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Le nuove metodologie d’indagine tecnico-scientifica applicate alle scienze forensi, per quanto avanzate, sembra non riescano a fare sempre chiarezza su tanti efferati crimini a cui, nonostante la scientificità dei mezzi messi in campo, non si riesce a dare una plausibile e realistica soluzione.
Le moderne tecnologie, chiaramente visibili nelle varie serie televisive stile “CSI & C.”, sono effettivamente esistenti: il sequenziatore per la ricerca e la successiva comparazione del DNA (acido desossiribonucleico), il microscopio ad assorbimento atomico, definito anche “SEM” (Scanning Electron Microscope) associato alle varie microsonde analitiche (EDX e WDX), il microscopio comparatore (usato soprattutto nelle indagini balistiche), gli scanner a tempo di volo (per la ricostruzione in 3D della scena del crimine) e così continuando, hanno creato delle aspettative che hanno affascinato il pubblico e la pubblica opinione, ma non sono la panacea universale per arrivare all’identificazione del colpevole, ovverosia il fine ultimo dell’indagine criminalistica.
Il dato bruto tirato fuori da una complessa macchina da laboratorio, da solo, non è utile per risolvere i problemi.
La scena del crimine è la più verace testimone dell’episodio delittuoso su cui si concentrano le attività investigative; sebbene “muta” essa “ha visto tutto” e in lei esistono le tracce rilasciate dall’assassino, quando si è avvicinato alla vittima, quando l’ha uccisa e quando si è allontanato lungo la via di fuga al termine dell’iter criminis.
L’esperto analista della scena del crimine (attività di Crime Scene Analysis) è colui che le dà “voce”, e che è in grado di discriminare gli elementi oggettivi di giudizio realmente riconducibili al rapporto “intimo” tra vittima e carnefice da tutte le altre tracce fuorvianti, anch’esse presenti sul teatro dell’accaduto ma affatto pertinenti all’episodio delittuoso a cui si riferisce una data indagine, ivi comprese quelle dovute ad inquinamento specifico o aspecifico che possono aver alterato la scena del crimine, a volte rilasciate, inconsapevolmente, proprio dagli specialisti intervenuti per le attività investigative di sopralluogo.
Tutti gli elementi utili raccolti devono essere messi in relazione tra loro e combaciare perfettamente come le tessere di un mosaico, che una volta completo ed incorniciato diventa uno strumento di ineguagliabile utilità per la risoluzione del caso, ma che deve essere valutato in modo corretto al fine di non pervenire a conclusioni aberranti che porterebbero ad un “verdetto tecnico” in grado d’inficiare la genuinità del quadro probatorio.
Bisogna necessariamente convenire che non sempre, anzi direi raramente, è possibile pervenire ad una verità processuale che rispecchi fedelmente, nei minimi particolari, quella dei fatti accaduti, unica ed assoluta.
A cosa serve, ad esempio, accertare l’esistenza di tracce di DNA ritrovate su un capo di biancheria intima di una donna uccisa, magari appartenenti a un suo fidanzato sospettato di esserne l’assassino (vero o presunto tale), quando non è possibile stabilirne l’esatta collocazione temporale del suo ivi depositarsi? A nulla! E’ doveroso precisare, pertanto, che come non esiste il delitto perfetto, analogamente, non esiste l’indagine perfetta, ed accettare quindi senza riserve i limiti delle scienze forensi, che non possono essere in alcun modo travalicati a discapito della verità scientificamente ricercata.
Credo che, oramai, i tempi siano maturi per comprendere che i “risultati miracolosi”, scaturiti in qualche caso da diversi laboratori di indagini criminalistiche, siano essi organici a strutture dello stato o appartenenti ad organizzazioni private, non possono continuare ad essere considerati tali, e che gli esiti degli accertamenti tecnici debbano essere valutati da chi sa metterli in giusta correlazione, con logicità e precisione cronologica, con l'episodio criminale per cui si procede.
Viceversa , in sede di giudizio, si corre il rischio di incidere in modo indelebile sulla vita di persone verosimilmente innocenti, attribuendo valore di prova a dati tecnici incongrui, o addirittura viziati da un evidente margine di errore, per condurre in carcere un presunto colpevole, allo stesso modo di quanto accade quando si considerano veritieri elementi tratti da testimonianze palesemente incongrue, che potrebbero essere valutati, nel migliore dei casi, solo come meri indizi.
Nel processo penale, secondo il nostro ordinamento giuridico, affinché si formi una prova contro un imputato nel contesto del dibattimento, è indispensabile la coesistenza di almeno 3 indizi che siano gravi, precisi e concordanti.
Ed inoltre, per concludere, ritengo corretto ed imprescindibile continuare a perseguire il principio giuridico di prassi consolidata secondo cui "in dubbio pro reo", il che sta a significare che in mancanza di prove incontrovertibili è meglio un colpevole fuori dalle carceri, che può essere comunque tenuto sotto sorveglianza, che un innocente dentro, a cui niente e nessuno potrà restituire la serenità perduta a causa di un’accusa ingiusta e di un altrettanto ingiusto stato di detenzione.
Nota
Riproduco volentieri nel mio sito l'articolo del perito balistico Gianfranco Guccia che ben espone su quali vie perverse si siano avviate attualmente le indigini di tipo scientifico. EM
( 7 novembre 2008)
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