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Nota di Edoardo Mori
Riporto questo ottimo studio di Marco Morin e Luca Soldati perché è esemplare per illustrare il livello della scienza balistica in Italia, nel bene e nel male; dimostra da un lato che vi sono professionisti validi, che hanno approfondito all'estremo i problemi, che sanno utilizzare al meglio la letteratura internazionale; dall'altro dei periti che credono di poter dimostrare le loro tesi con qualche testo straniero mal compreso e con un solo esperimento (sic!).
Nel caso Marta Russo la Polizia scientifica aveva preso (tra le altre) una cantonata scambiando una particella proveniente da freni a disco per un residuo di sparo; è un dato assodato in letteratura da 15 anni che occorre fare attenzione a non commettere questo errore.
In uno scritto pubblicato su di una rivista americana nel 2004, alcuni autori italiani, vicini agli ambienti della Polizia Scientifica, cercano di "rivoltar la frittata" sostenendo che nei freni a disco non possono svilupparsi alte temperature, e quindi particelle simili a quelle dei residui di sparo!! Per loro sono quindici anni che Scienza internazionale e Giustizia hanno sbagliato tutto!! Poco male, se questo scritto non continuasse ad essere utilizzato per difendere perizie attuali della polizia scientifica, del tutto indifendibili!
Il metodo seguito è quanto di meno scientifico si possa immaginare: che c'entra la temperatura raggiunta dai freni a disco con la temperatura raggiunta dalle particelle che si formano per l’attrito e poi si disperdono nell'ambiente? Lo sanno anche i bambini che un pezzo di acciaio percosso con una selce rimane freddo! Ma le scintille arrivano a 3000° con acciaio al cerio e superano i 1500° con acciaio normale, il quale, per l’appunto, fonde in perfette microsferule. Certe figuracce sulle riviste internazionali potremmo anche risparmiarcele.
Si veda anche questo secondo articolo del dr. Felice Nunziata
Marco Morin e Luca Soldati
Residui di sparo da freni a disco
Per osteggiare una realtà ormai accettata da tutti i migliori laboratori criminalistici – e cioè l’impossibilità di individuare in modo certo le autentiche particelle di residui di sparo – nei tribunali italiani si è fa da qualche tempo riferimento ad un lavoro (Nota 1) che in realtà, come vedremo, non solo non affronta il problema specifico ma sviluppa un discorso scientificamente inaccettabile. Si tratta di un articolo col quale chi lo ha scritto presume di dimostrare che nei sistemi frenanti a disco delle automobili, in cui da tempo è stata dimostrata la formazione di particelle molto simili se non identiche a quelle prodotte dallo sparo di munizioni (con innesco a base di stifnato di piombo, solfuro di antimonio e nitrato di bario) non vengono raggiunte le condizioni di temperatura e di pressione perché il fenomeno possa avvenire. Come si vedrà in realtà è stata scelta una metodica assolutamente inidonea, peraltro utilizzata scorrettamente in quanto non si è indicata la natura del campione esaminato, ed è stata violata una delle più elementari norme del metodo scientifico: da un unico dato si è preteso di ricavare una legge generale.
Intendiamo cioè il seguente scritto:
Per quanto riguarda l’introduzione salta subito all’occhio la rassomiglianza della prima frase con la prima frase, sempre dell’introduzione, del lavoro indicato nelle References da Ingo e colleghi come [1] M.K. Stanford, V.K. Jain, Wear 251 (2001) 990–996, rassomiglianza che qui sotto noteremo evidenziata:
Risulta quindi evidente che la prima frase dell’introduzione è stata certamente letta: dubbi possono insorgere per quanto riguarda il resto in quanto nel lavoro di Stanford e Jain si parla di temperature anche di 800°C. Non solo. Leggendo il titolo – che, come gli altri 8, risulta omesso nel References - e l’Abstract riscontriamo
che nel saggio vengono trattate in modo specifico le caratteristiche di attrito e usura di particolari rivestimenti (Stellite, Diamalloy, ecc.) applicati ai dischi dei freni e che l’unica notizia utile agli autori italiani era quindi la temperatura massima di 800°C notizia peraltro non utilizzata.
Prima di proseguire e esporre le valutazioni che questo articolo merita, sarà utile fornire qualche breve notizia sul funzionamento dei freni a disco delle automobili. Un disco (o rotore) generalmente di ghisa è in asse con la ruota e gira insieme ad essa. Quando si aziona il pedale del freno, grazie a un sistema di trasmissione ad olio idraulico, due pastiglie (o ferodi) contenute in un complesso chiamato “pinza” sono spinte contro il disco e lo stringono a morsa. Per via dell’attrito il disco, e di conseguenza la ruota, iniziano a diminuire la loro velocità di rotazione: l’energia cinetica di cui è dotata l’automobile si trasforma in calore la cui intensità è in funzione della pressione esercitata dalle pastiglie e della velocità di rotazione del disco stesso.
Qui sopra vediamo l’immagine di un normale freno a disco: 1) perno di scorrimento della pinza; 2) finestra controllo spessore della pastiglia; 3) corpo della pinza; 4) valvola di spurgo; 5) alloggio del pistone; 6) tubo flessibile dell’olio; 7) pastiglia frenante; 8) fessure di ventilazione; 9) disco o “rotore”; 10) mozzo della ruota; 11) tappo antipolvere; 12) bullone della ruota.
Questo disegno schematico permette di comprendere il funzionamento del freno: azionando il pedale l’olio idraulico provoca il restringimento degli elementi della pinza e il conseguente contatto delle pastiglie con la superficie del disco.
L’immagine sopra riprodotta ci presenta l’organizzazione interna di un complesso frenante.
Esempio di dischi con vani e alette di raffreddamento.
Altro tipo di dischi raffreddati sia con vani e alette sia con fori passanti.
La fotografia sopra riprodotta fa vedere la situazione nel corso di una frenata: La corona circolare del disco su cui agiscono le pastiglie è arroventata mentre cascate di faville di varia intensità luminosa evidenziano le altissime temperature raggiunte localmente.
Si è detto più sopra che l’energia cinetica della vettura viene trasformata in calore: detto calore si sviluppa per attrito fra la pastiglia frenante e il disco e va a interessare tutto il complesso del freno. La circostanza che il freno sia esposto all’aria e che il disco sia dotato di appositi vani (Nota 2) e alette di raffreddamento (Nota 3) inclinate nel senso di marcia permette di limitare il riscaldamento del dispositivo a valori tollerabili, in genere compresi fra i 300 e gli 800°C (valore massimo riscontrato in una vettura da corsa).
Ma nel nostro caso l’importante è sapere quali temperature si possono sviluppare nei punti di attrito fra pastiglia e disco. Possiamo già anticipare – più sotto forniremo le prove – che queste temperature sono in grado di superare localmente, e non di poco, i 2000°C e che quindi, fra calore e pressioni, sussistono le condizioni per la formazione di particelle comparabili a quelle dei residui dello sparo. Questo fenomeno è dovuto al fatto che per ragioni originate da microscopiche scabrosità delle superfici , sia della pastiglia sia del disco, il contatto fra i due elementi interessa non più del 20% dell’area della pastiglia. Area che, a sua volta, risulta essere compresa fra il 20 e il 35% di quella della corona circolare del disco su cui agisce. Il calore prende quindi origine da una zona molto ridotta dove dagli “hot spots” si sprigionano delle “flash temperatures” molto elevate.
In buona sostanza il riscaldamento di tutto il complesso frenante prende origine da una zona di attrito molto limitata, zona dove le temperature risultano estremamente elevate, ben superiori di quei 720°C indicati come limite nell’articolo che stiamo esaminando.
Veniamo ora alle dimostrazioni scientifiche di quanto qui sopra esposto.
Come abbiamo già notato, nel periodo evidenziato dell’Abstract (riassunto) gli autori italiani informano di aver riscontrato che la temperatura nell’interfaccia compresa fra la pastiglia del ‘ferodo” e il disco non può superare i 720°C. Nell’introduzione scrivono però che “This latter value could largely vary and some authors [1,2] have reported different estimated values for the maximum contact surface temperature, ranging from 600 to 1500 ◦C at the interface between the automotive brake pad and the metallic counter-face.” E che cioè altri studiosi hanno indicato temperature di contatto comprese fra i 600 e i 1500°C. Le opere indicate sono [1] Malcolm K. Stanford e Vinod K. Jain (Friction and wear characteristics of hard coatings in: Wear 251 (2001) 990–996) e [2] Carlo Torre et al. (Brake linings: a source of non-GSR particles containing lead, barium, and antimony. J Forensic Sci 2002;47(3):494–504. Se ne è già accennato più sopra: nell’introduzione del primo lavoro si parla di temperature di 800°C, informazione peraltro attribuita a M.G. Jacko ( Physical and chemical changes of organic disc pads in service), Wear 46 (1978) 163–175. Sempre come abbiamo già rilevato il saggio è dedicato alle caratteristiche di attrito e di usura dei rivestimenti, applicati con processi di spray termico, a base di ferro, nichel, cobalto, ecc. ecc., e risulta pertanto difficile comprendere le ragioni per cui gli autori italiani lo hanno citato.
Nel secondo lavoro, le cui conclusioni si ambirebbe contestare, Torre e colleghi scrivono che : “It must be remembered that, while braking, the temperature inside the metallic disk brake exceeds 600°C, reaching over 1500°C in friction spots on the disk surface (Dr. Kostantin Vikoulov of ITT Automotive Italy S.p.A., Barge, Italy, personal communication).
Si tratta quindi di notizia ottenuta da una comunicazione personale, circostanza che secondo uno degli autori italiani (Falso) permetterebbe di mettere in dubbio quanto sostenuto da Torre e colleghi. A prescindere che Falso pare ignorare che la formazione di particelle di frenatura identiche ai residui di sparo era stata già segnalata nel 1998 alla comunità scientifica internazionale da Claudio Gentile e Marco Morin (grazie alle indicazioni fornite da Robin Keeley), è evidente che ha frainteso, peraltro insieme ai suoi colleghi, la frase in inglese sopra riportata. Frase che recita: “E’ necessario ricordare che nel corso della frenata la temperatura del sistema a disco supera i 600° C, raggiungendo e superando i 1500°C nei punti di frizione della superficie del disco”.
Risulta quindi evidente che quanto affermato da Torre e colleghi è: la temperatura generale del complesso frenante (disco, pastiglie frenanti e pinza) può superare in determinati casi i 600°C (Nota 4) (è opportuno ricordare che i freni a disco subiscono un notevole raffreddamento anche grazie alle speciali alette di cui dispongono) mentre i 1500°C o più si sviluppano localmente in alcuni punti di frizione fra pastiglia e disco. E’ quindi completamente sbagliato attribuire agli studiosi torinesi di aver comunicato: estimated values for the maximum contact surface temperature, ranging from 600 to 1500 ◦C at the interface between the automotive brake pad and the metallic counter-face. e cioè: i valori stimati della temperatura massima, che si estendono tra 600 e 1500°C sull’interfaccia fra le pastiglie frenanti dell’automobile e la controfaccia metallica.
Sul problema delle reali superfici di contatto nell’ambito di un complesso frenante a disco segnaliamo il seguente lavoro:
Nell’ Abstract (riassunto) possiamo leggere:
“Malgrado l’enorme quantità di prove e miglioramenti relativi ai freni e al materiale frenante delle automobili, molto poco si sa della loro condizione di contatto tribologico a livello microscopico. Lo sfregamento di una pastiglia frenante organica contro un disco di ghisa è molto diverso dalla maggior parte dei sistemi tribologici. Quando viene logorata contro il disco la struttura complessa e la composizione altamente disomogenea delle pastiglie si evidenzia in una particolare struttura superficiale, con larghi altipiani di contatto che si ergono di alcuni micrometri sopra il resto della superficie”.
Più avanti troviamo scritto:
“Il calore di attrito sviluppato in un freno di automobile è alquanto elevato. Nel corso di una forte frenata di una normale auto famigliare, la forza dissipata da ciascuna delle pastiglie frenanti anteriori può oltrepassare gli 80 kW. Come si dirà più sotto, l’area di reale contatto (fra pastiglia e disco) è limitata a circa il 20% dell’area di contatto nominale (che poi è l’area della pastiglia) e lo spessore dello strato superficiale deformato è inferiore a un micron. Il totale del volume deformato è così inferiore a un millimetro cubo e la potenza dissipata per volume diventa 80 TW/m3. Questo corrisponde al dissipare la potenza di 80 reattori nucleari in un decimetro cubo”.
Quanto sopra ci fornisce un idea delle enormi energie di attrito che si sviluppano in zone di superficie limitatissima. Ed è proprio in queste zone, che chiameremo “hot spots” primari, che si formano le “flash temperatures” o temperature lampo estremamente alte. Abbiamo denominato “hot spots” primari queste zone ridotte per distinguerle da quelle molto più estese, sempre denominate in tribologia “hot spots”, che si possono formare sui dischi. Questi ultimi hs, oltre per le dimensioni, si distinguono in quanto individuano una zona in cui si è avuto un cambiamento di stato del metallo riscontrabile a occhio nudo una volta che il disco si è raffreddato. Per maggiori delucidazioni consultare il lavoro indicato nella nostra nota 6.
Qui sopra troviamo la parte del testo dove viene illustrato quanto poco della pastiglia frenante viene a contatto con il disco.
Nella porzione di testo evidenziata si legge:
“Come avviene in tutte le situazioni di contatto, le forze di frizione vengono trasferite dalla reale superficie di contatto. A causa della topografia delle pastiglie l’area di vero contatto risulta confinata all’interno degli altopiani di contatto, vedi Fig. 5. Ciononostante, in un momento qualsiasi, la reale area di contatto risulta molto piccola rispetto all’area totale degli altopiani.”
Come abbiamo detto più sopra nel lavoro degli autori italiani la temperatura massima possibile sulla superficie frenante viene indicata non superiore ai 720°C e questo sulla base di rilevazioni termogravimetriche eseguite su frammenti del materiale frenante. In realtà ci troviamo dinnanzi a un grosso equivoco e a notevoli imprecisioni che ora tenteremo di chiarire.
Vediamo innanzitutto chi sono gli autori, due dei quali lavorano per il CNR (Ingo e Padeletti), due appartenenti alla Polizia di Stato (Falso e D’Uffizi) e uno operante presso il Dipartimento di Scienze Chimiche dell’università di Catania (Bultrini).
Gabriel Maria Ingo, chimico, risulta conosciuto per i suoi studi sui bronzi antichi e la loro cura e ha al suo attivo in questo settore una notevole produzione scientifica, mentre la sua collega Giuseppina Padeletti, anche lei chimica, è nota per le sue ricerche sull’ossido di Titanio e le ceramiche antiche.
Di Bultrini si sa poco: chimico, lavora a Catania e pare che anche lui si interessi di conservazione di reperti antichi.
Giacomo Falso è un perito chimico laureatosi all’Aquila in Scienze delle Investigazioni, noto alle cronache soprattutto per il caso Marta Russo.
Mario D’Uffizi è un ingegnere che, dopo un breve periodo trascorso alla Polizia Scientifica, venne trasferito al per lui evidentemente più congeniale servizio telecomunicazioni.
Nessuno quindi pare possedere sufficienti nozioni di fisica e una competenza specifica sul funzionamento dei freni a disco e sui materiali frenanti. E’ forse superfluo dire che questi ultimi rivestono un ruolo essenziale nel processo di decelerazione forzata e sono quindi oggetto di continuo studio e sperimentazione. In questo specifico settore indichiamo alcuni recenti studi:
Ma, se prendiamo in considerazione i riferimenti bibliografici (References) elencati a pagina 68 del lavoro italiano – indicati per modo di dire in quanto, contravvenendo alle regole accademiche, in nessun caso viene indicato il titolo del lavoro – troviamo degli articoli che, se veramente letti, avrebbero certamente messo al corrente gli autori sia sui problemi relativi alle differenze dei materiali frenanti, sia su quelli relativi alle aree di attrito. Esaminiamone alcuni.
Prendiamo il lavoro [7] H. Zaidi, A. Senouci, Appl. Surf. Sci. 144-145 (1999) 265–271.
Notiamo innanzitutto che in questo studio sono presi in considerazione i freni a tamburo e non quelli a disco e che quindi, anche se i materiali di attrito sono uguali, i problemi di attrito e riscaldamento sono diversi. In seguito, fornendo le specifiche sperimentali, indicano la natura della suola frenante (Ferodo 44) e le sue principali caratteristiche fisiche. Molto interessante risulta poi la circostanza che questi autori abbiano riscontrato la presenza di piombo nei residui di frenatura, come viene dimostrato dal sotto riportato spettro analitico
Passando a [8] M. Eriksson, F. Bergman, S. Jacobson, Wear 232 (1999) 163–167. abbiamo la sorpresa di trovare chiaramente indicata nell’introduzione la natura del contatto fra pastiglia e disco.
Qui sopra possiamo infatti leggere:
“Questo contatto è diviso in un certo numero di piccoli altopiani di contatto, Questi altopiani di contatto costituiscono delle aree relativamente piatte che si elevano per alcuni micron sopra i dintorni irregolari (vedi Fig. 1).”
Detta figura, meglio di diecimila parole, fa comprendere la particolare natura che caratterizza il contatto fra pastiglia frenante e superficie del disco.
Il contenuto di questo studio smentisce poi l’affermazione che troviamo a pagina 68 dell’articolo italiano e cioè:
“Indeed, usually, during standard brake testing, wear rate and brake pad performance trends are determined without investigating the mechanisms responsible for these trends [8,9].”
E cioè, posto in italiano:
“ Invero, generalmente, gli andamenti dei tassi di usura e del comportamento delle pastiglie frenanti, nel corso delle prove standard, vengono determinati senza investigare i meccanismi responsabili di detti trend [8, 9]”.
Altrettanto avviene nel lavoro [9] G.J. Howell, A. Ball, Wear 181–183 (1995) 379–390. il cui titolo è rilevabile qui sotto.
Sarebbe stato sufficiente una rapida lettura per condividere invece le conclusioni degli autori, fra cui la prima:
e, cioè:
“Sono stati investigati il meccanismo di usura di due dischi MMCs (Metal Matrix Composed) composti di alluminio al magnesio-silicio e delle loro matrici non rinforzate e lo slittamento della ghisa contro una varietà di materiale frenante.”
Nell’articolo degli autori italiani vengono presi in considerazione una pastiglia frenante usata e il suo particolato da attrito, una pastiglia nuova asseritamene del medesimo tipo e dei cristalli di stibnite (solfuro di antimonio Sb2S3). Questo materiale è stato sottoposto ad analisi termica differenziale e ad analisi termogravimetrica (DTA-TG): sulla base dei risultati ottenuti gli autori affermano (pag. 67) che la massima temperatura raggiunta dalla superficie di contatto durante le frenate non supera i 720°C.
Questo valore, come abbiamo visto, può essere attribuito alla superficie in toto ma non certo alle singole ridotte aree di frizione. Il sistema analitico impiegato, che non è assolutamente in grado di fornire le informazioni desiderate dagli indagatori italiani, risulta peraltro essere stato più volte utilizzato per studiare il comportamento dei vari tipi di pastiglie frenanti. A titolo di esempio ricordiamo questo lavoro:
nel quale peraltro possiamo leggere:
“Nel corso della frenata si osserva talora sulla superficie del materiale frenante una temperatura superiore ai 1000°C.”
La sperimentazione, ovviamente, è stata eseguita su più campioni: qui sopra viene riprodotta la curva DTA-TG del esemplare X, un materiale semi-metallico.
Il lavoro di Ramousse e colleghi risulta proficuo per chi studia i vari tipi di “mescola” da utilizzare per la realizzazione di migliori pastiglie frenanti: il lavoro di Ingo et al., finalizzato esclusivamente a controbattere una realtà ormai accettata dal mondo scientifico, non possiede alcuna ravvisabile utilità.
Quello che stupisce poi è che non si è tenuto conto della insorgenza, nell’interfaccia frenante, dei già menzionati “hot spots” (Nota 5) , cioè di minuscole zone volumetricamente ben determinate nelle quali pressione e temperatura (“flash temperature” (Nota 6) ) raggiungono valori che superano di molto i valori medi riscontrati nel complesso in esame.
Abbiamo peraltro il sospetto che i dipendenti del Consiglio Nazionale delle Ricerche probabilmente non fossero a conoscenza della particolarissima problematica legata alla formazione dei residui di sparo. Infatti in nessun punto dell’articolo troviamo accenno a questo imprescindibile fattore, rendendo quindi illusoria ogni pretesa di evidenziare che le condizioni termodinamiche (pressione e temperatura) che si generano al momento della frenata non sono in grado di produrre particelle con morfologia e composizione analoga ai residui dello sparo, come incautamente Falso ha altrove scritto.
Nel seguente lavoro, peraltro elencato da Ingo e colleghi fra le References, troviamo una informazione relativa alle temperature raggiunte localmente: infatti, a pagina 1476 possiamo leggere, evidenziato e indicato dalla freccia:
“Questo significa che ci si può attendere “flash temperatures” dell’ordine di 1500°C anche a una velocità di frizione di un metro al secondo”
E’ da osservare come questo lavoro - indicato dagli autori italiani come opera di riferimento (Reference) [3] W. Österle, M. Griepentrog, Th. Gross, I. Urban, Wear 251 (2001) 1469–1476., peraltro in modo incompleto in quanto manca come al solito il titolo – viene utilizzato più volte per ragioni legate alla natura delle pastiglie ma il passaggio da noi riportato risulta elegantemente ignorato.
Per quanto riguarda gli “hot spots” rimandiamo ai seguenti lavori:
Nella parte evidenziata leggiamo: “Per regioni legate a instabilità termica il disco può deformarsi nella direzione di scorrimento provocando delle aree di alta temperatura locale, conosciute come “hot spots” (punti caldi)”.
Nel seguente libro, pubblicato nel 1996, troviamo riferimento al collegamento fra la flash temperature e gli hot spots
Tradotto in italiano si ha:
“Ricordarsi che le Equazioni 5, 6 e 7 rappresentano la crescita di temperatura nell’area virtuale di contatto, mentre le equazioni 8 e 9 si riferiscono all’area reale di contatto ruvido ed è questa la ‘flash temperature’ di cui si parla in alcuni lavori. La flash temperature relativa ai contatti elastici (equazione 8) è molto superiore rispetto a quella per i contatti plastici (equazione 9) perché non viene imposto alcun limite elastico (punto di snervamento) alla pressione di contatto. Per questa ragione vi sono alcuni punti di contatto accidentato estremamente caldi.”
Nella seguente opera leggiamo quanto segue:
“E’ importante, dal punto di vista dell’usura, prevedere le temperature degli ‘hot spots’ di un contatto di slittamento. … omissis …. In un non recente studio sperimentale, Bowden e Tabor hanno osservato hot spots aventi una durata compresa fra 0.1 e 1.0 millisecondi. …omissis … Più recentemente Winer e Griffioen hanno effettuato misure delle temperature superficiale con una macchina fotografica all’infrarosso registrando locali ‘flash temperatures’ superiori ai 2000°C. “
Dal momento che non siamo impegnati a compilare un trattato sui freni a disco e sui relativi problemi termodinamici, termochimica e tribologici ma solo a contestare il risultato di uno studio facilmente confutabile, riteniamo opportuno a questo punto chiudere con l’argomento.
Concludiamo quindi ribadendo che nelle zone di contatto fra pastiglia e disco, al momento di una frenatura, si creano delle zone dove temperatura e pressione sono di valori uguali o superiori a quelli che secondo il Basu (Nota 7) si sviluppano al momento della deflagrazione dell’innesco di una cartuccia (1500-2000°C di temperatura e 98, 4 kg /cm2 di pressione per meno di 0,5 millesimi di secondo), momento in cui si formano le caratteristiche particelle dei residui dello sparo. Se in queste zone sono presenti gli elementi piombo, antimonio e bario, elementi peraltro contenuti in alcuni tipi di pastiglie, si può avere la formazione di particelle del tutto identiche a quelle che fino a 14 anni or sono erano ritenute provenienti esclusivamente dallo sparo di armi da fuoco.
In definitiva gli autori italiani, da un punto di vista scientifico, hanno commesso i seguenti errori:
- hanno sottoposto ad indagine un solo tipo di pastiglia frenante di cui non hanno indicato la marca, il tipo e la composizione e altresì non hanno fornito le specifiche del disco. Nei lavori scientifici l’indicazione di questi dati è, per ovvie ragioni, inderogabile. Quello che segue (Nota 8) è un esempio delle minime informazioni che ci si sarebbe aspettato in proposito :
The brake pads used are of a semi-metallic friction material (Young's modulus, 0.3 GPa; Poisson's ratio, 0.25; thermal expansion coefficient, 57x10-6/°C; specific heat, 1000 J/kgK; thermal conductivity, 0.9 W/mK). The disk is of cast iron (Young's modulus, 170 GPa; Poisson's ratio, 0.25; thermal expansion coefficient, 11x10-6/°C; specific heat, 434 J/kgK; thermal conductivity, 48 W/mK).
Per rendere comprensibile questa frase è sufficiente segnalare che i brake pads sono le pastiglie frenanti.
- ignorando la struttura e i problemi dei freni a disco hanno ritenuto che tutta la superficie della pastiglia frenante venisse a contatto con il disco e che pertanto la temperatura fosse omogenea su tutta l’area e questo malgrado quanto illustrato in alcune delle opere da loro indicate come di riferimento,
- da un risultato, errato, hanno enunciato una norma di validità generale, violando così i più elementari principi del metodo scientifico.
- si sono avventurati in un settore nel quale nessuno, apparentemente, aveva specifiche conoscenze;
- il riferimento citato al numero [6] L.H. Madkour, J. Chem. Phys. 94 (1997) 620–634. è errato o inesistente. L’annata 1997 del The Journal of Chemical Physics è contenuta nel volume 107 mentre il volume 94 si riferisce all’anno 1991: a parte questo il nome L.H. Madkour non risulta essere presente in nessuna annata di questo periodico.
L’unico Madkour presente, come si può notare dalla finestra di ricerca sopra riprodotta, è tale Tarek M. che però si occupa di argomento del tutto diverso.
La pretesa, chiaramente espressa in più occasioni, di avere invalidato con questo studio quanto rivelato già nel 1998 da Torre, Gentile e Morin e poi pubblicato a stampa nel 2002 da Torre e colleghi risulta così del tutto infondata.
NOTE
1) G.M. Ingo et al. Thermal and microchemical investigation of automotive brake pad wear residues In: Termochimica Acta 418 (2004).
2)
A.D. McPhee, D.A. Johnson Experimental heat transfer and flow analysis of a vented brake rotor In: International Journal of Thermal Sciences 47 (2008) 458–467.
3)
G P Voller et al. Analysis of automotive disc brake cooling characteristics In: Proc. Instn Mech. Engrs Vol. 217 Part D: J. Automobile Engineering 2003
4)
In: Demers, J. R. "Development of the fade stop brake cooler" fourproducts, 24.6.2004 si parla di più di 800°C.
5)
Lo stesso termine viene talvolta impiegato per definire le aree del disco su cui, per il maggior attrito, la temperatura supera gli 800°C (cfr. Kao, T.K. e J.V. Richmond Brake disc hot spotting and thermal Judder: an experimental and finite element study In: Int: J. Of Vehicle Design, Vol. 23, Nos. 3/4, 2000). Queste aree sono facilmente rilevabili in quanto la perlite si trasforma in martensite e risultano visibili a disco raffreddato.
6) Sudipto Ray and S.K. Roy Chowdhury Experimental investigation into the effect of 3D surface roughness parameters on flash temperature In: Industrial Lubrication and Tribology, Volume 63 · Number 2 · 2011 · 90–102
7) Basu S. "Formation of gunshot residues" In: Journal of Forensic Sciences, 27 - 1 - 1982
8) Chongdu Cho, Sooick Ahn Thermo-Elastic Analysis for Chattering Phenomenon of Automotive Disk Brake. In: KSME International Journal, VoL 15 No.5, pp. 569-579, 20 T
9) Torre C, Mattutino G, Vasino V, Robino C. Brake linings: a source of non-GSR particles containing lead, barium and antimony. J Forensic Sci 2002;47:494–504.
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