lunigiana è una regione prevalentemente montuosa, caratterizzata da un succedersi di valli che si staccano dal crinale appenninico e attraversata da numerosi e facili valichi. Già in epoca preistorica le valli della Lunigiana dovettero essere attraversate da percorsi di crinale e in epoca romana, sulla direttrice del corso della Magra, correvano le vie di collegamento tra Luni, Parma e Piacenza, come hanno provato i recenti scavi archeologici di Filattiera.
La caratteristica principale di questo territorio è sempre stata, nei secoli, quella di grande asse viario tra il nord e centro Italia.
Con il nome Lunigiana oggi si identifica la parte toscana del bacino del fiume Magra, con il territorio pontremolese compreso nella sua parte più settentrionale e una superficie di 975,59 kmq. Una piccola area geografica che, tuttavia, è caratterizzata da un sistema di valli, ciascuna con un proprio micro-clima che determina una estrema varietà di paesaggio. Il clima, tuttavia, è generalmente umido e ciò favorisce la crescita di una rigogliosa vegetazione, sia nelle piane alluvionali dei fondovalle che nelle colline e nelle praterie d'altitudine dell'Appennino, un tempo ricoperte da foreste di abete bianco e oggi da prati - pascolo e vaste brughiere di mirtilli. La copertura vegetale prevalente è ancora oggi quella del castagneto: negli scavi archeologici di Filattiera resti di focolare hanno dato grande abbondanza di carboni di castagno, il che ne lascia supporre un uso alimentare già diffuso nel VI secolo d. C.
Se per Lunigiana oggi si intende una piccola area geografica amministrativamente appartenente alla Toscana, la Lunigiana storica, viceversa, comprendeva un vasto territorio corrispondente a tutto il bacino del fiume Magra (Val di Vara compresa), ma anche a territori dell'alta Garfagnana e della montagna parmense.
Gli storici identificano la Lunigiana storica con il territorio del municipium della città romana di Luni [1]. Il nome Lunigiana si trova indicato per la prima volta in un documento del 1141, ma senza dubbio era già in uso da tempo derivando, attraverso una doppia forma suffissale, dal toponimo latino "Luna", colonia sorta alla foce del fiume Magra.
Il territorio lunigianese fu abitato già nel Paleolitico, ma soltanto nel Neolitico, nell'età del ferro e nell'età del bronzo le popolazioni liguri - apuane dovettero raggiungere un alto grado di civiltà, di cui resta testimonianza nelle statue - stele: rappresentazioni in pietra di guerrieri armati di asce, pugnali e lance e di donne con seni prosperosi e monili. Il fenomeno culturale delle statue - stele si estinse alle soglie della romanizzazione, forse proprio quando i romani riuscirono a sconfiggere definitivamente le tribù locali, deportando poi nel Sannio 5000 liguri - apuani [2].
Con i bizantini la Lunigiana entrò a far parte della "Provincia Maritima Italorum" e fu uno dei territori cardine del "Limes" di difesa, come è documentato dagli scavi di Filattiera. Luni e il suo territorio nel 664 caddero nelle mani dei longobardi di Rotari. Dopo la sconfitta dei longobardi, ad opera di Carlo Magno, gli Obertenghi ottennero l'investitura feudale della Lunigiana e tra le varie famiglie obertenghe il ruolo preponderante lo assunsero i Malaspina [3].
Dopo aver avuto conferma dei propri possessi in Lunigiana da Federico Barbarossa, i Malaspina, nel primo decennio del XIII secolo, iniziarono azioni di guerra contro i vescovi - conti di Luni e nel 1206 furono bloccati a Caprigliola dal vescovo Gualtiero, non riuscendo ad occupare la piana di Luni [4]. Il principale atto politico dei Malaspina fu, nel 1221, la divisione della Lunigiana in due parti: la sponda destra, con capoluogo Mulazzo, a Corrado che mantenne lo stemma dello spino secco; la sponda sinistra a Guglielmo che assunse lo stemma dello spino fiorito. L'aver diviso in due la Lunigiana fu il primo errore politico dei Malaspina, al quale si aggiunse la frammentazione del territorio in una miriade di piccoli feudi autonomi, fatto dovuto alla fedeltà alla legge longobarda di successione che prevedeva la suddivisione dell'asse ereditario tra tutti i figli legittimi.
Durante il dominio malaspiniano non sorse un centro egemone, capace di attrarre attorno al proprio mercato la vita economica e sociale di tutta la vallata. Solo Pontremoli (a nord) e Sarzana (a sud) crebbero come liberi comuni, sottraendosi al dominio malaspiniano [5].
Nel XV secolo, periodo preso in esame nella tesi, l'importanza dei Malaspina non ha più nulla a che vedere con quella ricordata da Dante nel canto VIII del Purgatorio:

oh - diss'io- per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch'ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i signori e grida la contrada,
si che ne sa chi non vi fu ancora [6]
.
La Lunigiana ha ormai perso la propria autonomia politica: è preda delle mire delle signorie, teatro di battaglia di eserciti e compagnie di ventura, passaggio continuo di truppe dalla Padana alla pianura toscana. Come ha scritto Germano Cavalli: non saranno più i Malaspina, non sarà più il vescovo di Luni, non sarà più quella folta schiera di feudalità che governava la Lunigiana o per conto proprio o in nome di qualche potentato, a fare la storia di Val di Magra, perché tutti dovranno entrare per forza nel gioco politico delle signorie italiane del quattrocento che si contendono in Lunigiana le chiavi della valle e diventano protagoniste della sua storia
I piccoli feudi malaspiniani, costituiti in comuni rurali, ben presto subirono gli attacchi e le lusinghe di Genova e Firenze. Firenze accolse in accomodigia diverse località, comprò feudi dai Malaspina. Genova attuò una politica di penetrazione in Lunigiana attraverso le potenti famiglie dei Centurione, Campofregoso e Brignole - Sale.
Milano fin dal 1339 ebbe il controllo di Pontremoli e un secolo dopo, nel 1430, le truppe viscontee di Nicolò Piccinino occuparono Carrara, Nicola, Moneta, Ortonovo, Fivizzano e Pontremoli. Filippo Maria Visconti mirava a fare della Lunigiana e in particolare di Pontremoli un punto di passaggio strategico verso la Toscana e per garantirsi la fedeltà della città approvò gli antichi ordinamenti, esonerò la comunità dal pagamento delle imposte e permise l'importazione di grano dalla Padana.
Firenze, che dal 1404 ebbe in possesso Caprigliola e Albiano, comunità che chiudevano lo sbocco della valle verso il mare di Luni, nel corso del XV secolo, estese il suo dominio su Fivizzano e Castiglione del Terziere .
Il campo d'indagine della tesi si colloca proprio nel XV secolo, all'epoca dell'inizio della decadenza malaspiniana, delle mire milanesi su Pontremoli, dei tentativi di Firenze e Genova di controllare parti importanti della Lunigiana solcata da vallate importanti ed attraversata da strade che erano ad un tempo vie militari e vie di commercio.

2. Le fonti

La tesi si propone di esaminare la società e le istituzioni pontremolesi nel secolo XV che vede la Lunigiana tutta entrare nelle mire delle grandi potenze del tempo e in particolare Pontremoli nell'orbita milanese. Tuttavia il mio lavoro prenderà in esame la vita agro-pastorale nell'ampio contado pontremolese così come ci appare dalla lettura delle fonti documentarie.
L'incendio del 1495, perpetrato a Pontremoli dagli svizzeri di Carlo VIII, ci ha privato di diversi documenti fra i quali i libri in cui venivano annotate le entrate provenienti dai dazi e dalle gabelle, alcuni contratti notarili, i cartolari indicanti la situazione economica dell'amministrazione e i libri dell'estimo anteriori al 1495, dai quali sarebbe stato possibile ricavare una radiografia abbastanza completa dell'economia e del mondo rurale pontremolese. Per tentare una ricostruzione della vita quotidiana e del significato che essa assumeva per la società e il singolo nella Pontremoli del XV secolo non mi è rimasto che prendere in esame le norme degli statuti relativi al commercio, all'artigianato e all'agricoltura, i libri dell'estimo del 1508, gli atti notarili di ser Girolamo Belmesseri e il "libro de croniche e memorie e amaystramento per l' avenire" dello speziale lunigianese Giovanni Antonio Da Faie.
 
a) Gli statuti
In origine contenevano gli obblighi e le regole che i consoli dovevano osservare nell' amministrare la giustizia civile e penale e perciò avevano valore solo durante la loro carica, ossia per un anno. La pratica di rivedere e correggere gli statuti ogni anno perdurò anche quando divennero vere leggi verso la metà del XIII secolo, poiché la materia degli statuti, ormai abbondante, era disordinata e confusa, s'incominciò a raccoglierla e a dividerla in libri.
Gli antichi statuti di Pontremoli non si sono più conservati, altro non resta che la riforma fattane nel 1391, al tempo di Giovanni Galeazzo Visconti, duca di Milano, che ci è giunta in alcune redazioni manoscritte più tarde poi date alle stampe dal Viotto, a Parma, nel 1571.
Il manoscritto, conservato nella biblioteca comunale di Pontremoli è composto da 186 carte numerate e da altre sei di introduzione, che comprendono lo stemma della città (foglio 1r), una lettera di Giovanni Antonio Bartolomei agli uomini della comunità (fogli 2 e 3r), un'altra lettera dello stesso Giovanni Antonio Bartolomei a Giacomo Vincenzo Stanco, pretore di Pontremoli (foglio 3v), i nomi dei giusperiti viventi (foglio 4r), i nomi dei notai più famosi che facevano parte del collegio notarile (foglio 4v), la deliberazione da parte del consiglio generale di dare alle stampe gli statuti (foglio 5r), l'indice del primo libro (foglio 5v e 6r) ed infine una lettera di Antonio Costa a Fabrizio Maraffi (foglio 6v).
Nei primi quattro libri vi si regola l'attività amministrativa e pubblica (libro I), la procedura giudiziaria e civile (libro II), il diritto penale (libro III) e la manutenzione delle opere pubbliche (libro IV). Il V libro elenca i libri del comune, il VI riporta i decreti del duca di Milano e il VII comprende le disposizioni sui danni apportati alla proprietà, sul consiglio dei dieci sapienti e sui bestemmiatori. La ripartizione è la seguente: libro primo, di 75 capitoli (dal foglio 1r al foglio 43r), libro secondo, di 21 capitoli (dal foglio 44r al foglio 65r), libro terzo, di 202 capitoli (dal foglio 44v al foglio 106r), libro quarto, di 71 capitoli (dal foglio 106v al foglio 118r), libro quinto, di 10 capitoli (dal foglio 118v al foglio 128r), libro sesto, di 83 capitoli più 3 carte (dal foglio 128v al foglio 168r) e libro settimo, di 13 capitoli (dal foglio 169r al foglio 186r).
 
b) L'estimo del 1508
Il paesaggio agrario di Pontremoli e delle sue ville si è potuto ricostruire analizzando l'estimo del 1508 (iniziato subito dopo l'incendio del 1495), conservato presso la sezione dell' archivio di stato di Massa, situata nel convento della Santissima Annunziata, a Pontremoli. Si tratta di cinque registri cartacei, rilegati in cartone con costa in pergamena, di cm. 26x35 e scritti in gotica notarile.
Il primo ha come numerazione di costa il numero 1 e come titolo "Pontremoli". E' formato da 320 carte di cui 291 scritte e le rimanenti bianche. Segue il registro con n.3 come numerazione di costa e dal titolo "Val Dantena e Pracchiola"; ha 249 carte di cui bianche 22. Quindi è stato preso in esame il registro n.4 con 30 carte bianche e 358 scritte e dal titolo "Zeri e Rossano". Per ultimi il n.5, dal titolo "Estimo 1508 del Verde", con 312 carte di cui 16 sono bianche e il n.8, dal titolo "Ponticello", con 22 carte bianche e 312 carte scritte.
L'estimo pontremolese, che veniva rinnovato ogni 25 anni, era un vero e proprio catasto. Le leggi comunali stabilivano che venissero descritti tutti i beni di cui ogni cittadino disponeva fatta eccezione soltanto di quelli strettamente necessari alla vita. Ogni proprietario era obbligato a denunciare l'esatta natura dei propri beni e il preciso ammontare del reddito dei beni stessi. In base a queste denunce, debitamente controllate dai pubblici ufficiali, si compilava e riportava nell'estimo catastale la descrizione di ogni bene, se ne calcolava il valore e si fissava l'imposta che ognuno doveva pagare. Nell'estimo sono precisati oltre alle generalità (nome, paternità e cognome) del possidente, la località soggetta ad estimo con i nomi dei confinanti, il tipo di terreno e le coltivazioni che vi venivano effettuate. Oltre alle terre a coltura risultano censite le case (per ogni domus, a prescindere da come fosse, dovevano essere pagate 40 lire), i mulini, i frantoi, gli alveari e gli animali posseduti e quelli tenuti dagli abitanti delle ville per i burgenses.
 
c) Gli atti notarili
Diversi, di diverso tipo (testamenti, inventari, donazioni, permute, precetti e altri negozi giuridici) e indispensabili per fornire uno spaccato della vita quotidiana, sono gli atti, conservati nell'archivio notarile di Pontremoli, del notaio Girolamo del fu Antonio di Corradino Belmesseri nato probabilmente intorno al 1432 e morto intorno al 1508. I Belmesseri discesero da Corradino della Serra (territorio dipendente dalla parrocchia di San Geminiano) notaio a Pontremoli verso la metà del XIV secolo. Era una famiglia di rango elevato e di probabile origine signorile che si diramò in vari casati nelle parrocchie di San Geminiano e di San Nicolò. Non pochi di essi si resero illustri negli studi e nelle lettere; il più famoso di tutti fu sicuramente Paolo Belmesseri che fu medico, teologo, poeta e caro amico di Clemente VII e di Francesco I. Gli atti di ser Girolamo Belmesseri sono stati rogati in maggioranza, nell'arco di 20 anni, nella vicinia di San Geminiano. Sono stati scritti in minuscola notarile e sono compresi in 14 filze rilegate in pergamena di cm. 31 x 1
 
d) LIBRO DE CRONICHE E MEMORIE E AMAYSTRAMENTO PER L'AVENIRE
Il manoscritto del Da Faie, che risale al XV secolo ed è conservato presso l'archivio di stato di Massa, è costituito da 63 carte; 35 furono trascritte e poi pubblicate, nel 1866, dall'avvocato Jacopo Bicchierai, le restanti 28 furono pubblicate da Giovanni Sforza nel 1904.
Giovanni Antonio Da Faie nacque a Malgrate di Villafranca in Lunigiana il 1 gennaio del 1409 e morì a Bagnone nel 1470. Fu calzolaio, speziale e scrittore. Viaggiò parecchio; da Bagnone è andato a Pontremoli quindi a Lucca, a Pisa, a Firenze, ma rimase comunque sempre legato alla sua terra: la Val di Magra. La terra che ha voluto descrivere nelle sue pagine era divisa in tanti piccoli feudi malaspiniani o in possessi di vari stati e viveva di agricoltura e di pastorizia. Il libro de croniche e memorie e amaystramento per l'avenire è quindi indispensabile per conoscere gli usi e costumi di un mondo contadino sempre minacciato dalle malvagità degli uomini e dalle avversità della natura. La lingua usata è quella parlata a Malgrate, a Bagnone, a Villafranca, è la lingua di un uomo di poca lettera, che non è integrale dialetto, ma neppure genuina lingua, ma che sicuramente riesce a dare della realtà che lo circonda un quadro essenziale, secco, immediato e molto espressivo.
Il principale limite delle fonti consultabili è dovuto al fatto che si tratta da una parte di norme statutarie, delle quali non sappiamo poi l'effettiva applicazione, dall'altra di estimi che fotografano una realtà patrimoniale, ma poco ci dicono ad esempio della vita quotidiana. L'affresco che si coglie della campagna pontremolese è quello che si intuisce dal collegamento tra norme statutarie e patrimoni delle singole comunità del contado, da una città che considerava la campagna come fonte di approvvigionamento di derrate (ma non fonte esclusiva, visto che il centro cittadino stava diventando centro di fiera e di mercati) la cui vendita era rigorosamente normata nei prezzi e nella qualità. Mancano i dati degli investimenti dei signori di città sulla campagna a differenza di quanto accade per i feudi di Groppoli, Tresana e Malgrate, dove i marchesi attuano una vera e propria politica di investimenti agrari, con organizzazione della maglia poderale, opere di bonifica, ristrutturazione delle case dei contadini.

3. La ricerca

Il fatto che Pontremoli sia sfuggita al controllo feudale dei Malaspina, sia stata libero comune e abbia avuto privilegi dalla signoria di Milano e dalla metà del XVII secolo da Firenze (troppo interessate al controllo di strade e commerci per turbare più di tanto la vita delle popolazioni locali) avrebbe potuto far ipotizzare uno sviluppo dell'agricoltura più avanzato rispetto alle tecniche di conduzione e alle produzioni dei confinanti piccoli feudi malaspiniani.
Nella lettura dei documenti ho cercato di cogliere gli elementi di diversità, rispetto alle notizie conosciute per il resto della Lunigiana, ma debbo dire, per quanto riguarda le comunità rurali, che non ne ho rintracciati di sostanziali. Ho cercato di indagare i rapporti tra città [9] e contado, in particolare l'atteggiamento della città nei confronti del contado, e la lettura dei documenti mi ha portato a mettere in evidenza come l'oligarchia cittadina abbia considerato i borghi del suo distretto in modo analogo a quanto i marchesi Malaspina consideravano le comunità rurali dei propri feudi.
Anche urbanisticamente il centro vedrà, dopo l'incendio ad opera delle milizie di Carlo VIII, crescere nuovi palazzi in muratura mentre le case del contado resteranno a lungo costruite in muri a secco e legname, poi in pietra e calce con tetti di paglia. Solo a partire dal XVI secolo le coperture di paglia saranno completamente sostituite da lastre di pietra e poi tegole. Se il centro di Pontremoli avrà mura, castello e torri, nel contado ci saranno al massimo torri di guardia; nella valle della Capria "case - torri" per ricoverare persone e beni in tempo di guerra, ma quasi mai troveremo paesi del contado cinti da mura, come invece accadeva in ogni piccolo paese - feudo dei Malaspina.
Uno degli elementi di novità di questa tesi, nell'ambito della storiografia locale, ritengo sia proprio l'aver esaminato le condizioni del contado, di cui quasi mai si sono occupati gli storici locali. Altro elemento di novità è costituito dall'attenzione per l'ambiente rurale e montano, attenzione che sembra quasi motivata dalla necessità di proteggere Pontremoli e la sua economia. Gli statuti, per fare un esempio, vietano il taglio degli abeti rossi (pielle): questa è una notizia interessante perché dimostra come questa essenza, oggi del tutto scomparsa e di cui restano tracce nella toponomastica (ospedale di Piellaborga), già nel XV secolo era in fase di estinzione.
Attenzione, quindi, per la protezione del bosco dal quale si ricavava legname per un artigianato che produceva mobilio (tanto che a Bratto fino alle soglie del XX secolo saranno attive botteghe per la produzione di sedie, divani e culle, con motivi decorativi noti come "stile pontremolese") e attrezzi per l'agricoltura. Si comprendono così le rigide misure per chi incendiava il bosco, mentre ancora si praticava la tecnica del debbio per fertilizzare i pascoli. E' singolare come la montagna pontremolese sia ancora oggi soggetta a numerosi incendi boschivi spesso causati da contadini che continuano a praticare le tecniche del debbio.
Dai documenti emerge, tra l'altro, l'importanza della coltivazione della vite, nella tecnica di allevamento che la voleva sviluppata in altezza e maritata a frassini, pioppi, olmi e aceri. Un sistema di allevamento che è giunto fino ai nostri giorni, anche se sopravvive solo negli antichi vigneti e che si può spiegare con il clima della zona, con nebbie e un settembre piuttosto freddo che rende talvolta difficile la maturazione dell'uva. Ma non era solo questo il motivo dell'allevamento della vite maritata all'albero. Le frasche delle piante venivano raccolte in mazzi, fatte essicare e poi utilizzate, durante l'inverno, come foraggio per gli animali. Ma l'utilizzo era "totale": una volta privati delle foglie secche, i mazzi di frasche venivano impiegati per scaldare i testi di terracotta per la preparazione del pane, delle torte di verdure, delle carni.
Un'ulteriore elemento di novità è costituito dall'allevamento del bestiame: era ipotizzabile che i vasti pascoli appenninici fossero interessati da una larga presenza di bovini, mentre i documenti ci dimostrano l'assoluta preponderanza di capre e pecore. Di conseguenza è da ritenere che i quattro tipi di formaggio che si vendevano sulla piazza di Pontremoli fossero formaggi di ovini e caprini, escluso quel formaggio secco di Compiano nel quale non è azzardato riconoscere il parmigiano. Una situazione, questa, che nel corso del XX secolo si è completamente ribaltata portando quasi alla scomparsa delle greggi e all'aumento dei bovini.
I documenti esaminati delineano, sostanzialmente, il quadro di un'economia rurale chiusa, mentre la presenza di un centro cittadino e la vicinanza con i territori padani poteva lasciar supporre un'economia di scambio più vivace anche nel settore agricolo - pastorale: in città arrivava grano dalla Padana, formaggio dall'Appennino parmense, ma i prodotti del contado potevano essere venduti solo a Pontremoli e ai residenti. Unica eccezione le castagne; la produzione era tale che ne era consentita l'esportazione e ancora oggi, nonostante lo spopolamento della montagna, la vendita di castagne (funghi e mirtilli) sui mercati del nord è la principale fonte di reddito dei contadini delle valli del Verde e della Valdantena.


I - SOCIETA' ED ISTITUZIONI PONTREMOLESI NEL XV SECOLO

1. Le origini

Pontremoli, che giace ai piedi dell' Appennino tosco-emiliano alla confluenza del fiume Magra con il torrente Verde, secondo Giovanni Sforza, anticamente sarebbe stata una delle mansiones romane che si costruivano sulle pubbliche strade alla distanza di una giornata di cammino per fermata o ricovero dei passeggeri. Altri [10] ritengono invece che sia l'erede della leggendaria città di Apua presunto capoluogo dei liguri apuani. Secondo Bernardino Campi (1656 -1716), il maggiore dei cronisti pontremolesi, Apua sarebbe stata distrutta nell'anno 261 dai germani; nei primi anni del V secolo, sarebbe stata messa a ferro e fuoco dai goti di Alarico; ricostruito, il borgo sarebbe stata a sua volta distrutto nell'anno 450 dagli unni di Attila e, dopo circa un secolo, ancora invaso dai goti di Totila [11].
Per quanto riguarda il toponimo "Pontremoli" alcuni pensano che derivi da un ponte tremulo fatto di legno nel 526 a.C., altri preferiscono che tragga nome e principio da Quinto Marzio Tremulo, console nel 306, che fece costruire un ponte per agevolare il passaggio degli eserciti romani contro i liguri e altri ancora sono convinti che il nome Pontremoli derivi da Treponzio che era un capitano d'Alarico[12]. Sicuramente la sua origine è legata alle lotte per la supremazia sui valichi e alla viabilità transappenninica che, nel versante toscano, fa appunto capo a Pontremoli.
L'importanza che ha avuto la viabilità per Pontremoli è testimoniata dagli statuti che scrivevano norme per garantire viaggi sicuri ai mercanti e ai viandanti il cui passaggio, attraverso la via della Cisa conosciuta anche come via di monte Bardone, Romea, Francigena, Lombarda o Pontremolese [13], era importante per l'economia della zona; dietro i pellegrini fluivano i commerci e quindi sulla strada si aprivano le taverne, i negozi, le stalle per i muli e per i cavalli e i magazzini per le merci.
Pontremoli è nominata per la prima volta in un itinerario di Sigerico, arcivescovo di Canterbury, scritto nell'anno 990 e poi in un atto di donazione di possessi e di diritti fatto nel 1014 dall'Imperatore Arrigo II alla abbazia di Leno, nel bresciano, in cui risulta che agli inizi del XII secolo Pontremoli era racchiusa tra mura e ricca di fortificazioni e politicamente indipendente [14].
La contesa tra la chiesa e l'impero, che scoppiò sotto Alessandro II e si fece ardentissima sotto Gregorio VII e i suoi successori, ebbe un eco per tutta l'Italia e non solo le città ma anche le terre e i castelli presero a parteggiare chi per il Pontefice e chi per l'Impero. Pontremoli fu tra i seguaci del Papato e lo affermò con i fatti nel 1110 quando si oppose ad Arrigo V, che era sceso in Italia per ricevere a Roma la corona imperiale; Arrigo, per poter proseguire, fu costretto ad espugnarla.
Nel 1167 sbarrò il passo a Federico I Barbarossa il quale, reduce dalla fallita impresa contro Roma, non osando attaccare Pontremoli, poiché dell' esercito non gli restavano che pochi uomini sgomenti e infermi, si limitò ad intraprendere un lungo e disagevole giro, guidato da Obizzo Malaspina, per raggiungere la Lombardia. A distruggere le mura di Pontremoli ci pensò Federico II nel 1239. Giunto per la strada di monte Bardone con quattrocento prigionieri e ostaggi lombardi e dubitando della fede dei pontremolesi, che forse non lo vedevano di buon occhio perché muoveva guerra alla chiesa, s'impadronì delle fortezze e dei parecchi castelli soggetti a Pontremoli e li fece custodire dai suoi. Volle inoltre sessanta ostaggi, scelti tra le famiglie migliori, e li portò con sé.
Con l'arrivo di Arrigo VII, all'inizio del XIV secolo, Pontremoli perse la sua autonomia; fu da questi concessa in feudo, col castello, i diritti e le giurisdizioni, alla famiglia Fieschi. Da quel momento Pontremoli passò di signoria in signoria e non trovò più la forza per tornare libero comune e riacquistare la perduta indipendenza. Dopo i Fieschi (1313 -1321) fu la volta di Castruccio degli Antelminelli (1321 -1328), quindi dei Rossi parmigiani (1329 -1336), dei Visconti (1341 -1403), per una seconda volta andò ai Fieschi (1404 -1430), nuovamente ai Visconti (1431-1441) e quindi agli Sforza (1441 -1499); restò inserita nel ducato milanese sino al 1650 quando venne acquistata a caro prezzo dal granducato di Toscana che vi insediò un proprio governatore.

2. Il Burgus

Per porre fine alle ostilità fra le due fazioni dei guelfi e dei ghibellini il borgo di Pontremoli venne diviso in due parti attraverso una fortezza che fu fatta erigere dal capitano lucchese Castruccio Castracani nel 1322 chiamata torre di Cacciaguerra. Si stabilì che a Cazaguerra supra (da piazza del Duomo a porta Parma) abitassero i guelfi e a Cazaguerra infra (da piazza della Repubblica a porta Fiorentina) i ghibellini [15]. A Cazaguerra infra troviamo anche il palazzo pretorio o del comune sotto il cui portico aveva sede la dogana che era gestita dall'appaltatore della gabella grossa cui confluivano, per l'assolvimento del dazio, tutte le merci provenienti dal distretto o da altro territorio. Questo palazzo venne a compimento tra la decadenza della libertà del comune e i tentativi delle prime dominazioni forestiere (XIV secolo).
Al lato sud del comune troviamo la chiesa di San Giovanni Battista, di origine benedettina, in seguito sostituita dalla chiesa di San Colombano che era in posizione più centrale e comunicava, tramite una porta detta arco dei Gualtieri, con l'attuale piazza della Repubblica. Sulla sinistra del Magra, a Imoborgo, vi era la fortezza di Castelnuovo, visibile ancora oggi anche se in parte modificata, con l'omonima porta munita di doppia saracinesca e ponte levatoio che la tradizione vuole che sia stata fatta costruire da re Enzo, su comando del padre, nel 1246 [16]. La parte più antica del borgo di Pontremoli è sicuramente quella del Piagnaro che comprende, oltre al castello, un insieme di case che dalla porta di San Giorgio, detta anche Suprema Burgi, si estendevano sino ad un'altra porta, oggi scomparsa, situata allo sbocco dello stretto vicolo che da via Garibaldi sale fino al castello. Nel quattrocento il castello era sicuramente un edificio di notevoli proporzioni e confortevole tanto che la comunità lo scelse come alloggio per il duca Galeazzo Maria Sforza e sua moglie che nel 1471 passarono per Pontremoli.

3. L'ordinamento del Comune

Nel XV secolo Pontremoli, come attestano anche le parole del Commnes, il memorialista di Carlo VIII che, parlando dell'incendio del 1495, scrive vint le roy vers Pontreme, car il estoit forcè d'y passer, et est à l'entrèe des montagnes. La ville et chasteau estoient assez bons, et en fort pais s'il y eust bon et gran nombre de gens, elle n'eust point esteè prise [17], il borgo presentava una struttura urbanistica allungata e fortificata a scopo difensivo; era circondato, come risulta dai libri dell'estimo del 1508 14, da 51 ville divise nel seguente modo :
ALTA VALLE DEL MAGRA E VALLE DEL CIVASOLA
Prachiola (22 fuochi), Gravagna (79 f.), Monslongus (13 f.), Succisa (56 f.), Cavezana Anthenae (42 f.), Cargalla (37 f.), Travirde (28 f.), Mignegnum (14 f.)
VALLI DEL GORDANA, DI ZERI E DI ROSSANO
Plebs et Costa Saliceti (34 f.), Telia et Syrollum (18 f.), Opiolum (23 f.), S.Cristophorum (15 f.), Caregiolam (30 f.), Toranum (66 f.), Arzelata (15 f.), Casteolium Rossani (22 f.), Piagna Rosani et Ecclesia (24 f.), Monslame et Vallis Rossani (51 f.), Clausum Rossani (10 f.), Collareta et Castrum Ziri (95 f.), Mezadura Ziri (16 f.), De Nuce (32 f.)
VALLE DEL VERDE
Bratum (23 f.), Bragia (16 f.), Navolla (24 f.), Santus Laurentius (11f) Montes et Baxilicha (29 f.), Anguinale (28 f.), Grondula (55 f.), Cervaria (52 f.), Morana Vignole (78 f.), Bassonum (50 f.), Quodulum (32 f.), Scoranum (12 f.), Dozanum (24 f.),Cavezana Gordane et Navalunga (9 f), Campulum (13 f.)
VALLI DELLA CAPRIA, DEL GORGOGLIONE ED ALTA VALDANTENA
Scorcetulum (5 f.), Ponteselum (25 f.), Canale (16 f.), Montelusium (21 f.), Summum Caprium (44 f.), Serravalle (28 f.), Vallis Dobiane Lusinum (55 f.), Ceretulum (29 f.), Arzengium (58 f.), Topelecha (31 f.), Versola (31 f.), Casalina (23 f.), Previdale (16 f.), Gropumtalosium (50 f.)
 
Il numero dei fuochi 15 del distretto di Pontremoli ammontava a 2066 e a questi vanno aggiunti i 407 del borgo oltre ad alcune famiglie di mendichi e di nullatenenti. Quindi, si è potuto ipotizzare, per la fine del XV secolo, una popolazione oscillante fra le 13.000 e le 15.000 unità. Indubbiamente la popolazione pontremolese diminuì dopo la peste del 1348, dopo le stragi compiute da Arrigo IV, ma determinante fu l'incendio perpetrato dagli svizzeri di Carlo VIII di Francia nel 1495 [18] il cui ricordo si trova ancora scolpito in una lastra di pietra arenaria posta in via Garibaldi nella facciata della casa Bini - Nadotti:
1495 \ hoc hanno domini in III \ diebus et III noctibus mensis iunii \ incensum est totum \ hoc oppidum ab \ Allamanis.
La Pontremoli quattocentesca era costituita da 6 vicinie 17. Partendo dalla porta di San Giorgio troviamo la vicinia di San Nicolò (62 fuochi), quella di San Geminiano (164 f.), quella di San Colombano (72 f.), Santa Cristina (38 f.), Carpanella (34 f.) e San Pietro (37 f.). L'abitato di Pontremoli era costituito a nord, subito fuori porta San Giorgio, dal quartiere di Terrarossa che era costituito dalle abitazioni degli artigiani, sulla sinistra del Magra da quello di borgo Vecchio, sulla sinistra del Verde da quello detto Bambarone e a sud quello di San Lazzaro [19].
I due principali istituti del governo comunale erano il consolato, che fu poi sostituito dal podestà e il consiglio generale.
Il podestà, che poi prese il nome di commissario ducale, rappresentava il principe ed amministrava la giustizia civile e penale. Nell'assumere quest'incarico giurava sul vangelo la piena osservanza degli obblighi impostigli dallo statuto tra i quali c'era quello di essere fidelis et amator del sacro romano impero e del comune di Pontremoli [20]. Aveva l'obbligo di non mangiare né bere con nessun pontremolese, di risiedere in Pontremoli e di uscire solo per le necessità del comune stesso. La sua carica durava sei mesi ma poteva essergli prorogato l'incarico fino ad un anno ed era assistito dal vicario, chiamato più comunemente giudice o assessore, che amministrava la giustizia civile e penale con l'ausilio di quattro notai per le cause civili e di due notai per le cause penali. Affinché il podestà osservasse i suoi doveri venne eletto un sindaco che aveva il compito di vigilare sul suo operato.
Il consiglio generale era costituito da un numero massimo di 80 membri, 40 del borgo (20 dei quali di Cazzaguerra Supra e 20 di Cazzaguerra Infra) e 40 delle ville. Aveva l'autorità di concedere ed assegnare tutti gli uffici per cui si reggeva il comune e l'autorità anche in tema di spese e di entrate relative all'amministazione della cosa pubblica. Il consiglio generale eleggeva inoltre appositi ufficiali, che duravano in carica sei mesi, con il compito di vigilare per contenere i prezzi dei generi di prima necessità, per assicurare l'osservanza delle norme igieniche e per controllare che commercianti ed artigiani svolgessero il proprio mestiere secondo regole precise.
I terminatori, per esempio, dovevano decidere le questioni di confine tra le proprietà terriere, delimitare le piazze, segnare i confini delle case e porre i confini sulle strade private. Tra membri del consiglio venivano scelti i dieci savi o sapienti che duravano in carica per un solo mese. La loro designazione avveniva per estrazione a sorte; venivano scritti dieci nomi diversi in quattro schede poi, alla fine di ogni mese, veniva estratta a sorte una scheda e i nomi scritti in essa erano i dieci savi per il mese successivo. Il loro compito era quello di controllare le spese del comune; nessuna spesa poteva essere portata all'approvazione del consiglio se non era stata approvata da almeno due terzi dei savi.
Altra magistratura era quella del massaro o tesoriere che restava in carica sei mesi ed aveva l'incarico di riscuotere tutte le entrate. A lui spettava anche la nomina dei due notai (uno di Cazzaguerra supra e uno di Cazzaguerra infra) che dovevano scrivere consilia, reformacione, sancimenta, statuta, ambasciatas et letteras, dei saltari ossia delle guardie campestri [21] e di quattro ragionieri boni et litterati. Questi, per volontà del podestà, erano tenuti a visitare le porte, i ponti levatoi e le fortificazioni di Pontremoli e dovevano intervenire nelle condanne per disubbidienze, debiti ed ingiurie.
Importante a Pontremoli era anche la presenza dei provisores viarum et pontium che provvedevano a far eseguire opere di manutenzione e di canalizzazione delle acque, ma facevano anche eseguire faticosi lavori di disboscamento affinché le strade fossero agibili. I provisores viarum avevano anche il compito, nel caso fosse stato necessario, di sostituire una via non più funzionale con una strada più nuova, di scegliere il nuovo tracciato, trattare con i proprietari del terreno da attraversare, convincere gli eventuali scontenti e provvedere quindi all'esecuzione dell'opera ripartendo le giornate di lavoro e le spese tra gli abitanti interessati.

4. La situazione finanziaria

Tenendo conto delle spese sostenute per la manutenzione delle opere pubbliche come strade ponti e fortezze, dei censi dovuti alle potenze dominanti e dei salari che mensilmente venivano dati agli ufficiali del comune non possiamo di certo pensare che la situazione finanziaria della comunità fosse florida [22].
Le entrate ordinarie della comunità erano di 600 fiorini all'anno e provenivano dal provento delle carceri, dalla baratteria, dalla gabella grossa e da altri servizi a pagamento. Dalla riscossione delle pene il comune traeva la maggior parte delle proprie entrate. Ogni reo doveva pagare una tassa proporzionata alla gravità del proprio delitto; chi veniva incarcerato doveva provvedere al proprio sostentamento e a pagare il salario dei sorveglianti e dei custodi.
La baratteria, messa all'incanto e data al miglior offerente, consisteva nel poter tenere pubblicamente giochi d'azzardo condotti in genere con dadi [23].
La gabella e la gabelletta erano pagate da tutti coloro che volevano vendere merci e prodotti. La gabelletta era pagata dai forestieri che venivano a Pontremoli nei giorni di mercato (mercoledì e sabato) a vendere le loro merci. I forestieri dovevano pagare anche per il transito e per il banco che dovevano mettere in piazza. Queste gabelle non erano richieste nei giorni di fiera e questo spiega il perché dell'arrivo dell'impressionante numero di persone per la fiera della Santissima Annunziata che durava ben 15 giorni. La fiera era anzitutto un luogo d'incontro di mercanti spesso venuti da molto lontano. Durava parecchi giorni perché alcuni erano necessari per la sballatura delle merci, altri per la locazione dei banchi e per la vendita e altri ancora per la regolazione dei conti [24].

5. I burgenses e i districtuales

Pontremoli, appena divenne comune autonomo, si atteggiò subito a città e dall'alto delle sue torri guardava i campagnoli, villani o rurales come un popolo vinto escludendolo quindi da ogni benefizio e ingerenza di governo [25]. Questa situazione durò a Pontremoli sino alla riforma statutaria del 1579 quando ai rurales vennero concessi alcuni diritti [26].
Gli appezzamenti terrieri pertinenti alle case del borgo presero il nome di donnicati, il restante si chiamò distretto. Le norme facevano una distinzione fra donnicata burgensium prope burgum e donnicata burgensium in pertinentiis castrorum et villarum.
I primi sono costituiti da quella superficie di terreno ad uso agricolo attorno al borgo che è delimitata da precisi confini descritti nello statuto ed ha lo stesso valore giuridico del suburbium. Gli altri sono collocati nel territorio oltre la fascia dei donnicata prope burgum e sono costituiti da oltre 51 nuclei abitati; è il distretto per antonomasia. Il distretto, come confine politico, ad est ed a nord aveva il territorio parmense, ad ovest la repubblica di Genova, a sud il torrente Teglia che lo divideva dai feudi malaspiniani di Suvero, di Montereggio, di Pozzo e Castagnetoli e la Capria che segnava il confine con il feudo malaspiniano di Filattiera e con il territorio della Rocca Sigillina.
L'esercizio della potestà suprema su tutta la campagna apparteneva al borgo. Questo sorse come prolungamento del primitivo abitato del castello che quasi sicuramente era limitato presso a poco al quartiere del Piagnaro [27]. Esso crebbe per via di successivi insediamenti di popolazione costituiti sia da elementi signorili provenienti dal contado sia da gente dei castelli vicini, alloderi, mercanti, artigiani, ecc. costituenti, insieme con quelli già esistenti nel castello, quel ceto medio corrispondente politicamente al populus.
Gli statuti affermavano in continuazione la priorità del centro urbano, sede dei burgenses, sugli abitanti della campagna sede dei districtuales 33. Gli statuti vietavano di costruire, di abitare e di tenere qualsiasi animale che pascolasse nei donnicata, di piantarvi alberi di alto fusto o arbusti che creassero grosse macchie, ordinavano inoltre che fossero abbattuti gli alberi non fruttiferi e che fossero tenuti orti e alberi da frutto per l' approvvigionamento del borgo. Soltanto l'acquisizione dello status di burgense dava la possibilità di avere una casa nel borgo allo stesso modo in cui le terre dei donnicata prope burgum potevano appartenere ai soli componenti di questo ceto [28].
Soltanto i burgenses componevano il consilium, facevano gli statuti, eleggevano il podestà e tutti gli ufficiali del comune e amministravano i beni comunali. Tra i districtuales benestanti e proprietari terrieri venivano eletti i consoli con compiti di polizia criminale. Avevano inoltre il compito di rappresentare la loro comunità nei negotia e nelle cause per le questioni civili e di condurre nel borgo, ogni volta che il podestà ne facesse richiesta, gli uomini armati per la difesa in caso di guerra.
Nel pontremolese, oltre ai coltivatori diretti, vi erano i districtuales che prendevano terreni in affitto oppure a mezzadria. Costoro dovevano coltivare i terreni loro affidati, spartire equamente prodotti con il padrone, raccogliere le messi, i frutti e vendemmiare alla presenza del proprietario.
Gli affittuari erano obbligati a praestare pensiones, redditus et mezariam a scadenze prestabilite. Inoltre se avessero preso biade, vino, olio e frutti dai servi, senza il consenso del proprietario, avrebbero dovuto pagare una multa.
C'erano anche coloro che lavoravano a giornata; qualora questi non si fossero presentati al lavoro avrebbero dovuto pagare una multa di dieci soldi. Se, al contrario, il padrone fosse venuto meno alla parola data avrebbe dovuto pagare al lavorante la giornata e rimborsarlo.
Al fondo della scala della società civile ci sono gli uomini non liberi, i villani come li chiama lo statuto. I loro domini hanno plena potestas versus eos et in eos et de eis honeste facere quod voluerint, possono cioè fare di essi quello che vogliono. Ogni contratto fatto da un villano, senza il consenso del dominus, è considerato nullo. I villani di un determinato dominus possono essere usucapiti da un altro se per dieci anni restano a lavorare sulle tenute di quest'ultimo senza che il primo li richiami a sé. Se il comportamento del dominus non è onesto può intervenire il podestà che ha la facoltà di liberare il villano il quale può continuare a lavorare per il dominus con promessa di vassallaggio.
I burgensi divennero tali per volontà del consiglio generale che li obbligò a prestare il giuramento di abitare continuamente a Pontremoli comprando ed edificando una casa entro un anno e a versare una cauzione nelle mani del podestà. Ogni anno il podestà doveva verificare se il giuramento era stato mantenuto e in caso contrario non solo avrebbero perso la qualità di burgensi ma avrebbero dovuto pagare un'aspra sanzione senz'altro più grave di quella che avrebbe potuto colpire un abitante del distretto in quanto l'oligarchia richiedeva ai suoi membri un atteggiamento che fosse d'esempio nel rispetto delle leggi.

6. La cultura

Nonostante in Lunigiana, nel XV secolo, fosse assai difficile imparare a leggere e a scrivere, a Pontremoli, come del resto a Sarzana (dichiarata città da Paolo II nel 1465) e a Fivizzano, le possibilità e le occasioni di istruzione erano maggiori; erano centri di richiamo per la vasta zona circostante e qui si formarono diversi professori universitari.
Sappiamo che il Da Faie, quando lavorava a Pontremoli nella spezieria di Nicolosio di Sagremoro Maraffini, pur non andando ala scola perché era tanto el bexogno che avean del suo hobedire, da per lui se'nzegnava, de farse mostrare a scolari e altre persone, che brighavano ala botegha, tanto che inparò l'abe e cognose tute le letere molto bene, ma non sa conpedare e de scrivere l'abe e così de bene in melio [29].
Il primo accenno all'esistenza di scuole pubbliche in Pontremoli è legato alla personalità di Francesco Petrarca che, nelle Seniles (XVII, 7), raccontò il suo incontro, avvenuto a Parma nel 1341, con un cieco di Perugia che a Pontremoli teneva scuola di grammatica. Negli statuti del comune troviamo l'ordine di eleggere, nel mese di maggio, un solo maestro sufficiens in grammatica et scientiis primitivis per tutti gli allievi distinti in vari corsi.
A Pontremoli si teneva l'insegnamento del latino elementare, della logica, delle summae notarili nonché la lettura del Salterio e del Donato. Le lezioni iniziavano il 18 ottobre, festa di San Luca, ed erano tenute tutti i giorni eccetto le feste e i periodi di vacanza, a Natale, a Carnevale, a Pasqua e nelle ferie di agosto e di settembre e in quelle della vendemmia. Per un anno si tenevano in un'aula a Cazzaguerra supra e l'anno dopo a Cazzaguerra infra. Il maestro aveva lo stipendio di 25 lire che gli venivano date dal comune in due rate. Agli scolari spettava invece il pagamento della pigione della casa del maestro e una quota a seconda dell'insegnamento che veniva loro impartito: 5 soldi imperiali coloro che leggevano il Psalterium e il Donatum ad textum, 10 soldi imperiali coloro che leggevano il Donato a senso e facevano il primo e il secondo latino, 20 soldi imperiali coloro che faciunt tertium latinum et iacent in scolis, 30 soldi imperiali coloro che facevano il quarto latino e ascoltavano lezioni di logica o summae notariae. Dai forestieri il maestro poteva esigere una quota a sua discrezione o, in mancanza di accordo, 1 fiorino d'oro. Se il maestro teneva scolari a pensione era esentato da gabella per le spese occorrenti [30].
Purtroppo mancano elenchi di alunni da cui poter trarre indicazioni sulla loro estrazione sociale e sul loro numero. Analizzando i nomi dei magistrati, dei giuristi, dei medici e degli ecclesiastici pontremolesi del XV secolo (tutti appartenenti a famiglie benestanti sia del borgo che del contado) e presumendo che nella scuola pubblica avessero appreso i primi elementi del sapere (anche se è accertata l'esistenza di scuole private presso le famiglie più facoltose) è facile arrivare alla conclusione che gli alunni, in massima parte, appartenevano al ceto benestante. I figli degli artigiani o dei contadini non dovevano essere numerosi e, se c'erano, erano l'eccezione o erano destinati alla carriera ecclesiastica [31].


II - INSEDIAMENTI, AGRICOLTURA E SFRUTTAMENTO DEGLI INCOLTI

1. Gli insediamenti

I dati dell'estimo del 1508 consentono di ricostruire non solo l'estensione delle terre coltivate, di individuare la ripartizione delle diverse colture e dei diversi tipi di animali ma anche di conoscere le caratteristiche geografiche di Pontremoli e delle sue ville. Le abitazioni del borgo di Pontremoli si sviluppavano lungo il tracciato della via Francigena da "porta San Giorgio", detta anche "porta del fossato", di "sommo borgo", "porta suprema populi" o "suprema burgi", sino a "porta fiorentina". Attraverso questo percorso, delimitato dai fiumi Magra e Verde, si svilupparono le vicinie di San Nicolò, San Geminiano e San Colombano mentre quelle di Santa Cristina, della Carpanella e di Monasterium S.cti Petri erano poste alla sinistra del fiume Magra.

Nel borgo vi erano 407 abitazioni abitate dalle seguenti famiglie:
San Colombano:
Armani - Bastardi de Cristoforo - Borborini - Campi - Comaschi - Cortesi - Costa - Coxi - De Papyro - De Verona - Eugeri - Galbiati - Galli - Gandolfi - Giacopini da Berceto - Gualtieri - Guarini - Iannoni de Villafranca - Maracchi - Noceti de Bagnone - Oldovini di Brugnato - Orsi - Parasacchi - Pelizzari - Peregrini de Nicolosini de Virguleta - Pinotti - Ricci - Seratti - Tecti di Bolano - Trincadini - Uggeri -

Villani
Santa Cristina:
Angeli - Antonini da Montereggio - Barbitonsori - Bertoli - Bertoni de Calestano - Bolsoni de Campoli - Borsoni - Buratelli - Campi - Cipriani - Dicti Pappae - Enrighini - Formagini - Galvani - Gandolfi - Gnocchi - Luciani de Richo - Magnani - Marchesi Burati - Marchesi Malaspina di Mulazzo - Mathei de Saxeta - Minotae - Parolari - Pasquini de Donini de Complano dicti de la Pinchiaro de Pede de Torano - Pasturini - Pellati - Pellati Campo - Restori - Ricci - Sechiari - Tonsi - Trabuchi - Trincadini - Vezani

Carpanella:
Ambrosini de Noveleta - Angeli - Annofini - antonini de Monteresio dicto Picinino - Antoniolli Magnani - Barbitonsori - Bartolomei de Cichi de Saxeta - Bartolomei dicti Rosseto - Bertoluci - Bonini de Tarasco - Cavali de Mulacio - Costa - Curini - Divisiae - Dodi - Franchini - Galbiati - Magnani - Negrisolli - Opicini - Orsi - Parolari de Valsasina - Petrizolli - Raphaelis ex marchionibus de Mulacio - Restari - Scaramuccia - Tintori - Toali - Tognini - Tutoris - Uggeri - Vanini di Tresana - Zuchi de Valsasina dicti Calcagno

San Pietro:
Antoniolli de Campulo - Bernardini de S.Cristoforo - Bertoni - Bossoni di Campoli - Buratelli - Calci di Mulazzo - Canussia dicti Bolognexe - Comaschi - Corchia - Crescii de Rovereto - Curini - da Collecchio - De la Nigra - De Seravale de Pontremolo - Domenico de Richo - Donati - Ferrari - Galli - Galvani - Leonardi de Lusuolo - Luchini - Manganelli - Opicini de Costa - Philli de Caprio - Rocha - Simonini - Tibicine de Parma - Tonsi

San Geminiano:
Ambrosii de Spezia - Andrea de Zam Maistro - Armani - Armanini - Barbitonsoris - Bassanini - Becharii - Belmesseri - Bernardino de Vella - Biagi - Biloi de Berceto - Biondini - Bonaventuri - Boschetini - Boschetini - Bossi - Bozi - Cabrielli - Calani - Camisola - Capreoloti - Cazolla - Cervaroti - Copini - Cornelli de Parma - Corvi - Cotignola - Criscinelli - Cristofanini - Damiani - Damiani de Varesio - Danesi - De Platea - Enrighini - Ferrari - Fieschi - Fornari - Francesco del Borgo - Gabriele da Bellinzona - Geminiano de Traverde - Giorgio de Chiusola - Giovanni da Guinadi - Giovanni Maria da Milano - Giovanni Stefano da Montemoro - Lancini - Lorenzo dicti Lucifero - Magnani - Malavulti - Maraffi - Maraffini - Martini da Vignola - Micheli da Burgo - Molendinari - Molinari - Opici - Panacarne - Pancini da Vignola - Parasacchi - Pellacani da Vignola - Pichi - Pizzati de Grondola - Podio - Quaroti - Ricci - Rocheta - Stangalini de Grondola - Surdae - Sutori - Torti - Ugolini - Vallisneri - Venturini

San Nicolò:
Antonelli - Armanini - Barbieri - Barilari - Batagini - Becari - Belmesseri - Benvenuti. - Brati - Bugari - Cabrini - Camisani - Castellini - Colombani - Contestabile - Corresii da Varesio - Domenichino da Pertusio - Enrighini - Falaschi - Gabrieli - Gerardini - Gerardini - Giacobini da Berceto - Giovanni Lazzaro da Bracelli - Giovanni Matteo de Invico - Guidi - Iacobi de Corlaga - Ianneti - Ligolli - Magnani - Marafini - Michelini - Montani - Opici - Orefici - Parasacchi - Petrizolli - Pini - Pizati - Sagini - Stefanini de Cargalla - Stradella - Sutori - Torti - Ugolini - Villani - Zuchi.

Questo aspetto di borgo allungato doveva restare a lungo se nel 1581 lo scrittore francese Michel de Montaigne, nel suo Journal de Vojage en Italie, definì Pontremoli una città molto lunga, popolata di antichi edifizi non molto belli. Dall'incendio appiccato dagli svizzeri era trascorso quasi un secolo e quindi l'opera di restaurazione aveva sicuramente dato i suoi frutti ma probabilmente erano rimasti inalterati gli aspetti essenziali.
L'abitato era composto molto probabilmente di rudi palazzi, costretti tra il telaio delle torri, ai quali si affiancavano le dimore dei ricchi e le abitazioni dei popolani che erano situate soprattutto nei quartieri di Imoborgo, Terrarossa, Bambarone e Borgo Vecchio. Attorno al borgo il 19,4 % del terreno era occupato dalle terre campive e castaneate, l'8,8 % dagli spazi ortivi che, come gli alberi da frutto (3,5 %), spesso affiancavano le case. Essendo una zona di bassa collina (236 m. s.l.m.) è ovvio che avessero una certa importanza gli olivi (14,1 %) e le viti (16,9 %) che potevano essere coltivate anche a pergolati (2,1 %).
La notevole estensione delle terre prative nel territorio pontremolese (746), il numero degli animali rilevabili dall'estimo, le molteplici disposizioni degli statuti e l'elenco degli animali (capre, pecore, maiali, vacche, asini, cavalli) che erano soggetti al pagamento della gabella, sono elementi sufficienti per attestare che anche la pastorizia aveva un ruolo di primaria importanza nell'economia agraria pontremolese. Dalle carte dell'estimo del 1508 2 si è potuta stabilire la consistenza e la qualità del patrimonio ovino, suino, bovino ed equino. Sappiamo che le 972 pecore e capre, le 67 vacche, i 5 maiali e i 3 asini presenti, appartenevano a ben 76 proprietari, di condizioni economiche diverse, residenti nelle 6 vicinie.
Tutti questi animali non potevano essere tenuti nel borgo e quindi venivano dati, con varie forme di contratto, agli abitanti delle ville affinché li custodissero e li facessero pascolare. A questo proposito è interessante ricordare un atto notarile del notaio Girolamo Belmesseri, rogato il 3 giugno del 1469, in cui si stabilì che Raffaele di Bartolomeo del fu Marzi di Poliasca di Spezia, abitante Pontremoli, avrebbe dato, con un contratto di locazione, a Pellegrino del fu Giverzi di Retombula 6 pecore e 6 capre giovani e lattanti per i futuri 5 anni. In cambio avrebbe avuto la metà della lana, del formaggio e dei piccoli che sarebbero nati.
Il secondo registro dell'estimo ci permette di conoscere l'alta Valle del Magra e la Valle del Civasola. Questa zona, situata a nord di Pontremoli, comprendeva 8 ville (Prachiola - Gravagna - Montelungo - Succisa - Cavezzana Dantena - Cargalla - Traverde - Mignegno) e confinava a nord con l'Appennino Parmense, ad est con l'alta Valdantena, a sud con le valli della Capria e ad ovest con la Valle del Verde. Secondo l'estimo del 1508 vi erano 291 fuochi. A questi si devono aggiungere molti pellegrini che usciti da Pontremoli potevano proseguire o lungo la strada che conduceva al passo del Bratello o lungo quella che portava al passo della Cisa.
Percorrendo la prima strada, a 490 m. s.l.m., incontravano Traverde dove è ancora possibile ammirare i resti della chiesa romanica e l'annesso oratorio quattrocentesco, dedicato a Santa Maria Bianca, con i suoi rari affreschi. Nel percorrere invece l'altra strada incontravano la villa di Mignegno (290 m. s.l.m.) situata ai piedi del colle Traverde (propagine del Molinatico) sulla ripa destra del Magra, quella di Succisa (645 m. s.l.m.) ove la chiesa dedicata a Santa Felicita, appartenente al capitolo dei Canonici di Luni, è ricordata nella bolla di Gregorio VIII del 1187 [32] e quella di Montelungo (830 m. s.l.m.) dove si trovava l'antico xenodochium di San Benedetto.
La prima notizia di questo ospizio appare l'8 settembre dell'851 nel diploma degli Imperatori Lotario e Lodovico II, a favore di Gisla, loro figlia e sorella. In questa zona di alta collina predominavano i campi (31 %) che erano concentrati soprattutto a Gravagna (750 m. s.l.m.), le terre castaneate (20,5 %) che erano numerose soprattutto a Succisa (645 m. s.l.m.) e quelle prative (14,1 %) che dominavano a Montelungo (830 m. s.l.m.). Gli abitanti di queste ville possedevano 985 capi di bestiame minuto, 106 bestie vaccine e 12 maiali che erano tenuti soprattutto nelle ville di Gravagna e di Succisa.
Nel registro con numerazione di costa 4 ci vengono presentate le valli del Gordana, di Zeri e di Rossano. Questo territorio, che comprendeva 14 ville (Pieve di Saliceto, Teglia, Oppilo, San Cristoforo, Careola, Torrano, Arzelato, Castoglio, Piagna di Rossano, Montelama e Valle di Rossano, Chioso, Coloreta e Castello, Mezzadura, Noce), è racchiuso dall'Appennino tosco-ligure-emiliano e confina a nord con il torrente Gordana, ad est con il fiume Magra, a sud con il torrente Teglia e a ovest con la Val di Vara.
Secondo l'ordinamento degli antichi statuti, incombevano agli uomini delle ville oneri vari: quelli delle ville di Zeri e di Rossano, soli o insieme con altri, dovevano garantire, soprattutto con la costruzione di more lungo i torrenti, che le acque del Gordana e dei suoi affluenti non uscissero dagli argini a minacciare campi, mulini e vie e che le antiche strade attraversanti le valli risultassero transitabili [33].
Il clima di questa zona, che presenta un'altezza media di 600 metri, risente in misura considerevole dell'influenza del mare e questo permetteva la presenza di vigneti (2,9 %) ed oliveti (2,8 %) anche se la coltura dominante era quella del castagno (29,7 %). La copertura boschiva, che costituiva il 2,5% di tutto il territorio, era interrotta da radure prative (14,2%), esistenti soprattutto a Coloretta e Castello (670 m. s.l.m.), e sassaie (3,4%) presenti ad Arzelato (870 m. s.l.m.).
Per quanto riguarda gli animali vengono annotati 1837 capi di bestiame minuto (pecore e capre), 119 vacche, 32 cavalli, 10 maiali e 12 asini che troviamo concentrati nella zona più ricca di prati ossia a Coloretta e Castello.
Nel registro con numerazione di costa 5 troviamo le 15 ville (Bratto, Braia, Navola, San Lorenzo, Monti di Baselica, Guinadi, Grondola, Cervara, Morana Vignola, Bassone, Codolo, Scorano, Dozzano e Invico, Cavezzana Gordana e Navalonga, Campoli) della Valle del Verde. Confinano a nord con l'Appennino parmense (Monte Molinatico 1549 m. s.l.m.), ad est con la sponda destra del torrente Gordana e ad ovest con l'Appennino ligure.
La villa più popolata era Vignola (78 fuochi) situata sulla base meridionale del monte Molinatico, alla destra del Verde e alla sinistra del rio Pilacca.
Per quanto riguarda le colture l'area di diffusione del castagno era la più estesa (36,1 %) e in particolar modo copriva i terreni della villa di Cervara (700 m. s.l.m.) sulla schiena del monte Groppa a destra del Verde. Altra coltura diffusa era quella della canapa (5 %) che troviamo soprattutto a Guinadi (600 m. s.l.m.) situata alle falde del monte Castolio, propaggine del Molinatico, sopra la foce della Verdesina nel Verde. L'oliveto e la vigna erano poco diffusi e praticamente concentrati attorno alla villa di Dozzano (449 m.s.l.m.).
I proprietari della maggior parte degli animali presenti nella zona erano in prevalenza di Cervara (700 m. s.l.m.), di Bassone (410 m.s.l.m.) che è confinante con il torrente Betnia confluente del Verde, di Vignola (325 m. s.l.m.) e di Grondola (630 m.s.l.m.) villa posta sulla sommità di un poggio dominato dal monte detto La Piana; poggio che è bagnato a ponente dal Verde e alla sua base, verso scirocco, dal torrente Magriola. Era a capo dell'antica strada che per il Bratello, Valditaro e Bardi portava a Piacenza.
Nell'ultimo registro preso in esame, dalla numerazione di costa n.8, appaiono censite tutte le terre a coltura delle Valli della Capria, del Gorgoglione e dell'alta Valdantena. Queste terre, che comprendevano 14 ville (Scorcetoli, Ponticello, Canale, Monteluscio, Sommo Caprio, Serravalle, Dobbiana, Ceretoli, Arzengio, Toplecca, Versola, Casalina, Previdale, Groppodalosio) avevano come confini geografici a nord la sponda sinistra del torrente Civasola, a est l'Appennino tosco-emiliano con i monti Orsaro (1831 m. s.l.m.), Braiola (1821 m. s.l.m.) e Marmagna (1852 m. s.l.m.), a sud il torrente Caprio e ad ovest il lato sinistro del fiume Magra.
Ancora una volta a dominare era la coltura della castagna (24,2 %) che troviamo in particolar modo nei terreni della villa di Dobbiana (515 m. s.l.m.) situata in poggio sulla ripa destra del torrente Ondola. Per quanto riguarda gli animali li troviamo soprattutto sui terreni della villa di Arzengio, ricca di terre campive, situata a 480 m. s.l.m. sulla pendice del monte Crocetta, alla sinistra della Magra e della strada della Cisa. Il territorio di Pontremoli appare dunque caratterizzato da un insediamento compatto e raggruppato che è rappresentato dal borgo e da un insieme di villaggi di altura, alcuni affacciati sulla pianura, altri arroccati tra le montagne, posti ad altezze diverse, ma sempre inferiori ai 900 metri (il più alto è Arzelato con i suoi 870 m. s.l.m.).
Per quanto riguarda le colture presenti nel territorio, che di certo non possiamo ritenere abbondanti, avvertiamo una netta prevalenza del castagneto e dei terreni campivi che troviamo ad una altitudine che si aggira intorno ai 600 metri. Una larga estensione era coperta dal prato, sui seminativi si elevavano querce isolate o qualche albero da frutto e piuttosto debole era nel complesso, tanto in coltura specializzata quanto sui seminativi, la presenza della vite e ancor meno quella dell'olivo che compaiono solo nei versanti solatii.

2. L'attività agricola

L'attività agricola è stata fondamentale per l'economia della comunità pontremolese, ma non possiamo di certo affermare che fosse prospera ed attiva; era vincolata a terreni difficili e soggetti al frazionamento di proprietà e quindi è sempre stata in funzione dell'autoconsumo. I contadini, per recuperare più spazio da destinare alla produzione cerealicola e per trasformare le pendici dei monti e delle colline in terrazze degradanti e coltivabili, erano costretti ad eseguire lunghi e faticosi lavori di disboscamento, opere murarie di contenimento della terra e di scolo delle acque.
Essendo una risorsa importante per l'economia locale ogni annata negativa doveva influire gravemente sull'andamento demografico. In effetti alle guerre devastatrici si aggiungevano assai frequentemente dure calamità naturali.
Dalle pagine di Giovanni Antonio Da Faie si ha notizia di tempeste tali da causare la perdita del raccolto [34]; di gravissime carestie [35]; e di nevicate tali da frustrare le fatiche dei contadini e da disperdere i frutti di un intero anno di lavoro [36].
L'aver analizzato, all'interno dell'estimo i diversi toponimi (solo per Pontremoli se ne registrano 156) mi ha permesso di avere un quadro più chiaro del paesaggio pontremolese. I toponimi di ogni frazione sono importanti perché possono richiamare particolari colture (in li canevari, tra la vigna, a li castagni grandi, al lupiney, a la galla), pratiche agricole (in debio) e piante della vegetazione (al pero, al cerro, in el guerceto, a li nespoli). Ci dicono anche se il suolo era ricco d'acqua (al rì, al canale, tra la acqua) o quali animali fossero presenti (a la stalla, li stabiè, in la peschera).
La struttura dei campi e le colture promiscue (filari di viti e alberi da frutto) impedivano l'uso dei rudimentali aratri e imponevano ore di faticoso lavoro con semplici attrezzi agricoli. Vari, specializzati e rudimentali erano gli utensili da lavoro: il ferrum o falcium veniva adoperato per tagliare le messi, la pale de ferro o badile per preparare il terreno, il forcade per sarchiare, il sartorium de ferro per ripulire il grano, il zapoletum per zappare e fare i solchi, le sezze o ronconi de ferro o falcicioni per segare l'erba dei prati, la forfice, il pennatus detto anche maracium e la securis per potare le vigne e tagliare gli alberi.
Questi attrezzi erano costosi e quindi non tutti e non sempre erano posseduti dai lavoratori. Venivano fatti o restaurati dai fabbri locali i quali dovevano apporre sui medesimi il proprio marchio ed erano soggetti ad una multa se non avessero fatto unam costam planam in circulis pro vegetibus et tinis.
A questo proposito si rinviene, tra gli atti del notaio Girolamo Belmesseri, un documento molto interessante rogato il 26 giugno del 1459 a Cazzaguerra Supra nella piazza superiore davanti al macello. Pietro del fu Giovanni della Sesta Soprana, podesteria di Corniglio, episcopato di Parma, padre e legittimo amministratore di Genesio di 14 anni, da una parte e magister Cristoforo del fu Antonio da Pontremoli, ferarius e hospes nella terra di Pontremoli a Cazzaguerra Supra, nella vicinia di San Geminiano, per l'altra si accordano in questo modo: Si stabilisce che Pietro deve mandare il detto Genesio da Cristoforo ferario ad discendum artem ferarie et manescharcharie per i prossimi sei anni e che il detto Genesio deve andare ad abitare a casa di Cristoforo e tornare alla casa paterna in festivitatibus celebrandis et diebus non feriatis. Il detto Pietro impegna tutti i suoi beni presenti e futuri a favore del detto Cristoforo e deposita, per cauzione, presso Giovanni del fu Bartolomeo Panecarne di Pontremoli 25 ducati d'oro mentre magister Cristoforo promette, per questo periodo di sei anni, di pascere, calciare et vestire condecenter il detto Genesio.
Scarse sono le notizie relative a modi e ai tipi delle diverse operazioni agricole.
Gli statuti puntualizzavano certe modalità di produzione, di vendita ma anche di conduzione dei seminati. E' probabile che l'aratura venisse fatta da agosto a novembre servendosi di buoi (armentinorum) spesso presi in affitto o in comproprietà. Dopo l'aratura seguiva la semina in autunno avanzato, la sarchiatura in primavera e l'erpicatura dopo il taglio delle messi.
Il grano tagliato veniva portato nelle aie e qui le spighe erano calpestate dal bestiame mentre il panico veniva battuto con il correggiato che era formato da due bastoni uniti da una striscia di cuoio. Anche la raccolta era diversa; il grano e il panico venivano tagliati rasente terra con la falce fienaia in modo che la paglia restasse attaccata alla spiga e sul terreno rimanessero solo le stoppie. Il miglio invece veniva tagliato appena al di sotto delle pannocchie. Le colture promiscue venivano limitate.
Nessuno poteva seminare lupini nisi in sedatis in quibus fructum deferant, si vietava di far crescere alberi di alto fusto, si obbligava ad estirpare arbores che non facevano frutti, ed infine si imponeva di potare piante fino all'altezza di sette braccia per ridurre il più possibile le zone d'ombra.
Sicuramente primitive erano le rotazioni e i sistemi di concimazioni. Veniva praticata l'alternanza grani-lupini ma non con lo scopo di rigenerare il terreno ma come foraggio per pecore e capre. Era diffusa invece la praticata del debbio che consisteva nel bruciare lo strato superficiale del terreno prima di prepararlo per la semina e nell'utilizzare la cenere come fertilizzante. Vi era anche l'uso di bruciare le erbe dei pascoli nel periodo estivo per avere una pastura migliore.

I MULINI A PONTREMOLI

Vicinia di San Pietro - nessun mulino
Vicinia di San Geminiano - mulino di Bartolomeo Maraffini con 2 mole e 1 frantoio pro oleo in Borgo Vecchio sul magra - mulino di Geminiano Bertoni e Damiani vicino al ponte sul Verde - mulino di Giuliano Parasacchi " a la Portigotta " sul Verde
Vicinia di San Nicolo' - mulino di Stefano Maraffini in Borgo Vecchio sul Magra

MULINI PRESENTI NELLE VILLE
Gravagna, mulino dei Bosi sulla Civasola, mulino dei Sesti sulla Civasola "a la Molina", mulino dei Magnani sulla Civasola "al molin Bradello", mulino dei Filippi sulla Civasola "al molin Malavolta"
Montelungo, mulino dei Leonardi sul Magriola "a la Vigna"
Succisa mulino dei Magistri e Casanova "al rì de la Arolla" o "a la Borgadara"
Cavezzana Antena, mulino degli Antognini sul Magra
Teglia, mulino dei Magnani de Sirolo sul Teglia
Careola,mulino dei Fontana sulla Martiola
Torrano, mulino dei Pede sul Mezemola
Castoglio, mulino dei Ranella "in la Casmila"
Coloretta e Castello, mulino dei Testa sul Gordana, mulino degli Iacopini sul Gordana, mulino dei Pelliccia sul Gordana, mulino degli Iacopetti "al Monte" sul Gordana, mulino dei Cervaria " in Alonchamara"
Zeri Mezzadura, mulino dei Conti "al fiumo de Tralacqua" sul Gordana, mulino dei Boleri "al fiumo de Tralacqua" sul Gordana
Noce, mulino dei Tonsi "in Tralacqua" sul Gordana
Piagna di Rossano, mulino degli Schiavi "in acqua Rossani", mulino dei Giordani "al molin de la Vinichiola"
Montelama, mulino dei Bertagnani sull'acqua di Rossano
Monti di Baselica, mulino dei Bagini sul Verde "al Verdo", mulino dei Bertoni sul Verde, mulino dei Civeriae sul canale di Remorascho, mulino degli Antoniocii sul Verde, mulino dei Rezoni con "1 fulo per arbasio e 1 per canebis"
Guinadi, mulino dei Riolli "in la Mura" sul Verdesina, mulino dei Pelliccia "al Molin" sul Verdesina, mulino degli Ugoti-Clerici e Pelliccia al Groppo del Tegardo sul Verde con 1 "fulo" per l'albagio e 1 per la canapa
Morana Vignola,mulino dei Picinini sulla Pilacca
Bassone, mulino dei Pichi al follo sul Betigna
Sommo Caprio, mulino dei Taruffi sul Caprio
Serravalle, mulino dei Franchi sul Canale
Dobbiana, mulino dei Torsoni di Tarasco e dei Pasquali, mulino dei Pini mulino dei Santi al canale "de la Scoradega"
Versola mulino dei Caselli "al molin Croza"sul Magra
Previdale, mulino degli Accorsi a Barcola sul Magra
Groppodalosio, mulino degli Anselmi e Fanelli sul Magra, mulino dei Delomodarma sul Magra

3. L’allevamento

L’allevamento del bestiame era strettamente connesso all’agricoltura e con essa si integrava. Nell’estimo del 1508 18 vengono annotati nelle ville 6723 capi di bestiame minuto (pecore e capre), 443 vacche, 40 maiali, 15 asini e 33 cavalli.
Sappiamo che il pascolo doveva avvenire solo nei luoghi prestabiliti e nelle proprietà delle comunità alle quali chiunque poteva acceder, ma nessuno poteva appropriarsi di parti delle medesime per fienagione o per altri scopi privati.
Chi, con i propri animali, recava danno alle altrui proprietà era obbligato al risarcimento. Buoi e manzi sono nominati spesso in riferimento all’aratura delle terre o al traino delle tregge e delle benne; l’allevamento dei bovini da latte e da carne era ancora poco diffuso. I bovini macellati erano quasi sempre animali vecchi e non più capaci di lavorare.
Pare che fosse diffuso l’acquisto in comproprietà di buoi. Era possibile comprare metà bue, un terzo o addirittura un quarto di due buoi; una sola bestia poteva avere anche tre proprietari, quindi se qualcuno avesse avuto un campo danneggiato da un bue sarebbe stato costretto a citare più persone.
Per quanto riguarda la lavorazione del formaggio sappiamo che aveva carattere familiare (era la donna che svolgeva le pratiche) e veniva eseguita con utensili semplici costruiti in larga misura dagli stessi contadini e dai pastori che si improvvisavano artigiani durante le pause dai lavori agricoli.
Finita la mungitura si procedeva alla colatura del latte mediante un colatoio di legno di forma semisferica. Su di esso venivano poste o delle erbe aromatiche, come ortiche o felci, oppure un panno di lino e canapa (caneva) che fungeva da filtro e che si poteva comprare al mercato. Le tele da burati (per il formaggio) erano soggette alla gabella (pagavano per ogni pezza denari 5).
Il latte colato veniva messo in paioli (parol) di rame e quindi scolato con aggiunta di caglio perché si rapprendesse. Il caglio si ricavava dallo stomaco degli agnelli, dei capretti o dei vitelli macellati. Questo veniva steso ad asciugare al camino poi, una volta tritato e macinato finemente, lo si scioglieva in acqua o aceto e si versava il liquido così ottenuto nel latte. Ne bastava pochissimo per farne accagliare una quantità ingente.
Questo latte, appena si fosse rappreso, veniva compresso fino a renderlo molto duro e quindi veniva posto dentro dei contenitori (cascini) rotondi che potevano avere dei fori sul fondo per permettere la scolatura del siero residuo od essere costituiti semplicemente da fasce sottili in legno di castagno, senza fondo, che avvolgevano il formaggio tutto intorno. Quando la quantità di latte da trasformare in formaggio era notevole per la pressione della forma, invece della semplice pietra, veniva usato il torchio che era costituito da una vite di legno [37].
Dopo avergli dato la forma questi formaggi venivano scolati sopra e sotto e riposti in una speciale cassetta per l’essiccazione. Grazie alla gabella che dovevano pagare sappiamo che sulla piazza erano venduti tre tipi di formaggi. Chi vendeva formaggio dolce doveva pagare 4 quattrini per ogni peso, chi vendeva formaggio nostrano di quattrini ne pagava 5 e chi vendeva formaggio salato per ogni peso ne pagava 3.
Il formaggio, come l’olio, poteva essere venduto ai prezzi di volta in volta fissati dalla comunità e in quantità non superiore da quella decisa dai gabellieri. Ricordiamo che il 17 maggio del 1477, secondo l’atto di ser Girolamo Belmesseri, Giacomino di Cristoforo da Noceto, abitante a Traverde, diede a Pasquale del fu Bertoni di Campomenoso di Canadello 4 pesi e 4 libbre di formaggio di Compiano mecengho sico, entro la metà del mese per debito di mercato e giusto saldo. Lo stesso anno, il 29 maggio, fu Paolo di Giovanni Antonio del fu Mini Cabrielli a dare a Giacomino di Cristoforo da Noceto, abitante a Traverde, 5 pesi di formaggio di Compiano secco e pulito entro 15 giorni per debito di mercato e giusto saldo.
Dal latte di vacca, appena munto, si otteneva, mediante sbattitura della panna, in appositi contenitori, il burro che, per conservarlo meglio, veniva messo dento una zuppiera colma d’acqua oppure veniva riposto in un luogo fresco avvolto in foglie di castagno. Ovviamente il burro non veniva fatto tutti i giorni; prima di tutto perché, togliendo la panna dal latte, il formaggio risultava più magro e quindi meno saporito, in secondo luogo perché in Lunigiana si faceva largo uso di grassi animali quali strutto e lardo.
Soltanto i maiali venivano allevati con il fine esclusivo della macellazione. Gli statuti ne vietavano l’esportazione sia della carne che dell’animale. I maiali, a quel tempo, non assomigliavano a quelli odierni ma si avvicinavano di più ai cinghiali. Avevano orecchie corte ed erette, testa più lunga e più grande, le gambe lunghe e sottili ed il colore spesso era nero. Era frequente la pratica di consociarsi per sostenere a metà le spese e dividere la carne al momento della macellazione, come ci testimonia un atto del notaio Belmesseri; il 5 dicembre del 1472 Giovanni di Francesco del fu Guglielmino Cristoforini di Arzelato e Pietro Simone di dominus Mengo da Cotignola, castellano del Piagnaro, decisero di prendere 1 porca a porcellis per 3 anni e di dividersi i piccoli che sarebbero nati.
Il maiale era abbastanza presente anche perché veniva allevato con poca spesa (mangiava gli avanzi della mensa contadina) e soprattutto tutte le sue parti venivano usate dalla famiglia. L’uccisione del maiale avveniva alla fine dell’autunno nel momento in cui iniziava la stagione fredda, quella più adatta alla conservazione della carne. Se ne utilizzava il grasso (assongia), le carni, fresche e salate e se ne facevano insaccati. Il lardo veniva anche bollito per ottenere lo strutto che era utilizzato come sostituto del burro e dell’olio oppure veniva messo a stagionare.
Lo scopo principale dell’allevamento ovino era invece la produzione di lana, che veniva ampiamente usata per la realizzazione di capi di abbigliamento rozzi ma caldi e necessari per il rigore invernale di Pontremoli. Il latte era pure indispensabile per l’alimentazione quotidiana della famiglia e per la vendita di formaggio, ricotta e burro.
Anche per quanto riguarda il bestiame minuto era diffuso l’acquisto in comproprietà, come si evince dal rogito di ser Girolamo 31 ; il 2 gennaio del 1471 Gasparino del fu Franceschino Donini della villa di Pracchiola e Pizzato del fu Battista olim Luchino Pizzati decisero di mettersi in società per 5 anni e di comprare 12 pecore latantes. Stabilirono che avrebbero diviso il formaggio, la lana e gli agnelli che sarebbero nati. Gli statuti non dimenticavano di certo i macellai (beccai o bechari) che erano l’unica categoria, insieme a quella dei fornai, in grado di poter esercitare la propria attività anche nei giorni festivi.
Nel III libro degli statuti, al capitolo 198, veniva sottolineato che non era loro permesso ammazzare le bestie né scorticarle nella strada né dentro i macelli. Nei macelli non era permesso tenere pelli fresche né interiora di bestie sopra i banchi. Vi era l’obbligo di separare la buona dalla cattiva carne ed era proibito eliminare dalla bestia macellata quelle parti che ne indicassero la qualità. Era inoltre vietato vendere carnes alicuius animalis non interfecti gladio, et quod ad macellum suis pedibus venire non possit, carnes putridas vel corruptas, vel carnes alicuius bestiae morticinae, vel quae mortua fuerit extra burgum Pontremuli.
Inizialmente le macellerie erano accentrate quasi tutte nelle vicinanze del ponte di Castelnuovo in quella zona di Pontremoli situata sulla sponda destra del Magra. Per evitare tale concentramento e soprattutto per creare una certa concorrenza, che avrebbe contribuito a tenere bassi i prezzi, pro pubblica utilitate, statutum, et ordinatum est quod, pro Comuni Pontremuli, et ipsius nomine, et expensis fiant, et fieri debeant beccariae sufficientes et idoneae in platea superiori prope cintum communis versus Viridem; per questo si erano costruiti appositi negozi ove, e soltanto in essi, potesse essere venduta la carne.

4. L’apicoltura

L’apicoltura era diffusa nelle ville e in particolar modo in quelle situate nella valle del Verde. Aveva una certa importanza e lo si deduce dalle severe disposizioni previste per chi osava vendere, distruggere o mandar fuori del distretto bulium sive alveum apium. Il miele era il dolcificante più diffuso e sostituiva, nella dieta quotidiana, il consumo di zucchero riservato ad una cerchia ristretta di persone in quanto, essendo importato dall’oriente, si trovava sul mercato a prezzi elevati.
Molto usata era anche la cera con la quale i frati agostiniani, oltre a fare delle immagini della Santissima Annunziata, che vendevano ai devoti, incominciarono a fabbricare candele. Era vietato vendere candellas sive candellotos de cera, nisi cum stopolo de bambasio sotto pena di dieci soldi imperiali, escluse le candele lunghe quae tenetur a Speciariis ad aspam.
E nelle candele di cera, vel candellotis, vel cereis, sive torcitiis, era proibito mescolare seppum vel fabbas. Di ogni libbra candellarum, seu candellotorum, seu torcinorum, il venditore non poteva pigliare più di tre soldi e due denari imperiali.
Sicuramente numerosi furono coloro che, come Antonio del fu Ferrari di Casucho, villa di Bratto e Giovanni del fu Maraffi olim Sagramoro, si misero in società per comprare dei bugios. Antonio, per divenire socio di 4 bugni, dovette dare a Giovanni 8 lire. Si stabilì che se Antonio avesse perso questi bui avrebbe dovuto dare a Giovanni 20 soldi per ognuno e altrettanti soldi per ogni alveare morto. Decisero inoltre che se avessero rispettato i patti ogni anno, per 5 anni, si sarebbero divisi il prodotto ricavato.

5. La pesca e la caccia

Scorrendo i capitoli degli statuti troviamo articoli che fanno riferimento alla pesca ma, mentre in alcuni si affermava che essa poteva esercitarsi liberamente, in altri invece pare fosse bandita (almeno in certi periodi dell’anno per certe specie di pesci). Molto spesso veniva messo all’incanto un tratto di fiume che veniva così concesso, per un determinato periodo di tempo, in gestione a una o più persone che avevano facoltà di subappalto in toto o in parte per cui spesso nascevano discussioni per diritti d’acque o per ragioni di confini, causa questa che si riproponeva puntualmente dopo la fiumana [38].
La pesca non costituiva un passatempo ma un mezzo importante di alimentazione per tutti ma anche un modo per contadini, pastori e ragazzi di racimolare qualche spicciolo. Nei giorni di festa non si poteva pescare; in nessun tempo pescare ad macium e pigliare i pesci con la calcina. I pescatori di mestiere dovevano vendere sulle piazze, cavando omnes pisces extra cavagnos affinché i compratori li potessero vedere.
Anche questa era merce soggetta a gabella e quindi i pesci freschi o salati per ogni peso pagavano 4 quattrini (= 8 denari), i pesci da foglia pagavano per cavagna 5 quattrini (= 10 denari) e le acciughe (anchioue) o sardelle salate pagavano per ogni barile 4 quattrini di Genova (= 8 denari). Il pesce sovrano ed economicamente più importante per la sua adattabilità a vivere in vivai di acqua dolce per lungo tempo dopo la cattura e per la sua conservabilità mediante marinatura o affumicazione era sicuramente l’anguilla. Altrettanto pregiati e ricercati erano i lucci, le tinche, le carpe che venivano pescati con sistemi diversi. Si poteva pescare con la lenza, con il retino, la cesta, la nassa e la rete a sacco.
Pare che nel XV secolo iniziasse a prendere un certo impulso anche il commercio dello stoccafisso e del baccalà. Lerici e Portovenere erano scali dipendenti dai più importanti porti di Genova e Pisa. Questi pesci, che arrivavano con una certa frequenza, furono ben accolti dalla popolazione lunigianese.
La caccia invece, nonostante l’abbondanza degli uccelli, degli animali silvestri e della selvaggina era poco praticata. Gli statuti ci rendono nota la cattura degli uccelli con l’aiuto dei rapaci addomesticati. Astori, falconi, sparvieri pagavano 4 quattrini di Genova (= 8 denari) ciascuno di gabella. L’uso di questi rapaci era una delle modalità di caccia preferite dalla nobiltà assieme alla caccia grossa soprattutto al cervo, al cinghiale e al capriolo che popolavano diffusamente i boschi del territorio.
Per i burgenses l’attività venatoria era soprattutto un divertimento che diventava più entusiasmante più le tecniche di caccia si complicavano. Comunque all’aspetto ludico della caccia si affiancava sempre, anche per i nobili, l’aspetto economico. La selvaggina uccisa infatti costituiva uno degli alimenti consumati dalla classe nobiliare.
Era proibito cacciare i colombi domestici con i lacci, nec ipsos occidere, balistrare cum ferro, cum terreta, vel aliter. Nessuno poteva comprare per rivendere perdices, coturnices, lepores, turdos, columbos, vel alias aves silvestres, vel aliqua alia animalia silvestria. I lupi, come risulta dai premi dati a chi li uccideva e dalla cronaca scritta da Antonio Cesena di Varese Ligure [39], erano onnipresenti e molto cacciati.
Antonio Cesena ci fa sapere che la valle di Varese (Ligure), eccetto quel che col foco o con l’accetta disboscavano, era piena di orsi, lupi e cinghiali e che nel 1516 i lupi iniziarono una nuova guerra, non contro gli armenti e i grecci ma contro la carne umana. Si fecero suppliche, digiuni, processioni e diversi voti al Signore affinché provvedesse ad un così grave male. Poi gli si dava la caccia con cani e armi; ne furono ammazzati molti.
La maggior parte degli animali venivano cacciati non solo per l’alimentazione ma anche per i pellami e le pellicce. Nei giorni di mercato chi vendeva la pelle di volpe doveva pagare la gabella di 8 quattrini (1 soldo e 4 denari), 12 se ne pagava per la pelle di faina, 16 per quella di martora e 24 per quella di cervero.

6. Il legname

Nel quadro dell’economia agraria pontremolese anche i boschi, come attestano i libri dell’estimo, gli atti rogati da diversi notai e gli statuti, avevano una notevole importanza. Gli statuti perseguivano, non solo con gravose multe, ma anche con il taglio della mano destra, coloro che volontariamente o meno causavano incendi o altri danni ai boschi.
Nel pontremolese, ma non solo, vi era un largo uso del legname tanto che gli statuti, per proteggere la sopravvivenza di alcuni alberi in fase di estinzione, per esempio le pielle (abeti rossi), fissarono venti soldi imperiali di multa e il sequestro del legname per coloro che venivano sorpresi a tagliare o ad esportare fuori del distretto tali piante. Anche i falegnami non potevano costruire barili, tini ed altri recipienti con legname di piella ed armature per la vigna di lunghezza inferiore a tre braccia. Era vietato anche acquistare il legname per poi rivenderlo a scopo di lucro 50. Solo ad agosto e a settembre i barillari di Pontremoli potevano approvvigionarsi del legname necessario al loro lavoro tagliando le piante nel boscum.
La lavorazione del legno è da considerarsi parte fondamentale nel patrimonio tecnico della civiltà contadina lunigianese; il campo di impiego di questo materiale era vastissimo, andava dall’edilizia agli attrezzi da lavoro, dai mobili ai mezzi di trasporto e alle nasse per pescare le anguille. In ogni famiglia vi era almeno una persona in grado di tagliare le piante per ricavarne travi, manici per attrezzi, intagliare cucchiai o scodelle e altri utensili da cucina, infine costruire panche e arredi per la casa.
Ogni nucleo familiare possedeva una attrezzatura di base costituita da una accetta, un pennato, un martello e con questi strumenti provvedeva al proprio fabbisogno costruendo attrezzi da lavoro, utensili domestici, oggetti d’arredo in legno di castagno, faggio, ontano (piante facilmente reperibili nei boschi comunitari) e pioppo, ciliegio e noce (coltivati tra i filari delle viti o ai limiti delle proprietà agricole)[40]. Gli statuti condannavano ad una multa di due soldi imperiali i trasgressori che non erano in grado di dimostrare di volersi servire del legname tagliato per facere furcas, perticas, pallosellos, stradorias, pontorias, armatorias et omnia lignamina necessaria vineis.
In ogni borgo o villaggio del territorio vi era almeno una bottega di falegnami dediti alla produzione di mobilio, oggetti d’uso comune, botti e carri la cui produzione prevedeva tempi di lavoro, attrezzature e conoscenze tecnologiche specifiche. Casse, culle, utensili domestici, a volte piccole statue lignee a soggetto religioso, furono i prodotti di queste botteghe artigiane che legarono la loro fortuna alla praticabilità dei canali commerciali che le collegavano ai centri economici più importanti del fondovalle e delle vicine aree parmensi e piacentine.
Ai falegnami ed agli scalpellini, che potevano ovunque esercitare liberamente la loro attività, era vietato allontanarsi dal borgo nei mesi di agosto e settembre che era il periodo prescelto dalla comunità per il ripristino e la manutenzione delle opere pubbliche cui ogni cittadino doveva contribuire con le proprie prestazioni. Disciplinato da norme statutarie e da patti rogati da notai era inoltre il recupero del legname abbandonato dalla corrente lungo l’alveo dei fiumi. Ogni cittadino di Pontremoli o del distretto poteva appropriarsi di ligna, quae per alluviones acquarum decurrunt per flumina Macrae vel Viridis, vel alterius fluminis per districtum Pontremuli labentis soltanto in quantità pari a quella che un uomo poteva trasportare a spalla vel possit ducere cum asino uno, vel alio somario. Nel caso però che la corrente avesse trasportato tali ligna in terreni privati, sarebbero rimasti di esclusiva proprietà del padrone del terreno e chi se ne fosse appropriato sarebbe stato condannato con una multa di cinque soldi imperiali ed alla rifusione del danno.
Il 4 novembre del 1471 Simone del fu Compatti, i suoi figli Bertoluccio e Matteo, Foloto del fu Antonio, Giovanni Antonio del fu Giovanni olim Laurenci, Giovanni Matteo di Tommaso dominus Visco, tutti di Cavezzana Gordana, Bertone del fu Damiani olim Petrucci e Andrea del fu Petrizolo Sarelle, tutti di Navelunga, vennero a patti. Stabilirono che ogni qualvolta il fiume Gordana, durante le alluvioni, avesse portato legna, tutti sarebbero potuti andare, con le loro famiglie, a recuperare detta legna secondo le loro possibilità. Permisero inoltre che ad omnem requisicionem Simone Compatri e Bertone Damiani potessero andare a tagliar legna nel bosco del Gordana sive in aliis nemoribus del detto fiume, nei luoghi che a loro sarebbero sembrati più opportuni e che detta legna venisse gettata nel fiume, in modo che la si potesse raccogliere vicino alla villa.


III - PRINCIPALI COLTIVAZIONI AGRARIE

1. I cereali e i legumi

Le fonti analizzate costituiscono una massa documentaria in grado di far luce sulla produzione cerealicola e di legumi dell’intero territorio preso in esame nonché di offrire numerose indicazioni sull’alimentazione contadina. Per conoscere i vari tipi di cereali e di legumi presenti nel mercato pontremolese basta leggere il I libro degli statuti. Al capitolo 73 troviamo il numero dei quattrini che ciascun contadino era costretto a versare per poter vendere i propri prodotti.
L’avena, la spelta e la biava scelta per cavalli, per quartaro, dui quattrini di Genova. Fava, frumento, orzo, fariola, vece, segale, ceci, fasuoli, per quartaro, 3 quattrini; galla [41] macinata, o non, per ogni staio, 8 quattrini; panico e miglio, per ogni staio, 12 quattrini.
Quindi constatiamo la presenza di cereali invernali e primaverili; tra i primi il grano e l’orzo potevano essere coltivati insieme nello stesso campo. Erano seminati in autunno, dopo l’aratura e venivano raccolti nel periodo di tempo compreso tra giugno e luglio a seconda delle condizioni atmosferiche. I cereali primaverili per eccellenza, saggina, segale, miglio e panico, detti anche generalmente biade, venivano seminati in maggio-giugno e raccolti in agosto-settembre. Questi, insieme al frumento, non potevano essere venduti a chi non fosse del borgo o del distretto.
L’alternanza dei cereali invernali e primaverili, con tempi di maturazione diversi, riduceva il pericolo di crisi alimentari; in molti casi un cattivo raccolto del grano invernale poteva essere compensato da un esito positivo di quello del grano primaverile. La loro produzione, a causa della morfologia del terreno e della frammentazione della proprietà era piuttosto scarsa. Il raccolto, nonostante ne fosse tassativamente vietata la vendita fuori del distretto, non copriva il fabbisogno per la popolazione. La comunità, più volte, nei momenti di carestia, fu costretta a chiedere, alla potenza dominante, l’autorizzazione ad importare, per esempio, cereali dalla Pianura Padana.
Giovanni Antonio Da Faie lasciò scritto nei suoi ricordi che, verso i primi di novembre del 1453, a causa della carestia, il frumento valeva a Pontremoli 5 lire e 8 soldi lo staio e il panico 2 lire e 14 soldi. Poi, fortunatamente, arrivò a La Spezia, per mare, una grossa quantità di grano sufficiente a sfamare tutta la Lunigiana. Così nel maggio del 1454, a Pontremoli, il frumento costava 4 lire e 10 soldi lo staio e le fave altrettanto [42].
Nell’alimentazione tradizionale lunigianese il pane, nella sua forma più elementare ed arcaica di focaccia o schiacciata, oltre alle castagne, costituiva l’alimento base della dieta quotidiana della campagna. Ma il pane oggi più comunemente noto, il pane di farina di grano, considerato il migliore anche sulla tavola dei contadini lunigianesi, come su quella dei contadini di gran parte dell’Italia, non fu mai una presenza scontata. Il più delle volte era sostituito da focacce di farina di panico o miglio (panici), di farro (spelte), d’orzo, di avena, di castagne miste a grano e segale. Si traeva farina anche dalle ghiande, dalle fave e dai lupini. Il contadino mangiava pane di frumento poche volte all’anno; probabilmente a Natale, a Pasqua e in occasioni straordinarie come matrimoni e durante la malattia.
Era usanza regalare pane quando si andava a trovare un malato, quando nasceva un bambino oppure quando moriva qualcuno; la famiglia del defunto doveva preparare dei pani da distribuire a chiunque fosse andato a far visita. Giovanni Antonio Da Faie ci informa che il dì 22 de zugno 1450 in lunedì in su l’ora de 22 ore è morto maser Giorgio Marchexe da Bagnone.... e a’ dì ultimo d’aghosto veniante, messer Spineta suo fratelo sì li a’ fato dire lo setimo, ed eravi dele persone ben quatrocento ale mese. E al dixinar aveva fato grande providimento: carne de vitel bela, ben pexi XXX e ben sedici stare de pan, polami e altre coxe como se richiede a simili homen come ci era 4.
I fornai (furnari o cirbanarii) e i panettieri (panicocoli), in nome della massima igiene, dovevano lavorare con indumenti puliti e con il capo coperto da un fazzoletto ma soprattutto non potevano tenere animali. Ogni pane, inoltre, doveva portare il marchio del panificatore e del venditore cosicché questi sarebbero stati facilmente rintracciati e puniti se avessero venduto panem minoris ponderis, nigrum, vel male coctum.

2. La vite

Le attenzioni rivolte al terreno del vigneto, cioè la scalzatura, zappatura, vangatura ecc., evidenziano l’importanza e la delicatezza di questa coltivazione che talvolta, maritata a frassini, olmi, aceri e pioppi, pare non desse sempre ottimi risultati (costituiva solo il 7 % di tutto il territorio messo a coltura); il clima non permetteva all’uva di raggiungere il suo massimo grado di maturazione [43]. Spesso le viti venivano piantate ai bordi dei campi, dei viottoli, all’interno degli arativi facendo buche nel terreno alla cui base erano poste delle pietre per assicurare un buon drenaggio. In primavera le viti venivano potate e si provvedeva al loro rinnovo mediante propagginazione. Questa tecnica prevedeva che venisse sotterrato un tralcio della pianta adulta facendone uscire dal terreno l’estremità; la parte interrata, una volta messe le radici, sarebbe stata separata dalla pianta madre.
La pigiatura dei grappoli, che veniva eseguita con i piedi o con mazzuoli di legno, è l’operazione iniziale del ciclo di trasformazione dell’uva in vino. Il prodotto finale della pigiatura è il mosto che pare fosse utilizzato non solo per la vinificazione ma anche come dolcificante o addirittura per conservare olive o altri generi alimentari. Quando il mosto veniva separato da bucce e graspi, per cui si faceva fermentare il solo succo, si aveva la vinificazione in bianco cioè si otteneva vino bianco. Si aveva invece vinificazione in rosso quando si faceva fermentare il mosto insieme alle vinacce. Alla vinificazione, la cui durata variava a seconda della qualità del vino in produzione, seguiva la svinatura cioè la separazione del mosto dalle vinacce (bucce, vinaccioli e graspi dell’uva). Le vinacce della vinificazione in rosso venivano usate, dopo la torchiatura, come mangime e per la produzione di aceto e secondi vini; quelle della vinificazione in bianco venivano torchiate per ottenere vino torchiato.
Il contadino doveva accontentarsi del vinello di seconda qualità quasi sempre torchiato e aspro tanto che per renderlo più bevibile è probabile che venisse mescolato con miele ed essenze vegetali; quello buono veniva venduto (per ogni barile di quello nostrano si doveva pagare la gabella di 3 crosati) o dato al padrone. Singolare è il divieto, sotto pena di 10 lire, di portare nel territorio vinum aliquod natum extra districtum Pontremuli e rivenderlo all’ingrosso e al minuto.
Poteva accadere che i contadini vendessero il loro vino, in cambio di pane o di altre vivande, alle osterie che pare fossero numerose. Gli osti e i gestori di locande erano soggetti ad una legislazione minuziosa: 1) non potevano fare crediti superiori a 5 soldi 9 ; si cercava così di ridurre le eccessive libagioni cui alcuni pontremolesi erano abituati, 2) il vino ( il nostrale, la vernaccia, il razzese e l’amabile) doveva essere venduto al minuto soltanto con appositi recipienti bollati dal comune, 3) per evitare che di notte venisse turbata la quiete dei cittadini si obbligava l’ oste a chiudere dopo il terzo suono della campana, 4) gli esercenti potevano infine tenere soltanto un’insegna sopra la porta del loro negozio 12 e, per limitare la concorrenza, nessuno poteva andare incontro ai viandanti per convincerli ad alloggiare nel proprio esercizio.
Nei paesi di montagna, come Montelungo (830 m. s.l.m.) o Arzelato (870 m. s.l.m.), dove le viti non riuscivano ad attecchire, è probabile che la maggior parte dei contadini facesse il vino di mele o addirittura di mirtilli, servendosi di un semplice mortaio di legno.

3. L’olivo

L’ olivo in coltura specializzata era poco diffuso (rappresentava solo il 4 % della superficie a coltura) non solo perché era un investimento difficile, visto che cominciava a produrre solo dal decimo anno, ma soprattutto perché si preferiva usare, come condimento, il lardo e lo strutto. Nel pontremolese gli olivi si coltivavano a bosco, in pendici di terreno grasso e assolato e spesso in compresenza di viti. Questa associazione è testimoniata anche da alcuni atti notarili. Il 7 settembre del 1471 Stefanino del fu Giovanni Carlini di Zeri diede, con contratto di locazione per 8 anni, a Nicolò del fu Antonio dominus Ferro di Suvero, 1 terra vineata e olivata a Suvero. Nicolò avrebbe dovuto pagare Stefanino con 4 mazarolas di vino. Il 4 marzo del 1473 fu Nicolò del fu ser Antonio olim Bombellino Parasacchi a dare in locazione a Cristoforo del fu dominus Albertino Reghini 1 terra olivata e vineata nei dintorni di Pontremoli. Cristoforo avrebbe dovuto dare a Nicolò la metà delle olive e dell’uva che in questo posto sarebbero nate mentre questi promise di dare due giornate ogni anno per cinque anni.
Il periodo della raccolta era compreso tra novembre e dicembre e veniva effettuato a mano, sugli alberi e non bacchiando le olive da terra con dei bastoni. Gli strettoi o torchi per spremere l’olio, nel pontremolese, erano fatti di grossa trave che s’alzava e si abbassava colla vite e alla quale restava attaccato un grosso contrappeso di macigno. Con tale strumento si spremeva anche il vino dalle vinacce e l’aceto [44].
Bomellino del fu Ser Giuliano del fu Ser Andrea Parasacchi l’11 settembre del 1475 vendette, a scientifico viro medicine doctoris dominus, magister Bartolomeo del fu ser Paolo de Noxeto (Noceti) di Bagnone, burgense in Pontremoli, 1 casa coperta a tegole con frantoio per le olive, tintoria e maglio (malio) e tutti gli edifici presenti in questa casa che si trovava nel borgo di Pontremoli. Giovanni Antonio Da Faie, nel libro de croniche e memorie, a pag. 94, ha lasciato un’interessante testimonianza: L’ano de 1463 fue una grande abondanza di olio, chè credo che se facese più de 40 prede da olio, e valeva uno ducato lo centonaro. In dela vila dela Nezana, che erano XI famigie, g’era circa de X conce d’olio e io avea 25 stare d’olive, e avete barili sei e mezo d’olio. Chi voleva vendere al mercato olio amostrato (fatto) in Pontremoli doveva pagare per ogni peso 3 quattrini (= 6 denari), chi invece voleva vendere formaggio comprato fuora dalla giurisdizione di Pontremoli pagava per ogni somma 24 quattrini (= 4 soldi).
L’olio a minuto si vendeva ad pondus et ad marchum legitimum communis e il bottegaio era obbligato a lucrarvi soltanto 1 imperiale la libbra oltre il prezzo d’acquisto.

4. La castagna

La castagna e i cereali, come evidenziano le numerose citazioni nei libri dell’estimo ed i vari atti notarili, costituivano il principale alimento della popolazione contadina lunigianese.
Intenso era lo sfruttamento del castagneto non solo per l’uso del pascolo ma anche per la raccolta dei frutti, per quella del fogliame, dei funghi e di altri prodotti del sottobosco ma soprattutto per la raccolta della legna che era importante non solo per il riscaldamento ma anche per costruire attrezzi ed utensili. La pianta del castagno cresceva spontaneamente, ad una altitudine che variava tra i 200 e i 1000 metri, ma veniva migliorata notevolmente grazie a cure svariate [45]. Il castagno si moltiplicava per seme ma per guadagnare tempo, trattandosi di un albero a lenta crescita, spesso i contadini piantavano polloni staccati alla base di piante adulte o dalle ceppaie cedue. E’ una pianta che ama i terreni acidi, con ph ottimale di 6,5, e ha radici profonde con un notevole potere decalcificante tanto che gli agricoltori sono sempre stati costretti, nel momento in cui destinavano ad altre colture (vigneti, oliveti e frutteti) zone precedentemente castagnate, ad integrare il terreno con sostanze a base di calcio.
Costituendo, come affermava nel XV secolo lo speziale lunigianese Giovanni Antonio Da Faie, per i due terzi pan di Lunigiana [46]la pianta del castagno era protetta con precise e severe sanzioni. I contadini avevano cura di tenere costantemente pulito il sottobosco e di potare, periodicamente con accette e pennati, le piante per ricavarne frutti più abbondanti sicuramente destinati anche all’esportazione. Questo lo si capisce dal fatto che le castagne non figurano mai fra i prodotti di cui era proibita la vendita fuori distretto.
Gli statuti imponevano ai saltari di vigilare per prevenire danni ai castagneti, agli affittuari di coltivarli con la massima diligenza e stabilirono inoltre che venissero multati di dieci o venti soldi imperiali coloro che venissero sorpresi a tagliare rami o piante di castagno produttive. Coloro invece che fossero stati sorpresi a dar fuoco al proprio castagneto nisi causa faciendi furnellos, ronchos et carbones, senza il consenso del podestà, avrebbero dovuto sborsare 40 soldi e se non li avessero pagati gli avrebbero tagliato la mano se fossero stati uomini, se fossero state donne invece le avrebbero frustate nude per Pontremoli.
La raccolta delle castagne iniziava a metà ottobre e si protraeva fino alla metà di novembre. Di solito si raccoglievano fino a San Martino cioè fino all’11 novembre. A volte il giorno d’inizio della raccolta veniva stabilito di comune accordo dai maggiori proprietari di castagneti. Anche il parroco, durante la messa, poteva annunciare che da tal giorno iniziava la raccolta delle castagne e che quindi le greggi dovevano essere ricondotte agli ovili. La raccolta veniva fatta dall’alba al tramonto e si effettuava in due o tre “passate”. La prima veniva fatta quando erano già cadute molte castagne.
Esse venivano depositate in un cesto detto cavagno oppure in un taschello di canapa legato alla cintura. Quando il cestino e il taschello erano pieni venivano vuotati o in grandi sacchi o in teloni di canapa e spesso portati al mercato dove le castagne erano soggette a gabella (per ogni quartaro quattrini 3 e per ogni stara quattrini 12. La seconda si effettuava in genere sette o otto giorni dopo la prima e dopo una giornata di vento che aveva fatto cadere i ricci con le castagne non ancora giunte a piena maturazione.
Quando il raccolto lo richiedeva si procedeva ad una terza “passata” usando la rusparola cioè un bastone di castagno o nocciolo con una estremità biforcuta o triforcuta con cui venivano spostate le foglie alla ricerca delle ultime castagne. Dopo le varie passate si arrivava alla ruspadura con la quale veniva meno il diritto di proprietà e per questo tutti potevano recarsi nei castagneti a cercare le ultime castagne.
Le castagne venivano consumate fresche, secche, arrostite ma soprattutto venivano essiccate per essere trasformate in farina. L’essiccatoio era un locale costruito vicino all’abitazione o incorporato nella medesima. Questo ambiente, solitamente di forma rettangolare o quadrata, fungeva molto spesso, soprattutto in autunno e in inverno, anche da cucina. Le castagne da essiccare venivano poste su di una grata (gradile), tra il pavimento e il soffitto, formata da aste di legno di ontano, di castagno o di faggio. Queste aste dovevano pagare la gabella che era per ogni centonari quattrini 24 di Genova (= soldi 4).
Il calore necessario all’essiccazione veniva ottenuto bruciando ceppi o grossi rami di legno di quercia o di castagno ricoperti dalle bucce secche delle castagne dell’anno precedente. Le castagne, dopo l’essiccazione, venivano battute sull’aia con rudimentali attrezzi per essere separate dal loro involucro. A questo punto venivano passate al setaccio (crivello). Per la ventilazione veniva usato il vaglio fatto di vimini e di vette di castagno. Una volta scelte le castagne erano pronte per la molitura. Se non erano subito portate al mulino dovevano essere conservate nei sacchi, che venivano ricoperti con le bucce secche delle stesse, negli scrigni e nei cassoni sistemati in ambienti molto asciutti per evitare che l’umidità le rendesse molli e quindi difficili da macinare.
La molitura vera e propria avveniva, per ogni giro della macina (girevole) sul ceppo (fisso), in tre fasi distinte: 1) rottura 2) triturazione 3) polverizzazione I mugnai erano attenti a non macinare castagne molli perché queste avrebbero potuto impastare la macina e il ceppo. Il periodo di molitura durava da novembre ad aprile. La farina era conservata nella cassa detta scrigno o nel bugo che era ricavato da un semplice tronco d’albero, internamente svuotato con l’ascia, nel quale veniva cosparsa cenere ed erano poste foglie di noce perché non fosse aggredita dagli insetti.
Le castagne hanno dato origine ad una notevole gamma di vivande alcune delle quali erano presenti quotidianamente sulle tavole dei nostri contadini. Da sempre in Lunigiana i cibi più comunemente confezionati con la farina di castagne erano la pattona, la polenta e soprattutto il castagnaccio. Era una torta simile alla pattona, ottenuta impastando insieme alla farina latte, pinoli, noci e nocciole (nizolle) e probabilmente cotta nei testi di terracotta [47].
Parlando di castagne è inevitabile ricordare alcuni atti rogati da ser Girolamo Belmesseri. Il primo risale al settembre del 1467 e vide come protagonista Cristoforo del fu Picini della Costa di Saliceto burgense e abitante a Pontremoli che diede, con contratto di locazione, ad Agostino filio Matey di Oppilo, abitante nella Costa di Saliceto, 1 terra castaneata posta nella Costa di Saliceto per 4 anni. In questa terra il suddetto Agostino avrebbe dovuto plantare et alevare 6 piedi di castagno, zappare a tempo debito e farvi una masera di pietre per longum vie....di altitudine e latitudine di due braccia.... et sit duorum capitum e piantare alberi verso il Magra. Il tutto al prezzo di 1 sestario di castagne secche all’anno per l’anno corrente mentre per gli altri tre solo 3 quartari.
L’altro risale al 24 gennaio 1474: Giovanni del fu Francesco olim Lorenzo Guarini di Vignola, abitante a Bassone, affittò a Bernabove del fu Franceschino olim Antonio Pichi 1 terra castaneata e querzata posta nelle vicinanze di Scorano a patto che la zappasse e che sradicasse tutti i piedi di castagno e di quercia che vi erano e che togliesse tutte le pietre che avrebbe trovato in detta terra e tutto questo entro il mese di aprile. Giovanni avrebbe dato per questo lavoro 14 fiorini e mezzo moneta di Pontremoli mentre Bernabove si sarebbe impegnato ad effettuare il lavoro pattuito e a consegnare la terra entro il mese di aprile sotto pena di dieci fiorini.
Quindi vediamo un atto che è stato rogato il 22 agosto 1476 per Pietro del fu Pievanino Zanenchi di Montedilama, abitante a Colloretta che diede, con contratto di locazione, a Giovanni Giacomo del fu Francesco da Pazolo 1 terra castaneata posta nelle pertinenze di Dozzano per 5 anni al prezzo di 1 sestario di castagne secche all’anno alla comune misura di Pontremoli. Sempre in agosto, il 20, ma dell’anno 1477, Paolo di Giovanni Antonio del fu Mini Cabrielli diede, con contratto di locazione, a Tommaso barberio del fu Pellegrino Saltelle di Fivizzano abitante in Pontremoli 1 terra castaneata posta nelle vicinanze di Pontremoli al prezzo di 6 sestari di castagne secche ad culmum all’anno.

5. La canapa e la produzione tessile

Questa fibra naturale rivestiva un grosso interesse per l’ottima resa; aveva la caratteristica di crescere ovunque, di aver bisogno di poche cure ed infine di essere molto resistente.
Si seminava a maggio direttamente sul campo umido e ben concimato distribuendo il seme più o meno fitto a seconda si desiderasse ottenere una fibra lunga o robusta. In agosto veniva sradicata e legata in fasci che venivano messi a macerare in vasche ed essiccati al sole per 3-4 giorni e quindi sottoposti alle diverse lavorazioni per ricavarne il filato. Si iniziava dalla sfibratura fatta con il battitoio (un treppiede con un incavo nella parte superiore) nel quale veniva posta la mannella che veniva ripetutamente battuta a mano con aste di legno. I filacci di canapa così ottenuti venivano poi raffinati mediante la gramola che era un arnese composto da due legni uno dei quali entrava nell’altro per rompere i gambi della canapa, ma anche del lino, allo scopo di separare il tiglio dal tessuto legnoso.
I tigli di canapa venivano poi fatti passare su dei pettini costituiti da fitti e lunghi denti. Dallo scarto di questa operazione si ricavava la stoppa che era ampiamente usata anche per la realizzazione di cordami. Una volta pettinate le fibre venivano filate con la rocca e trasformate in filo che era avvolto sui fusi. I fili venivano poi trasformati in matasse mediante un avvolgitoio rudimentale in legno chiamato aspo. Questo era formato da due supporti fissi che sorreggevano, negli appositi incavi, una crociera rotante sull’asse orizzontale azionata a mano con la manovella. Le matasse venivano poi lavate e candeggiate in appositi recipienti di terra con la cenere per diverse volte, quindi venivano fatte asciugare al sole su pertiche ramificate per uno o due giorni. A questo punto, grazie al guindolo o arcolaio, le matasse venivano trasformate in gomitoli.
La tessitura era un’operazione complessa che richiedeva grande abilità e alla quale si dedicavano perciò solo poche famiglie. I tessitori dovevano confezionare la tela secondo la grandezza commissionata e non potevano frammischiarvi materie prime diverse da quelle loro consegnate. Al telaio il filo di canapa veniva trasformato in tessuto. Venivano tessuti teli grossolani per sacchi, telame ordinario e teli di tipo più fine per la confezione di tovaglie, di coperte di lenzuola e di indumenti in genere.
Naturalmente al telaio veniva tessuta anche la lana e spesso questa e la canapa venivano lavorate insieme per creare un tessuto detto mezzalana usato soprattutto per confezionare capi di vestiario utili per i freddi inverni [48].
Nel gennaio del 1474 Agnese del fu Armanini de Rocha, abitante a Pontremoli, vedova di Zanino del fu Giacopino Pinelli di Berceto abitante in Pontremoli, decise di mandare il figlio Bartolomeo, di 12 anni, da Giorgio del fu Luigi olim ser Giovanni Marco di Stradella di Borgotaro, abitante in Pontremoli, ad apprendere l’arte della lana per 4 anni. Si decise che Bartolomeo avrebbe dovuto risiedere nella casa di Giorgio fedelmente ed applicarsi all’apprendimento dell’arte. Agnese obbligò tutti i suoi beni e in particolar modo la sua dote mentre Giorgio si obbligò a calzare, a vestire e nutrire Bartolomeo.
Leggendo i vari atti notarili e gli statuti troviamo diversi tipi di tessuti che talvolta potevano giungere da altre zone d’Italia (lana mantovana e lana romana) o addirittura dall’estero (seta alessandrina). Anche i tessuti erano soggetti a gabella e quindi chi, per esempio, voleva vendere dell’albagio (arbaso) doveva pagare per ogni brazza 1 quattrino di Genova (= 2 denari). Per ogni peso di lino si doveva pagare 5 quattrini, per ogni peso di lana nostrana 6 quattrini, per ogni peso di lana di agnello, castrone, montone o pecora 5 quattrini, per ogni brazza di tele di caneva 1 crosato, per ogni braccia di panno alto 2 quattrini, per ogni braccia di panno basso 1 quattrino, per ogni braccia di raso cremesino 4 quattrini, per ogni braccia di tele di lino 1 quattrino, per ogni braccia di veluto cremesino 4 quattrini, per ogni lira di seda (seta) che non sia in balla (imballata) 4 quattrini, per ogni pezza di bocassini, fustanij e pignolat [49] 8 quattrini di Genova (= 1 soldo e 4 denari).
Il pignolato, che doveva essere tessuto e tinto secondo l’uso di Parma e di Cremona, veniva venduto anche nella confinante “Lombardia”. Poiché fiorente era l’industria delle tele di pignolato furono eletti dei soprintendenti che avevano il compito di controllare che la tessitura venisse fatta rispettando le regole, che ogni pezza fosse di braccia 27, che tutti i pettini da pignolati fossero uguali in larghezza ed altezza, che le lavandaie di queste tele non facessero il liscivio o rannata con le calcine e che fosse restituito ai committenti tutto ciò che a loro apparteneva fedelmente.
Si cercava di fare in modo che anche la bambagia (filato di cotone) fosse filata alla perfezione. Al capitolo 59 del III libro degli statuti si legge: quaelibet persona, quae bambatium ad fillandum receperit, secundum conventionem bene et legaliter teneatur fillare et non mutare vel camerare, sed continuare fillum, et eiusdem qualitatis et maneriei totum bene facere et fillare et donec compleverit fillare primum non accipere ab alio bambatium aliud ad fillandum; et qui in aliquo contrafecerit poniatur qualibet vice in XII imperialium et damnum emendare cogatur.
I tessuti di Pontremoli avevano tinte piuttosto vivaci (rosso, azzurro, turchino e verde); il filato, prima di essere tessuto veniva colorato mediante l’uso di fibre vegetali. La ginestra scoparia e lo zafferano davano il giallo, il noce dava le tonalità del marrone, le bacche della rosa canina davano i toni rossi mentre il nero veniva ottenuto immergendo più volte il filato in stagni contenenti fanghiglie scure originate da depositi vegetali.


IV - LA CASA

1. L’esterno

Analizzando i contratti d’acquisto di case, sia a Pontremoli che nel contado, dei notai che hanno rogato nel XV secolo a Pontremoli possiamo notare alcune differenze tra la dimora cittadina e quella rurale [50].
Le case rurali erano coperte per lo più con paglia (paleis) a differenza di quelle del borgo di Pontremoli che secondo le disposizioni statutarie dovevano essere coperte con tegole o piagne . Nonostante queste disposizioni alcune case nel borgo di Pontremoli, che erano costituite in genere da più piani e spesso avevano una loggia inferiore e nel retro un piccolo giardino o un orto coltivato ad ortaggi, erano coperte di paglia. Questo spiega perché l’incendio del 1495 abbia provocato danni così ingenti all’abitato di Pontremoli rendendo quasi impossibile individuarne con maggiore precisione l’antico assetto urbanistico.
Generalmente la domus aveva un piccolo spazio ( aia - platea ) davanti o sul retro che, oltre ad essere usato per le operazioni di battitura dei cereali, poteva essere usato come passaggio per collegare le abitazioni vicine. Per quanto riguarda l’uso dei diversi vani è possibile trovare case con la stalla al piano inferiore e l’abitazione in quello superiore; case di artigiani con la bottega ed un retrobottega - cucina al piano terra e le camere sopra, case con cantina - ripostiglio degli attrezzi sotto, camera intermedia e cucina - seccatoio per le castagne al piano dell’ingresso superiore.
Nelle nostre fonti la descrizione della casa rurale è questa : domum unam copertam paleis ( oppure lapidibus ) positam ( viene indicato il nome della località ) cui est ab una parte ( viene indicato il nome del proprietario della casa vicina ) a letere ( si indica il nome dell’altro proprietario della casa vicina) de antea est strata pubblica et retro ( spesso una strada vicinale oppure altri proprietari)[51].
Grazie agli scavi archeologici, condotti dai membri dell’ Istituto di Storia della Cultura Materiale di Genova e diretti dal prof. Mannoni è possibile ipotizzare due tipi di abitazione:
1) Case ad un solo piano, con muri di pietra a secco e terra, coperte con lastre di pietra o paglia, introdotte attorno al X secolo e costruite fino al XIV e XV secolo [52].
2) Case di pietra e malta, a più piani, coperte da tetti in lastre di pietra o tegole, adottate a partire dai secoli XIV - XVI 5.
Sicuramente non dovevano essere scomparse del tutto le classiche capanne costruite interamente di materiale vegetale, di legno, di stoppie e di paglia; materiali poveri, facilmente deperibili, aggredibili dal fuoco, che si gonfiavano con l’umidità, ma anche poco costosi, facilmente disponibili nel paesaggio boschivo del tempo e che permettevano una maggiore facilità e rapidità di costruzione e una manutenzione veloce e poco onerosa. Nel pontremolese, come nell’area dello Zignago in Val di Vara e lungo gli assi vallivi del Geriola ( nel comune di Mulazzo ) del Bagnone e del Taverone, sono ancora rintracciabili esemplari, più o meno conservati e visibili, di “case - torri” [53].
La “casa - torre” era un particolare tipo di struttura che sommava le funzioni tipiche della residenza con quelle proprie della difesa e pare sia derivata direttamente dalla torre di avvistamento e controllo di tradizione romano - imperiale. Al piano terreno di questa struttura pare si conservassero le derrate e l’acqua, al piano rialzato vi era l’ingresso che era servito presumibilmente da una scala retrattile e infine, all’ultimo piano, vi era il rifugio vero e proprio con feritoie adatte alla difesa e alla ventilazione; i piani erano tra loro collegati da botole.
Per avere un’idea del valore che poteva avere una domus basta esaminare alcuni atti del notaio Girolamo Belmesseri : a Pontremoli, nel borgo, per comprare una casa piagnata con uno stabulo (stabiè), erano necessari 70 fiorini moneta di Pontremoli al computo di soldi 48 ciascuno 7 . Sempre a Pontremoli, nel borgo, nella vicinia di San Geminiano, una casa piagnata con accesso e tutto l’edificio cum scrineis omnibus dischis et banchis in ipsa existentibus, si poteva avere, con contratto di locazione, al canone di 6 lire, moneta di Pontremoli, all’anno. A Vignola, nella Valle del Verde, due case coperte a piagne e una cascina con aia, si potevano avere, con contratto di locazione, dando 5 sestari di frumento all’anno. Sempre a Vignola una casa coperta di tegole e in parte di paglia, una cascina contigua con suo accesso più un terreno campivo, altedato, olivato e arborato di diversi alberi, veniva venduta a 110 fiorini, moneta di Pontremoli, al computo di soldi 48 ciascuno. A Invico, nella villa di Dozzano, una casa con terra campiva, vineata, olivata, canepariata e arborata di alberi da frutto, si poteva avere dando, ogni anno, al proprietario la metà dei frutti che qui sarebbero nati. A Casalina, nella Valdantena, una casa con cascina, casamento e terreno si poteva avere, con contratto di locazione, dando al padrone, ogni anno, un sestario di frumento e un paio di capponi. A Zeri, una casa piagnata con suo accesso poteva essere comprata con 31 fiorini, moneta di Pontremoli, al computo di 48 soldi l’uno 13.

2. L’interno

L’arredo interno presentava un quadro misero accentuato dalla promiscuità di persone, animali, oggetti di uso casalingo, prodotti alimentari ed attrezzi per il lavoro dei campi. Come ebbe modo di dire Maria Serena Mazzi, in un suo articolo, le case contadine, nella maggior parte dei casi, povere di cose ed affollate di uomini, mostrano tali e tante lacune da far pensare che vita domestica e vita lavorativa, strettamente intrecciate tra loro, si svolgessero ogni giorno sotto il segno delle privazioni, del disagio e della fatica [54].
La mobilia della cucina pontremolese era semplice ed essenziale. Più frequentemente troviamo la scranna che era collocata di fronte al lato del focolare del camino e separava l’angolo del fuoco dal resto del locale mantenendo il calore ai componenti della famiglia che nella stagione invernale si riunivano a veglia, la tabula pro mensa sulla quale veniva consumato il pranzo, la cassa (cazza) per conservare derrate alimentari e prodotti agricoli (cereali, farine), la madia (mastra) per conservare il pane e per stemperare la farina e lo scrigno che conteneva le vesti e il corredo della casa.
Per quanto riguarda il vasellame troviamo l’orcio, la salsiera, il catino e la catinella. Tra i recipienti da fuoco il tegame, il paiolo (patolus - parolus de ramine), la pentola, la caldaria (lebete), la patella, il laveggio (lavezzo) e il testo. Sono tutti contenitori di diversa grandezza, magni e parvi, talora di pietra altre volte di metallo. Tra i piatti, in legno o in terracotta, talora invetriata, ve ne erano di piani (parassides) grandi e piccoli e di fondi (scutelle).
I bicchieri di vetro non erano di uso comune; li troviamo in terracotta invetriata ma non dipinta. Per finire ricordiamo l’uso di otri (odri) per conservare i liquidi, di mestoli o mestolini, di cuchiari di legno e talvolta anche di mortai di marmo (mortarii).
Al centro del locale era posto il focolare costituito da una base quadrangolare di pietra rialzata da terra sulla quale si accendeva il fuoco. A volte esso era posto in un angolo della stanza ed era sormontato da una cappa che facilitava l’uscita del fumo (camino). Dalla cappa del camino o da un travicello del soffitto pendeva la catena di ferro (catenam ferream) ad anelli, con un gancio, per appendervi i paioli indispensabili per cuocervi le vivande. Sul piano del focolare vi erano le molle, per rimuovere la brace e per adagiare i testi nel fuoco, la paletta, per raccogliere la cenere e gli alari (brandonari) per sorreggere la legna da ardere.
Nelle abitazioni era possibile trovare anche gli oggetti della cantina come le secchie (baccheri), le botti (bozardas), i bariletti, le bigonce e i tinelli (bottellini). Erano formati da doghe di legno tenero di pioppo o di castagno e tenuti insieme da cerchi di legno o di ferro.
Uno dei beni più preziosi dell’abitazione contadina era sicuramente il letto. Questo termine indicava un insieme di diverse componenti che non tutti possedevano. La struttura portante, di legno, era la lettiera (lectiera o lectica) che pare fosse molto semplice e rozza. Su di essa era posto il saccone che era un semplice sacco ripieno di paglia. Troviamo anche chi soleva aggiungere al saccone, per un maggior conforto, il materasso (culcitram) rivestito di stoffa su cui poggiavano le lenzuola (linteamina) e le coperte (copertorio). Difficilmente troviamo il possesso contemporaneo del saccone e del materasso; segno evidente che spesso uno o l’altro sopperivano alle funzioni di ambedue. I lenzuoli, se presenti, sono spesso un solo paio senza possibilità di ricambio. Per quanto riguarda la biancheria è possibile trovare le tovaglie, i tovaglioli (guardanapi), i canovacci, gli asciugamani (manutergia), i grembiuli (scosatos).

3. Il vestiario

La maggior parte della famiglia contadina vestiva in modo semplice e dimesso. Le scarse entrate di molti poderi piccoli e medi non consentivano spese eccessive per l’abbigliamento e per i suoi accessori ornamentali. La maggior parte degli abiti veniva confezionata nelle case dei contadini stessi soprattutto con l’impiego di canapa e di lana come materie prime; gli abiti prodotti in questo modo erano di solito di qualità piuttosto grezza e venivano portati molto a lungo.
Le vesti più portate sono:
a) la gonnella o tunica (spesso di albagio), era una veste più o meno lunga, sia maschile che femminile, che i cittadini usavano portare sotto la sopravveste ma che in campagna doveva essere spesso indossata da sola,
b) la palandra, era una veste spesso colorata, comune a uomini e donne, che si indossava probabilmente sopra la tunica,
c) la sottana (guarnellum), era l’abito tipico delle donne, era di cotone e quindi usato probabilmente nella stagione più calda,
d) la camicia, solitamente bianca e di tela, era indossata da uomini e da donne e poteva essere lunga oltre il ginocchio,
f) il soprabito, era largamente diffuso e poteva essere chiamato anche mantello (mantellum - iorneam), tabarro e gabbano che poi era il mantello con le maniche,
g) il duploide, era un vestito variopinto di lana o seta (zetanini alezandrini).
Negli inventari esaminati compaiono alcune paia di scarpe; il numero è estremamente ridotto e ciò deriva sia dal fatto che chi stende l’inventario, in genere, tralascia quei capi di abbigliamento e quegli accessori logorati dall’uso e che sono assai scarsi. Le scarpe più diffuse erano le sutulae fatte con un unico pezzo di cuoio (coris) e le caligae di panno bianco o colorato; vi erano anche le ciabatte (scarnazze).
Completava l’abbigliamento e ne era un elemento tipico il copricapo che veniva usato sia dagli uomini che dalle donne. Gli uomini portavano copricapi a forma di cappucci (caputei), che potevano essere di panno o di pelle di agnello, le donne invece portavano caputergia di tipo diverso: cuffie ( vettae sive cuffiae o scuffiae di pannolino ) quelle di condizione più agiata, un modesto fazzoletto quelle più povere.
Nonostante le condizioni economiche delle famiglie contadine non siano molto floride capita ugualmente di trovare, negli inventari analizzati, pettini (rattarolle), forcine (spinazze), borse, guanti, pellicce, gioielli (1 zaffiro ligatum in auro del valore di 8 ducati d’oro e soprattutto cinture di seta ornate d’argento (cingulum unum di seta rossa foderata di 3,5 once del valore di 4 fiorini moneta di Pontremoli.
A questo punto è inevitabile ricordare qualche inventario, quelle liste particolareggiate di tutte le cose presenti all’interno delle case. L’inventario dei beni dell’eredità di Pietro e Tommaso, figli di Francesca, del fu Giovanni Beccari olim Antonio di Invico, vedova del fu Giacomo maniscalco abitante a Pontremoli, risale all’11 febbraio del 1461 ed elenca:
1 mantello (jorneam unam) di panno verde foderato di tela rossa con frange di seta verde (cum franzis sirici viridis), 1 mantello di panno morello foderato (frapata) di tela rossa usata, 1 vestito da uomo (panni misculati fini) foderato di panno verde, 1 cintola di seta rossa (cremesiti) con fibula morzento e 15 frange di argento dorato, 1 cintola di seta grane usata con fibula morzento e 20 frange d’argento dorato et est a traverso viride, 1 cintola con un lato di seta e fibula morzento e 5 frange d’argento smaltato, 1 cintola usata di seta con fibula morzente e 6 frange d’argento, 1 ghirlanda di seta rossa cum bemolantis d’argento di circa 3 once, 2 maniche di velluto alessandrino da donna usate, 2 pelli di camoscio nuove tinte di rosso, 1\4 di fodera di martora d’acqua usata, 5 lenzuoli vecchi ed usati, 2 tovaglie da tavola usate, 1 piatto (platellum), 3 scodelline di stagno, 1 padella grande di rame, 2 casse di rame, 1 per l’acqua e l’altra per vianda, 1 bacino, catinella (labetem) di pietra di capacità media, 1 paioletto di rame, 1 catena di ferro incisoria sex ligni, 1 pettine di stoppa, 1 spinacia e 2 sogli di legno, 1 setaccio, 1 zappa, 1 bronzino per l’acqua, 1 disculum, 1 segia per farina, 1 grattugia, 1 coltella (corteleria), 1 spada (gladio), 1 lucerna, 1 pennato genovese per potare, 1 sacconcello di piume di 33 libbre, 1 tina della capacità 6 salme, 1 tinella della capacità di 2 salme, 1 vaso vinario (una vegetem) della capacità di 6 salme, 1 mastra grande pro buratando farina 1 tavola grande (discum magnum), 1 piccola scranetta parmigiana da sedere, 1 schiavinam unam pillosam, 1 coperta col bordo celeste, 1 paio di arnesi con 1 paio di schinere, 1 corazza coperta con una celata, 1 tarchetam pictam cum sexto et una damisella.
Nell’inventario 18 invece dei beni di Pietro e Tommaso del fu Giacomo, fratello di Filippo dominus Falasco, di Antonio olim Pietro Zucchi della Valsassina, abitante a Pontremoli e loro tutore, troviamo:
1 cintola di seta grane con fibula morzento e d’argento smaltato, 1 cintola sirici grane usata con fibbia morzento e 6 frange d’argento, 1 ghirlanda di seta rossa cum tremolantis d’argento dorato di circa 3 once, 2 verghette d’oro cum litteris archum archa, 2 maniche di seta alessandrina da donna usate, 1\4 di pelle di martora d’acqua usata, 5 lenzuoli vecchi ed usati, 2 tovaglie da tavola usate, platellum unum con 3 scodelline di stagno, 1 padella grande di rame, 2 casse di rame, 1 per l’acqua, l’altra per le vivande, labetem unum di pietra della capacità di medie situle, 1 paioletto di rame, 1 catena di ferro, 6 incisoria di legno, 1 pettine per la stoppa spinagiam unam per il lino, 2 sogli, 1 setaccio 1 zappa, 1 bronzino dall’acqua, 1 tavola piccola, situlam unam per la farina, 1 grattugia, labetem unum piccolo, corteleriam unam cum uno gladio, 1 lucena, 1 pennato genovese, 1 sacconcello di piume di 33 libbre, 1 tina della capacità di 6 salme, 1 botticella da 2 salme e mezzo, 1 mastra grande pro buratandum farinam, 1 tavola grande con 1 scranno doppio, 1 scranetta piccola parmigiana da sedere, 1 saccone usato da tenere sotto il materasso schiavinam unam pillossam usata, 1 coperta con i bordi celesti fineta et tristis, par unum de arnesi cum uno pari de schienente pro armando, tarchetam unam pictam cum sexto, 1 damisella.

4. Il mulino

La Lunigiana, attraversata dal fiume Magra e intersecata da una miriade di torrenti e di ruscelli, si presentava come una terra ideale per l’impianto dei mulini fluviali, anche se il regime irregolare dei corsi d’acqua poteva rappresentare un elemento limitativo. Pare che la progressiva divisione dei feudi malaspiniani e il loro spezzettamento abbia portato ad una proliferazione dei mulini.
Mulini consortili o di singoli privati potevano coesistere con quelli signorili o comunali ma generalmente erano obbligati a versare tributi al signore, al comune o alla comunità. Vi erano diversi mulini funzionanti.
Il mulino a ruota idraulica orizzontale era azionato dalla caduta dell’acqua sulle pale captata mediante condotte dai fiumi e torrenti e raccolta nella gora. Le pale, sotto la spinta della forza idraulica entravano in movimento e tramite l’asse verticale di collegamento facevano ruotare la macina. Secondo gli statuti di Pontremoli sono presenti nel borgo di Pontremoli 6 mulini: a) presso l’ospedale degli Infermi al Groppo della Tavernella presso San Lazzaro b) presso Borgo Vecchio c) dei Parasacchi nella Bietola d) della chiesa di San Giorgio e) della chiesa dell’ospedale di San Leonardo a Terrarossa f) di Copino dei Villani sotto il convento di San Francesco 20.
Nel censimento del 1508, relativo a tutto il territorio di Pontremoli, sono menzionati 8 mulini nel borgo e 41 nelle ville.
Per avere ulteriori notizie sui mulini e sulla loro gestione è inevitabile l’esame di alcuni atti rogati da ser Girolamo Belmesseri. Il 1 ottobre del 1461 Petrizolo del fu Giovanni Anselmi di Groppodalosio fece testamento e prelegavit al figlio Simone 1 mulino con 1 paio di mole sul fiume Magra nei dintorni di Groppodalosio e lasciò ad Antonio, l’altro figlio, 1 serra con 1 follo (gualchiera per la feltratura dei panni) e acquedotto posto vicino al mulino. Petrizolo impose di non edificare altri mulini e di non porre canali nel detto territorio e stabilì che nei mesi di giugno, luglio, agosto e settembre non si potesse follare né serrare poiché l’acqua non era sufficiente nemmeno per macinare.
Il 22 gennaio del 1471 magister Domenico del fu ser Giovanni Opici diede in locazione, a magister Giorgio del fu magister Bartolomeo Belmesseri, 1 mulino con mole ed acquedotto, posto a Pontremoli nella località chiamata sovra la terra, con tutte le terre campive, castaneate ed ortive contigue, per 4 anni al prezzo di 7 sestari di frumento, alla comune misura di Pontremoli, ogni anno 22. Per avere un’idea del valore economico che poteva avere un mulino prendiamo in esame 2 atti rogati nel 1473. Il primo risale al 5 aprile e vede Simone del fu Franceschino olim Signorini di Zeri, vendere, a suo nome e in nome e vece di suo fratello Zenone, a Giovanni Martino del fu Zoanardo Tonsi di Zeri, la metà di un mulino, con acquedotto, mole e terreno contiguo, che aveva per indiviso con i Beretini di Rossano, posto nei dintorni di Zeri. Il prezzo fu fissato a 5 fiorini e mezzo, moneta di Pontremoli, al computo di soldi 48 l’uno 23.
Il secondo fu rogato il 18 dicembre ed è relativo alla vendita, da parte di Tommasino del fu Antonio Nozardi di Grondola a Michele Pizzati, anch’egli di Grondola, della sesta parte di 1 mulino, con acquedotto e mole, posto nei dintorni di Grondola, al prezzo di 10 fiorini moneta di Pontremoli.
Imponenti dovevano essere i sistemi di canalizzazione delle acque dei vari torrenti e fiumi verso i mulini con costruzioni di more che avrebbero dovuto deviare il corso principale delle acque. Per questo era necessario il diritto, dal punto di vista giuridico, di disporre del corso d’acqua ed indispensabile era anche il continuo controllo dei responsabili comunali.
Per i mugnai erano previsti speciali permessi di movimento nel contesto urbano con la possibilità d’uso di animali da trasporto anche in orario notturno; specifiche deroghe per l’utilizzazione delle acque di fiumi e torrenti. I mugnai, che spesso venivano pagati con una parte di farina proporzionale al quantitativo di cereali da macinare, come i fornai e i panettieri erano soggetti a mantenere la massima igiene sul posto di lavoro.
Nel primo libro degli statuti, al capitolo 28, veniva proibito che nei mulini o nei dintorni di essi, si tenessero maiali o galline. Il mugnaio, appaltatore signorile o imprenditore in proprio, ha sempre sollevato molta diffidenza ed antipatia tanto che il suo lavoro era controllato dai pesatori delle biade; uno per la zona di San Colombano, l’altro per quella di San Geminiano.
Questi, così come ci informa il primo libro degli statuti, al capitolo 36, avevano il compito di pesare il grano, le castagne e gli altri legumi che venivano portati ai mulini a macinare per poi verificarne la quantità macinata e così garantire che i mugnai dessero il giusto. I mugnai inoltre dovevano attenersi a regole specifiche anche sull’ordine da mantenere per l’accesso alla molitura privilegiando non solo i primi venuti ma anche la clientela locale rispetto a quella forestiera. Il pesatore di San Gemignano andava ad molendinum Infirmorum et Copini de Villanis positum sub domo fratrum minorum et ad molendinum de Burgo Vecchio; quello di San Colombano ad molendinum Parasachi et consortum et ad molendinum ecclesiae Sancti Georgii sive hospitalis Sanctorum Leonardi et Joannis, et inquirere si erunt ibi blava non ponderata et inde accusare ponderantem et molendinarium. Nel territorio lunigianese, nonostante l’antica e capillare diffusione dei mulini ad acqua (documentati a partire dal X-XI secolo), indispensabili allo sviluppo della vita quotidiana delle comunità rurali, non furono abbandonati del tutto i sistemi di macinazione con mortaio 26 e pestello o con piccole macine a mano.

Mulini presenti nel borgo

Vicinia di San Colombano -mulino con frantoio di Giovanni Matteo Villani sul Gordana - mulino di Simone Orsi sul Verde - mulino di Giacomo e Alberto Villani sul Verde Vicinia di Santa Cristina - nessun mulino
Vicinia della Carpanella - mulino di Giovanni Matteo Ambrosini di Navola con 4 mole e 1 frantoro pro oleo sul canale della Carpanella
Vicinia di San Pietro - nessun mulino
Vicinia di San Geminiano - mulino di Bartolomeo Maraffini con 2 mole e 1 frantoio pro oleo in Borgo Vecchio sul magra - mulino di Geminiano Bertoni e Damiani vicino al ponte sul Verde - mulino di Giuliano Parasacchi “ a la Portigotta ” sul Verde
Vicinia di San Nicolo’ - mulino di Stefano Maraffini in Borgo Vecchio sul Magra
MULINI PRESENTI NELLE VILLE
Gravagna mulino dei Bosi sulla Civasola mulino dei Sesti sulla Civasola “a la Molina” mulino dei Magnani sulla Civasola “al molin Bradello” mulino dei Filippi sulla Civasola “al molin Malavolta”
Montelungo mulino dei Leonardi sul Magriola “a la Vigna”
Succisa mulino dei Magistri e Casanova “al rì de la Arolla” o “a la Borgadara”
Cavezzana Antena mulino degli Antognini sul Magra
Teglia mulino dei Magnani de Sirolo sul Teglia
Careola mulino dei Fontana sulla Martiola Torrano, mulino dei Pede sul Mezemola Castoglio mulino dei Ranella “in la Casmila”
Coloretta e Castello mulino dei Testa sul Gordana, mulino degli Iacopini sul Gordana, mulino dei Pelliccia sul Gordana, mulino degli Iacopetti “al Monte” sul Gordana mulino dei Cervaria “ in Alonchamara”
Zeri Mezzadura mulino dei Conti “al fiumo de Tralacqua” sul Gordana, mulino dei Boleri “al fiumo de Tralacqua” sul Gordana
Noce mulino dei Tonsi “in Tralacqua” sul Gordana
Piagna di Rossano mulino degli Schiavi “in acqua Rossani”, mulino dei Giordani “al molin de la Vinichiola”
Montelama mulino dei Bertagnani sull’acqua di Rossano
Monti di Baselica mulino dei Bagin sul Verde “al Verdo”, mulino dei Bertoni sul Verde, mulino dei Civeriae sul canale di Remorascho, mulino degli Antoniocii sul Verde, mulino dei Rezoni con “1 fulo per arbasio e 1 per canebis”
Guinadi mulino dei Riolli “in la Mura” sul Verdesina, mulino dei Pelliccia “al Molin” sul Verdesina, mulino degli Ugoti-Clerici e Pelliccia al Groppo del Tegardo sul Verde con 1 “fulo” per l’albagio e 1 per la canapa
Morana Vignola mulino dei Picinini sulla Pilacca
Bassone mulino dei Pichi al follo sul Betigna
Sommo Caprio mulino dei Taruffi sul Caprio
Serravalle mulino dei Franchi sul Canale
Dobbiana mulino dei Torsoni di Tarasco e dei Pasquali, mulino dei Pini, mulino dei Santi al canale “de la Scoradega”
Versola mulino dei Caselli “al molin Croza”sul Magra
Previdale mulino degli Accorsi a Barcola sul Magra
Groppodalosio mulino degli Anselmi e Fanelli sul Magra mulino dei Delomodarma sul Magra


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Note

[1] Pare che nel Medioevo la Lunigiana, oltre a tutto il bacino del Magra, incluso il suo affluente Vara e il Golfo di La Spezia, comprendesse una parte della pianura lungo la costa ai piedi delle Alpi Apuane; da Moneglia a Framura fino a Marina di Pietrasanta- ( Cfr. P.M.CONTI, Luni nell’ alto Medioevo, p. 4 e segg.).
[2] Cfr. F.BONATTI -G.RICCI, Lunigiana, p. 22.
[3] Cfr. P.FERRARI, Castelli di Lunigiana, p. CVIII.
[4] Ibidem, p. CX.
[5] Cfr. N. ZUCCHI - CASTELLINI, Storia di Pontremoli, pp. 34 - 34.
[6] Cit. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Cantica II: il Purgatorio, canto VIII, vv. 121 - 126.
[7] Cfr. G.CAVALLI, La Lunigiana del quattrocento, conferenza tenuta a Mulazzo nel 1974 nel quadro di una serie di lezioni di cultura popolare organizzate con la collaborazione dell’associazione “Manfredo Giuliani” .
[8] Cfr. E. BRANCHI, Storia della Lunigiana feudale, vol. III, p. 379
[9] Nel xv secolo Pontremoli puntò in maniera decisa ad acquistare il titolo di città nobile. Ma per assurgere a tale qualifica il borgo necessitava di una sede vescovile. Pontremoli è comunque nel medioevo l’unica città della Lunigiana, tanto che nella vicinia di San Colombano risiedeva prevalentemente il vescovo di Luni. Nella vicinia di San Pietro risiedeva, dalla fine del 1200 in modo permanente, il vescovo di Brugnato e la chiesa di San Pietro era considerata commensale con la cattedrale di Brugnato. Il disegno dei pontremolesi, sostenuto dagli Sforza, prima Francesco, poi, dopo la sua morte ( 1466 ), dal figlio Giovan Galeazzo, ma con la probabile ostilità delle diocesi di Luni e Brugnato, non andò a buon fine. Pontremoli dovrà attendere ancora tre secoli per soddisfare questo suo sogno, con la nomina motuproprio a città nobile da parte del granduca di Toscana Leopoldo, nel 1778 e con la creazione della sede vescovile con bolla di Papa Pio VI, nel 1787, Cfr. L. Bertocchi- M. Bertocchi, La chiesa di San Francesco a Pontremoli, p. 35 1 Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. I, pp.77 - 98.
[10] G. ARMANINI, nella sua tesi di laurea, sostiene che il primo a dimostrare l’identità di Pontremoli con Apua fu frate Annio da Viterbo nelle Antiquitatum ariarum volumina XVII cum commentariis.
[11] Cfr. B.CAMPI, Memorie storiche della città di Pontremoli, pp.49 -62.
[12] Cfr. L.ANTIGA, I toponimi “l’Aulla” ,”Filattiera” e “Pontremoli”, pp.33 -35
[13] “Pontremolese” perché Pontremoli era il primo borgo di una certa entità che, superato l’Appennino, incontrava chi proveniva da Fornovo.
[14] Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. I
[15] Cfr. M.GIULIANI, Saggi di storia lunigianese, pp.217 -218.
[16] Cfr. G.TARGIONI TOZZETTI, Relazioni di alcuni viaggi fatti in diverse parti della Toscana, vol. XI, pp.218 - 219.
[17] Cit. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol.II, p.535.
[18] Pare che l’anno precedente, quando l’esercito dell’Imperatore attraversò Pontremoli, alcuni dei soldati svizzeri che costituivano la retroguardia, avessero aggredito alcune donne provocando la reazione dei pontremolesi che uccisero, secondo le cronache del tempo, 18 soldati. Quindi al ritorno, il 27 giugno, gli svizzeri, nell’appiccare il fuoco alla città, non fecero altro che mettere in atto l’annunciata vendetta. ( Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. II, p.531 ).
[19] Cfr. M.GIULIANI, L’Appennino Parmense - Pontremolese, pp. 13 -14.
[20] Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. II, p.664.
[21] Il cap. 41 del libro I dello statuto prescrive: teneatur Saltuarii castrorum et villarum et aliorum locorum districtus Pontremuli diligenter etiam custodire et salvare vineas et castanea, et alias terras et loca, fructus et res burgensium Pontremuli, quae habentur in pertinentiis et districtu dictorum castrorum et villarum et locorum, scilicet singuli saltuarii in sua saltaria.
[22] Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. I, pp.277-278.
[23] Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol.I, p.279
[24] Cfr. G.FOURQUIN, Storia economica dell’occidente medievale, p.308.
[25] Cit. G.SFORZA, Memorie e documenti, p.657.
[26] Cfr. A. AROMANDO, Il trattato tra i cittadini e i rurali di Pontremoli del 1579, pp. 65 - 87.
[27] Cfr. P.FERRARI, La chiesa e il convento di S.Francesco a Pontremoli, p.49.
[28]Cfr. A.BALDINI, L’oligarchia dei comuni medievali : i burgenses di Pontremoli, vol. XXXVII, pp.211 -245.
[29] Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche e memorie, p.131.
[30] Cfr. G.SFORZA, Memorie e documenti, vol. I, pp. 272-273.
[31] Cfr. V.BIANCHI, Le scuole pubbliche in Lunigiana, vol. XXXII, pp.283-287.
[32] Cfr. G. MANFREDI, Massa Carrara, p. 225.
[33] Cfr. G. RICCI, Zeri, guida storico-turistica, p. 19.
[34] La vilia de Pasqua dè chavaleri che fo a dì 11 de mazo 1448, in su l’ora del vespero, vene una tempesta crudele e gravissima dove l’andò, durò due ore, o cercha, per modo che guastò dove l’andò; tutto ciò che era di fuora, infra le altre coxe le vigne che erano cosa più tenera. Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche e memorie, p. 16.
[35] Odi che charestia menò questa tempesta, che Dio ebe pietà de noy misiri pechatori, che per lo novelo (a raccolta) el grano non valeva so no soldi 36 e 34 el staro... Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche e memorie, p. 66.
[36] 10 L’ano de 1463 fue uno grande inverno de fredo e neve in grande quantità .... A’ dì 16 de marzo vene la neve grosa e ali monti d’entorno intorno, e po' se calò per li piani e con vento e gradisimo fredo ....Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche e memorie, p.94.
[37] Cfr. G. CAVALLI, Note di etnografia lunigianese: la lavorazione del latte, p.114.
[38] Cfr. G. CAVALLI, Gli antichi metodi di pesca nel fiume Magra e nei suoi affluenti, 193-215.
[39] Cit. A. CESENA, Dell’ origine et successi della terra di Varese, p. 7.
[40] Cfr. L. GIAMBUTTI, M. NATALI, La lavorazione del legno, p. 2.
[41] Le querce, in particolari condizioni climatiche, producono “noci di galla”, di cui nel Medioevo si è fatto un grande uso per la produzione di inchiostri. Le noci di galla sono escrescenze a forma di noce o palline irregolari che la quercia produce sui rami per reazione alla puntura di un insetto; accade soprattutto in luoghi solatii. Il colore è determinato dal notevole accumulo di tannino che la pianta produce e accumula nella noce per reazione alla puntura dell’insetto. Le colline pontremolesi, ben esposte al sole e naturalmente popolate da querce, costituivano un ambiente idoneo allo sviluppo delle galle su quercia. Talvolta si indica col nome di galla anche una pianta isas - tinctoria che produce un tubero simile alla rapa e dalla quale si estraeva un colorante azzurro per tessuti. Tali coltivazioni sono conosciute, per la val di Vara, fino all’inizio del secolo. ( Notizie fornitemi dal prof. ERMINIO FERRARINI dell’Università di Siena ).
[42] Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche, p. 81.
[43] L’ano del mileximo soprascrito (1465), a’ dì 8 de lulio se vede ancora la neva in su l’Arpe in tre logi de za da l’arpe. La stade fo poco caudo, per modo che nesuno fruto fo in perficione. Li vini fono pochi e si bruschi che non se poteano bere. Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche, p. 98.
[44] Cfr. G. SFORZA, Memorie e documenti, vol. I, p. 68.
[45] Cit. D. COLTELLI, La civiltà del castagno in Lunigiana, p. 160.
[46] Cit. G.A. DA FAIE, Libro de croniche, p. 156.
[47] Il testo è un recipiente a forma di teglia con un coperchio a cupola dotato di manico di terra che è già documentato tra quelle norme che si possono ritenere precedenti alla prima stesura degli statuti cittadini (1391) comparendo tra i beni soggetti a gabella piccola nelle disposizioni del libro I degli statuti (capitolo 72).
[48] Cfr. G. CAVALLI, La coltura e la lavorazione della canapa, pp. 111-121. 39 B.C.P., Statuti di Pontremoli, III, 57.
[49] Stoffa di lino e canapa tessuta e colorata all’uso di Parma e Cremona in Pontremoli, non solo usata localmente ma esportata anche in Lombardia.
[50] Cfr. F. BONATTI, La casa rurale nelle fonti notarili lunigianesi del XV secolo, p. 184.
[51] Cfr. F. BONATTI, La casa rurale nelle fonti notarili lunigianesi del XV secolo, p. 184.
[52] Cfr. T. MANNONI, Modi di abitare e di costruire nella Lunigiana medievale, Vol. I, p. 211.
[53] Cfr. P. FERRARI, Escursioni in Val di Magra. Un Paese che sta per scomparire: Ponticello, p.10.
[54] Cit. M.S. MAZZI, Arredi e masserizie della casa rurale nelle campagne fiorentine del XV secolo, p. 152