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Ho pensato questo leggendo del caso orribile degli affidi di bambini fraudolenti a Bibbiano (Reggio Emilia): esso dimostra la perfetta e nota inutilità del Tribunali dei Minorenni che hanno spento il cervello per delegare ciecamente ogni decisione a psicologi e assistenti sociali, senza alcun controllo sulla loro capacità, umanità, onestà. Ma può mai essere che compito dei giudici non sia di giudicare, ma solo di mettere timbri sull'incontrollato lavoro di altri? Come si giustifica il loro stipendio?
Notate come sulla stampa sia apparsa la notizia dell'operazione con numerosi arresti, ma non vi è traccia che vi siano magistrati indagati; ciò solleva molte domande. La procura di Ancona competente per essi (deve essere diversa da quella di Reggio Emilia) non ha aperto alcun procedimento? Oppure lo ha aperto, ma tiene la cosa segreta perché non si può sputtanare un giudice come avviene per un qualsiasi cittadino? Oppure ha archiviato tutto scrivendo che sono stati ignavi, ma non disonesti?
Io stesso ho saputo di casi, in altre regioni, in cui è stato lo stesso giudice a manovrare per far finire un bambino al solito amico o raccomandato. Per tacere delle centinaia, o forse migliaia, di padri perseguitati per accuse di molestie ai figli, inventate, ma prese come oro colato da psicologi o criminologi criminosamente stupidi, ascoltati come oracoli da giudici incapaci. Oppure di tutti qui bambini strappati ad una famiglia per darli in adozione, lasciando ad uno psicologo il compito di risolvere il problema di fondo se il bambino soffra di più a stare con dei genitori inadeguati o ad essere strappato da loro e catapultati in un modo estraneo. E senza che nessuno si sia mai posto il problema della concreta affidabilità dell'assistente sociale incaricato di valutare la situazione. Si veda sull'argomento il recente libro di Maurizio Tortorella.
Ad analoghe considerazioni mi ha indotto il caso Binda-Macchi accaduto a Varese e che viene ben esposto nell' articolo di Alberto Miatello che riporto in calce.
Premetto che ho tenuto conto solo dei fatti certi perché la ricostruzione di un processo in base agli articoli di stampa è necessariamente frammentaria e poco affidabile. Si noti come non si trovi mai traccia di attività del Procuratore capo o del Presidente del Tribunale di Varese oppure del ruolo svolto dal giudice istruttore fino al 1990 e dal GIP o GUP successivamente.
Le procedure seguite sono state senz'altro anomale.
Anomala la gestione del caso Giuseppe Piccolomo, del tutto trascurato da forze di polizia e procura della repubblica. Nel 1987 vigeva ancora il vecchio codice di procedura penale e le forze di polizia potevano anche svolgere indagini di propria iniziativa, ma il caso è stato trattato come un furto di galline in cui gli inquirenti aspettano che un confidente gli dica chi è stato l'autore! Io mi ricordo che all'epoca ero Giudice Istruttore e feci pubblicare sui giornali gli elementi che potevano far indentifica l'auto di un molestatore sessuale.
Anomala la gestione da parte degli inquirenti che di fronte al caso Macchi non lo ricollegano agli episodi di molestia, il che avrebbe dovuto imporre un ben diverso metodo e ritmo di indagine.
Assurda e immotivata la fisima che l'autore del delitto dovesse ricercarsi nell'ambito degli scout della comunità religiosa frequentata dalla Macchi, che era Comunione e Liberazione e non una setta satanica: perché mai avrebbe dovuto andare a cercare la Macchi all'ospedale quando poteva entrare in contatto con essa in luoghi ben più adatti a tentativi di molestia?
Pare proprio che la fisima fosse potente, anche nella mente del Procuratore della Repubblica perché arrivava a disporre il fermo di un sacerdote, senza alcun elemento a suo carico e ordinava l'arresto per falsa testimonianza dei testimoni che confermavano il suo alibi! Pare che anche il fermo fosse disposto senza il rispetto delle regole processuali.
Il modo migliore per distruggere un'indagine è di imboccare una pista sbagliata e di non voler più ammettere che era sbagliata. Anche dopo che il prete era risultato chiaramente innocente il PM omise di proscioglierlo, ed egli rimase formalmente imputato fino all'ottobre 2014 quando un altro PM scoprì la magagna.
Anomala la gestione della vicenda del Piccolomo, riaperta dalla procura generale, che aveva avocato gli atti, ed a carico del quale sono emersi indizi importanti: le sue dichiarazioni ai familiari di essere l'autore dell'omicidio, la personalità psicopatica, il riscontro del cartone; forse non sufficienti per condannarlo ma sicuramente tali da configurare quella situazione probatoria intermedia, detta un tempo "insufficienza di prove" e se il caso fosse stato affrontato subito con la dovuta capacità, sarebbero potute emergere ben altre prove.
Ma ciò che è assolutamente sconvolgente è come la giustizia proceda ad emanare condanne senza mai essersi posto il problema di che cosa sia la prova penale e che cosa significhi la regola COSTITUZIONALE, secondo la quale si può condannare solo quando è escluso ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza dell'accusato. Questa regola, è chiaro, ha spazzato via il medievale principio del convincimento del giudice il quale, si badi bene, in un collegio si forma in base al convincimento della maggioranza dei giudici. In altri paesi si richiede, quantomeno, che vi sia un unanime convincimento perché se sue tre giudici due propendono per la condanna e uno per l'assoluzione, già vi è un ragionevole dubbio che il caso non sia proprio così chiaro come si vuol far credere! Negli Usa è spesso richiesta l'unanimità di 12 giurati perché se anche uno solo ha dei dubbi si ritiene che non si può condannare. In Italia si verifica, ad es, che in primo grado tre giudici concordemente siano per l'assoluzione. Il PM impugna l'assoluzione (anomalia del nostro diritto che egli possa farlo senza avere nuove prove!) e in Appello due giudici sono per la condanno e uno per l'assoluzione; l'imputato si ritrova condannato sebbene quattro giudici lo ritengano da assolvere e solo tre da condannare!
Nei casi come quello di Binda in cui vi è un imputato non scagionato con formula piena, ma solo per insufficienza della prova, non si può procedere contro un altro imputato se non si è già raggiunta la prova certa a suo carico. Altrimenti logica e ragionevolezza impongono di capire che mai si potrà eliminare il ragionevole sospetto che l'imputato prosciolto sia proprio lui il colpevole. Nel caso in esame sarebbe stata necessaria una piena confessione di Binda avvalorata da concreti elementi di riscontro, tali da escludere una confessione da mitomane. Era una situazione tanto chiara che mai il PM avrebbe dovuto perdere tempo a raccogliere fantomatici indizi, per definizione del tutto inutili, e mai il GUP avrebbe dovuto rinviare a giudizio sulla base di elementi probatori che mai avrebbe potuto portare ad una condanna, se non con la giustizia delle banane.
Eppure in tutti gli pperatori è scattato un cortocircuito fra due neuroni: se Piccolomo è assolto dobbiamo cercare un altro colpevole! Ma Piccolomo non è stato prosciolto perché vi erano prove della sua innocenza, ma solo perché mancava una prova decisiva per condannarlo. Egli restava comunque il più forte indiziato di essere il reo. Purtroppo da molti atti emerge che secondo i due neuroni, se non possiamo condannare Piccolomo dobbiamo condannare un altro perché un colpevole ci deve essere!
Fin dal primo giorno dei miei studi di educazione civica mi hanno insegnato che, come detto da Voltaire, è meglio lasciare impunito un colpevole che condannare un innocente. Dove hanno studiato i nostri giudici? Che maestri hanno avuto?Forse il Beccaria quando diceva che Il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati è di condannare i deboli innocenti!
Quando sentirete parlare di "schizofrenia della giustizia", pensate al caso Binda e saprete che cosa si intende! La differenza è che la malattia si cura!
Nella vicenda Picccolomo si innestava un cammeo di inefficienza giudiziaria; quando si andavano a cercare i reperti con i residui di sperma prelevati alla Macchi in sede di autopsia, si scopriva che erano stati distrutti! Cosa normale nella giustizia italiana in cui non vi sono regole e norme sulla conservazione dei reperti dopo la chiusura di un fascicolo. Anzi è normale che il giudice nella sentenza di condanna ordini la confisca di quanto in sequestro ed è normale che egli (violando la legge, perché non è sua competenza) ne ordini la confisca e la distruzione. Avviene così che in Italia, anche con i progressi in materia di DNA, sia impossibile un processo di revisione, così come avviene in altri paesi. Solo se il PM (e il GI o GUP se è esso chiude il processo) è molto diligente e ci pensa, avviene che facciano annotare sul registro dei corpi di reato che i reperti devono essere conservati fino a diversa disposizione. Io ho seguito per trent'anni i corpi di reato del Tribunale di Bolzano, in quanto interessato a studiare le armi, e gli unici reperti conservati anche dopo la chiusura dei processi erano quelli relativi agli attentati dei terroristi tirolesi perché il loro modus operandi era sempre lo stesso e potevano servire per comparazioni. A Varese si erano accorti, a seguiti di ispezione, che il servizio dei corpi di reato era mal gestito, che vi erano due quintali di droga e 300 armi da eliminare e si decise di procedere a ciò; compito esclusivo del cancelliere addetto al servizio. Questi ha redatto un brogliaccio di 88 pagine, scritto a penna e quasi illeggibile con l'elenco dei corpi di reato relativi a parecchie centinaia di fascicoli, e poi lo ha fatto firmare dal GIP quale giudice dell'esecuzione e dopo lo ha mandato al PM per il visto.
Ovviamente nessuno lo ha mai letto, come avviene in tutti gli uffici d'Italia, visto che dalla lettura dell'elenco non si ricava nessuna notizia utile per il controllo e non si possono certamente riesumare dall'archivio e leggere centinaia di fascicoli. La gestione è tutta del cancelliere che è il custode ufficiale dei corpi e che chiede una specifica decisione al GE solo quando si deve decidere se confiscare o restituire, se vendere o distruggere i beni confiscati.
La situazione tragicomica scatta quando nel giudizio contro Binda il GIP Ottavio D'Agostino viene chiamato come teste per testimoniare sulla sparizione dei reperti. La testimonianza non doveva essere ammessa perché la situazione era già chiara dai documenti, perché un giudice non può essere chiamato a testimoniare sui suoi atti che sono già atti pubblici che attestano verità ufficiali, perché l'accertamento era del tutto irrilevante del processo contro Binda. E, se per ipotesi si fosse voluta ipotizzare una responsabilità del GIP, questo doveva essere informato che aveva diritto di non rispondere. Invece viene interrogato e messo alle strette pur sapendo i suoi colleghi che egli aveva gravi problemi di salute e familiari con conseguente ansia e depressione, tanto che era in corso la procedura per il suo pensionamento anticipato. Il poveretto va in panico, si confonde, non ha il coraggio di ammettere di non aver mai letto l'elenco, non sa spiegare perché accanto ad alcun reperti vi sia scritto il nome della vittima, dice che la responsabilità è tutta del cancelliere (ed in effetti questi sarebbe stato l'unico responsabile se avesse fatto qualche cosa di irregolare, il che non era). Quanto al fatto che vi fosse il nome della Marchi i giudici del collegio, se fossero stati all'altezza e avessero avuto, doverosamente, qualche nozione di servizi di cancelleria, avrebbero saputo che nel registro dei corpi di reato questi vengono registrati con i dati iniziali e quindi, spesso, come relativi ad ignoti; quando poi sopravvengono degli imputati può accedere che si segni alla buona che quei reperti sono relativi al tale imputato o alla tale vittima, solo per poterli trovare più facilmente. Ma la regola è che i CdR hanno solo un numero e che solo tramite una rubrica si può risalire al fascicolo.
Le conoscenze dei giudici e PM nel processo erano tali che nessuno di loro pare sia andato a vedere che cosa c'era scritto nel registro dei corpi di reato! È mai possibile che uno possa giudicare il mondo quando non sa neppure che cosa c'è in casa sua?
La conseguenza di ciò è che il PM del processo ha chiesto la trasmissione degli atti per procedere contro il povero D'Agostino per falsa testimonianza e calunnia (ma egli non aveva detto nulla di falso e non aveva calunniato nessuno in quanto aveva detto solo la verità: se responsabilità c'erano, erano del cancelliere o del PM che non aveva dato disposizioni sulla conservazione dei corpi di reato), evidentemente ignorando che comunque egli non era punibile perché per difendere sé stessi si può testimoniare il falso. Ed anche i giudici del Collegio ignoravano ciò perché si sono lasciati andare a giudicare il D'Agostino dicendo che era colpevole, ma che aveva agito per difendere il proprio onore: non avevano affatto il diritto e la competenza di dichiararlo colpevole e di assolverlo ed è inaccettabile che non conoscessero queste elementari regole del diritto che tutelano il diritto di difesa (come poteva difendersi il D'Agostino da questa "sentenza" di colpevolezza inserita in un processo di cui non era parte?).
Per quanto riguarda il modo con cui la Corte di Assise ha valutato come indizi probanti fatti e circostanze assolutamente prive di qualsiasi rilevanza probatoria, pare di assistere ad un delirio paranoico. Dico questo perché proprio un mio collega, colto da un attavo paranoico (mania di persecuzione) veniva da me e mi diceva "ecco la prova che mi vogliono distruggere; questa mattina ho aperto il mio codice penale e c'era d'entro un foglietto bianco, proprio alla pagina dove si parla di omicidio", "ho messo un registratore nel mio ufficio alla sera e non ha registrato nessun rumo; è la prova che chi è entrato ha cancellato il nastro". È evidente che se si ragiona così si può dimostrare qualsia cosa. Dice giustamente Voltaire, datemi tre righe scritte da una persona e lo faccio impiccare. Proprio come successo a Binda che aveva l'animo gentile, forse era stato attratto dalla vittima ed ha scritto una poesia per ricordarla. E purtroppo pare che a questo metodo delirante non sia estranea la polizia che ha svolto le indagini ed ha accumulato una miriade di particolari totalmente privi di qualsiasi significato; sarebbe come cercare di dimostrare la colpevolezza di un soggetto perché al mattino si è lavato i denti e a mezzogiorno ha litigato con la moglie!
Il tentativo di stabilire se il Binda avesse un alibi, ricercando nella memoria de testimoni 26 anni dopo il fatto è cosa di surreale stupidità.
Abbastanza sconvolgente è anche l'attenzione fideistica che la sentenza di condanna ha dedicato alle perizie grafologiche come se la grafologia fosse una scienza esatta. Ma se una nota grafologa è riuscita a fare una perizia su di un biglietto scritto con il computer!! La consulente della difesa è stata strapazzata ed offesa perché ha messo in dubbio i risultati delle consulenze di ufficio e si legge questa bella considerazione; come si può sostenere che la lettera anonima sia stata scritta dalla teste? Ma come di fa a valutare la teste se non si valutano tutti i fatti, ivi compreso quello che possa scrivere una lettera anonima? Non esistono i testi veritieri per nascita.
Un velo pietoso sul fatto che la Corte abbia ritenuto ammissibile una consulenza psicologica sulla famosa poesia: basta leggerla per capire che è solo uno sproloquio di parole che hanno lo stesso valore degli oroscopi. Chi può provare che lo psicologo abbia anche doti di critica letteraria? Hanno mai provato a metterle in mano una poesia rara di Leopardi e controllare se egli ne esce come santo o come delinquente? Ma i giudici non dovrebbero aver sviluppato molti più di uno psicologo la capacita di valutare la valenza di un testo scritto? E come è possibile fare affidamento sulla capacità divinatorie dello psicologo il quale è informatissimo sui fatti da valutare? Un conto è se gli si mette in mano un testo e lui scopre che lo ha scritto Napoleone; ma se gli si dà un testo firmato da Napoleone e gli si dice di dedurne il carattere di Napoleone è ovvio che non dirà mai che è stato scritto da un sant'uomo!
Illegale è anche l'uso in giudizio della perizia psichiatrica disposta su Bimda: questa viene disposta esclusivamente per stabilire se l'imputato è capace di intendere e volere; se lo è la questione è chiusa e la perizia non può essere utilizzata per valutare la personalità dell'imputato, cosa espressamente vietata dal vecchio codice di procedura penale, ma ancora valida in quanto espressione di un principio fondamentale (Cassazione costante); tanto meno può essere utilizzato contro l'imputato ciò che egli ha riferito allo psichiatra in assenza del proprio difensore.
Altamente ridicolo (ma tragico nella sostanza) l'interrogatorio del Binda in cui si pretende di fargli precisare particolari di cose trascurabili di 26 anni prima e si considera indice di colpevolezza ogni sua incertezza! C'è da tremare a leggere una frase come questa: La risposta di Binda è ampollosa, come se volesse confondere i giudici popolari, tanto che il Pubblico Ministero si sente in dovere di semplificarla per renderla più comprensibile. Egli astutamente parla di inverosimiglianza della ricostruzione, non già di errore o di bugia della teste, ben sapendo che il ricordo di Patrizia Bianchi è sorretto da un'annotazione sulla sua agenda, che gli viene appunto mostrata. Chi scrive si è dimentica che poche pagine prima ha riportato la relazione dello psichiatra il quale espone come il Binda abbia proprio quel modo particolare di esprimersi! Pare di essere all'epoca dell'Inquisizione in cui se l'interrogato sotto tortura confessava era colpevole; se non confessava lo era ancora di più perché il demonio lo aveva aiutato a resistere!
E c'è da tremare a leggere queste considerazioni dell'estensore: L’imputato ha deciso di farsi riprendere dalle telecamere in occasione dell’esame in dibattimento, esprimendo una scelta di senso opposto rispetto a quella iniziale di non essere ripreso, che aveva mantenuto per tutte le altre udienze del processo. Ferma restando la piena legittimità della decisione, non può non sottolinearsi come la scelta di rendere l’esame, e di essere ripreso in tale attività dalle telecamere, sia espressione del narcisismo e della misoginia di Stefano Binda, vale a dire di quei tratti di personalità caratterizzanti, che spingono l’imputato ad esibire alle telecamere la propria cultura, all’interno di una sfida pubblica col Procuratore Generale, di sesso femminile. Con tale notazione intende la Corte rilevare che Stefano Binda, nel rendere l’esame, non abbia propriamente fornito elementi a sua difesa, o spiegazioni delle prove a suo carico; piuttosto, il tenore delle sue dichiarazioni e il comportamento processuale appena descritto sono risultati, nel loro complesso, una disfida verso la Pubblica Accusa, un tentativo di smontare la tesi accusatoria non già per reclamare la propria innocenza, bensì per apparire più bravo degli inquirenti. L'estensore improvvisamente non è più giurista, ma psicologo!
Ma vi rendete conto dell'enormità: il fatto che l'imputato cerchi di difendersi diventa una prova della sua colpevolezza!
E qui mi fermo osservando che nella sentenza si è accuramene omessa la doverosa motivazione su come sia possibile che non vi siano ragioni di dubbio. È proprio vera la regola che quando per dimostrare la colpevolezza di un imputato si devono scrivere più di tre pagine, vuol dire che la prova certa manca e che egli va assolto! E infatti il Binda verrà assolto dalla Corte di Assise di Appello nel luglio 2019.
Mi si consenta di dire, considerando che sono al 50% varesotto, che la giustizia a Varese pare avere dei buchi neri.
Prima il caso Binda che grida vendetta, con procedure della procura molto casalinghe e con omissioni e ritardi che porteranno poi al trasferimento del processo alla procura generale di Milano; purtroppo di male in peggio.
Poi il caso Giuseppe Uva condotto talmente male che non ci si è capito più nulla. Di fronte al caso di un ubriaco portato di notte in caserma e poi in psichiatria e morto il mattino dopo, pare che non sia stata disposta nessuna perizia sul cadavere e non sono stati sentiti testimoni. Ciò ha dato adito ai familiari di sostenere successivamente che il cadavere presentava chiari segni di violenza, ma stranamente non hanno fatto una foto né hanno chiamato un medico; però la cosa è finita in politica è si è scatenata la solta macchina del fango politica contro le forze di polizia. Il GIP respinge la richiesta di archiviazione degli atti e chiede che si proceda contro polizia e carabinieri (forse il primo caso in Italia in cui si ipotizza che CC e PS vadano d'accordo) e il PM procede contro i medici dell'ospedale a carico del quale vi era solo la prova che uno ha fatto una iniezione ad un soggetto agitato. Viene processato ed ovviamente assolto. Allora si procede contro polizia e carabinieri che vengono assolti sia in primo grado che in appello; ma la pubblica accusa non resiste alle sollecitazioni mediatiche e va in Cassazione che conferma ovviamente le assoluzioni.
Anche questo un caso in cui il GIP e il GUP avrebbero dovuto riconoscere che al momento in cui valutavano il fascicolo non ci erano prove sufficienti e non vi era modo di acquisirne altre. Sotto questo aspetto andrebbero forse rivalutate le accuse contro il PM Abate (censurato dal CSM con provvedimenti non definitivi, salvo quello per il caso UVA) il quale, in fin dei conti è stato l'unico a non montare processi contro innocenti, salvo quello contro i medici per il caso UVA! Proprio in relazione al caso Macchi è anomalo che si censuri il PM per non aver proceduto ad indagare ed accusare chi riteneva innocente ed è poi risultato essere innocente.
Come definire una giustizia che funziona così? Avrei molte parole in mente, ma non le dico perché devo applicare la regola che non si condanna se non si esclude ogni ragionevole dubbio; ed io conosco i fatti solo dalle notizie di stampa e non so quale ambiente vi fosse al Tribunale di Varese.
Qui trovate la copia in PDF della sentenza di condanna di Binda
Si veda qui il mio studio sulla prova nel processo penale e
il mio altro studio sul perché dell'inefficienza del processo penale .
***
La prova logica e l'abuso della perizia tecnica. Il caso Binda-Macchi.
di Alberto Miatello
Introduzione
Vorrei suggerire - quale legale e studioso di criminologia da oltre 30 anni - a tutti gli operatori del diritto ed in particolare a magistrati del penale, studenti di giurisprudenza, avvocati penalisti, funzionari di polizia, ecc., un’attenta lettura dello studio del dott. Edoardo Mori, sugli errori giudiziari originati da una erronea impostazione logica delle indagini, oltre che dall’abuso delle perizie tecniche, con le quali molti Pm - non fidandosi delle proprie capacità investigative e di valutazione del materiale probatorio - tendono a delegare al perito (non di rado un emerito incompetente loro amico!) la "soluzione” del caso, talora in modo acritico e pedissequo.
Tale studio - frutto di un’esperienza di magistrato di oltre 40 anni, rigoroso e preciso nell’analizzare senza remore né indulgenze molti errori giudiziari e peritali - costituisce un preziosissimo "faro illuminante ”, per orientare gli operatori che svolgono indagini penali lungo il complesso, tortuoso e delicatissimo percorso di un’indagine, oltre a fornire al giudice criteri fondamentali onde evitare gli errori più comuni, che spesso indirizzano le indagini verso piste investigative sbagliate, la cui tragica conseguenza finisce quasi sempre per essere la condanna di imputati innocenti, e l’impunità dei veri colpevoli.
Particolarmente condivisibili le parole dell’Autore a p. 6, "...Questo soltanto perché, come diremo, pare che gli investigatori non si fidino più della prova logica, che invece rimarrà sempre la più affidabile. Le statistiche dimostrano che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale, e che sono ancora valide le regole stabilite da un filosofo medievale, rimasto famoso per le regole logiche dette "rasoio di Occam"...".
Ma cos’è la "prova logica”? Senza dilungarci troppo per non tediare il lettore, possiamo affermare che essa si compendia nell'art. 192 c.p.p., secondo cui 1’esistenza di un fatto (in carenza di una prova diretta ed incontrovertibile), in un processo, può essere desunta da indizi solo ove essi siano: “gravi - cioè in grado di esprimere elevata probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto - precisi - cioè non equivoci - e concordanti, cioè convergenti verso l'identico risultato " ( Cass. 30382/2016).
E a proposito di elevata probabilità di derivazione del fatto noto (delitto) da quello ignoto (suo autore e colpevole), una delle regole logiche fondamentali è quella millenaria dell'id quod plerumque accidit, ovvero le regole probabilistiche e di buon senso che vengono riassunte nelle c.dd. "massime d'esperienza", le regole consolidate delle conoscenze scientifiche, dei comportamenti umani abituali, degli avvenimenti che accadono nel corso dell’esistenza, ecc.
Questa premessa era necessaria per analizzare e comprendere un caso giudiziario clamoroso, nel quale queste regole d'esperienza sono state tragicamente ed incredibilmente calpestate, per oltre 32 anni: il caso di Stefano Binda, e del delitto di Lidia Macchi.
1) Il delitto di Lidia Macchi
Lidia Macchi era una studentessa di giurisprudenza di 20 anni di Varese, che la sera del 5 gennaio 1987 era scomparsa dopo le ore 20,15, dopo essere uscita dall’ospedale di Cittiglio (Va), reduce da una visita ad una sua amica d’università, Paola Bonari (ricoverata per una frattura dopo un incidente d’auto). Dopo 2 giorni, la mattina del 7 gennaio, il suo cadavere straziato da 29 coltellate ( aveva anche subito violenza sessuale) venne trovato da tre suoi amici di Comunione e Liberazione in un boschetto vicino all’ospedale, a terra nascosto da un cartone, a fianco della Fiat Panda della ragazza.
La pista che gli inquirenti avrebbero dovuto seguire era in realtà chiarissima fin dai primi momenti: prima di Lidia, in quei giorni di inizio gennaio 1987, altre tre ragazze che si erano recate in quell'ospedale a visitare degenti, erano state aggredite e molestate nel posteggio, e sempre dallo stesso individuo, di cui tutte e tre avevano fornito il medesimo identikit: bruno, baffuto, media statura, tarchiato, sui 30-35 anni. Inoltre, questo individuo era anche armato di coltello (ad una delle ragazze tagliò gli pneumatici dell’auto) e chiaramente pericoloso (una di quelle ragazze se lo trovò già in auto appena aperta la portiera).
Tra l’altro l’ultima ragazza ad essere molestata/aggredita dal maniaco fu avvicinata nel posteggio dell’ospedale alle ore 19 del 5 gennaio, cioè poco più di un’ora prima dell’uscita e della scomparsa di Lidia dall’ospedale. Si salvò perché un’auto entrò nel posteggio coi fari accesi, e l’individuo preferì desistere dai suoi propositi, e si allontanò rapidamente.
Sarebbe stato sufficiente mostrare in tv e sui giornali l'identikit di questo personaggio, e in breve lo si sarebbe identificato. Inoltre un’altra donna, pochi giorni dopo (11 gennaio 1987) l’assassinio di Lidia, era stata molestata dal medesimo personaggio tarchiato e baffuto in un bar, in un comune vicino (Cuveglio), e poi l’uomo l’aveva seguita a distanza in auto (un’auto bianca di grossa cilindrata, con le prime cifre della targa VA88...), fino a che la donna si era rifugiata in casa con la bambina piccola.
Quindi la logica più elementare suggeriva che la pista giusta fosse quella del maniaco stupratore omicida, che per alcuni giorni aveva insistentemente cercato una "preda”, aggredendo a caso le ragazze di passaggio in quel posteggio dell'ospedale, e che purtroppo, dopo i primi tentativi andati a vuoto, era riuscito nel suo intento criminale con Lidia Macchi.
Tuttavia, nel giro di pochi giorni questa pista venne abbandonata totalmente, per imposizione di un Pm di Varese , Agostino Abate, che si era invece convinto che l’assassino facesse parte del gruppo di amici di CL di Varese di Lidia Macchi. Perché? Perché il 10 gennaio (giorno del funerale di Lidia), alla famiglia della ragazza era pervenuta una lettera anonima, che conteneva una poesia ("In morte di un'amica”) di tema religioso.
Eccola al link qui sotto.
https://malkecrimenotes.wordpress.com/2018/10/05/omicidio-di-lidia-macchi-analisi-della-lettera-anonima-in-morte-di-unamica/
Come è facile capire, quella poesia era stata evidentemente scritta da un amico/a della ragazza, inorridito e sgomento per la sua tragica e prematura fine, e nel testo della poesia infatti veniva sviluppato un parallelismo tra la fine tragica di Lidia e quella di Gesù Cristo, entrambi morti innocenti e vittime della malvagità umana. Inoltre - e contrariamente a quanto ripetuto in seguito dagli inquirenti - quella poesia non conteneva alcuna informazione sulle circostanze del delitto, che già non fosse nota a tutti, anche solo sulla base della lettura delle cronache dei quotidiani di quei giorni.
Nel link di cui sopra, la criminologa Ursula Franco analizza correttamente il testo della poesia, e ne sottolinea la totale irrilevanza, quale possibile indizio che ne indichi la provenienza dall’assassino.
Inoltre, contrariamente a quanto ripetuto da molti media e sedicenti "esperti" in tutti questi anni, non è vero che le indagini fossero così difficili, nell’immediatezza del delitto.
Oltre all’identikit delle donne molestate, e al chiaro movente desumibile dalle circostanze del delitto, c’erano altri 3 elementi che avrebbero dovuto subito indirizzare le indagini degli inquirenti nella direzione del maniaco del posteggio:
A) Estrema brutalità del delitto: stupro + omicidio = elevatissima probabilità di criminale seriale e molto pericoloso.
Non sono molti gli inquirenti italiani che conoscono le classificazioni degli stupratori da parte dell’FBI americana, condotte su milioni di casi, in quasi 100 anni di attività federale. Mentre gli stupri "isolati" sono molto frequenti, e negli Stati Uniti vengono denunciati in media oltre 120.000 casi di violenza sessuale ogni anno, solo in 1 caso di stupro su circa 6.000 lo stupratore uccide la propria vittima.
Come si può vedere dalla tabella al link sotto, nel quinquennio 2012-2017, in media negli Stati Uniti si ebbero circa 20 casi di stupro (rape] ogni anno, seguiti da omicidio della vittima.
https://ucr.fbi.gov/crime-in-the-u.s/2017/crime-in-the-u.s.-2017/tables/expanded-homicide-data-table-12.xls
Ed immancabilmente gli stupratori omicidi sono sempre individui estremamente brutali, spesso sadici, e quasi sempre criminali seriali, che tendono a ripetere - ove ne abbiano l’occasione - l’omicidio delle loro vittime.
B) Totale assenza di precedenti criminologici di stupratori omicidi che avessero inviato poesie alle famiglie delle loro vittime.
Questa considerazione avrebbe dovuto immediatamente dissuadere gli inquirenti dal perdere tempo ad indagare su quella poesia. Non esiste un solo precedente al mondo di stupratore omicida (che sono gli individui più crudeli ed incapaci di ogni forma di empatia e pietà verso le loro vittime) che abbia mai inviato poesie alla famiglia della propria vittima, dopo appena 3 giorni dal delitto!
E il motivo è più che evidente: si tratterebbe di un comportamento totalmente illogico ed incoerente, da parte di quella tipologia di criminali. Di converso, tutti i serial killer a sfondo sessuale hanno sempre giustificato i propri crimini, a volte anche in modo compiaciuto.
Vi sono stati casi di omicidi seriali che avevano inviato messaggi di scherno o di sfida agli investigatori, dopo i loro delitti. Qui in Italia accadde nel settembre 1985, dopo l’ultimo delitto del c.d. "mostro di Firenze", quando il criminale inviò una busta con un macabro reperto (lembo di pelle del seno della vittima) alla Pm che conduceva le indagini. Ci fu poi il caso di un altro criminale seriale. Marco Bergamo (c.d. "mostro di Bolzano”) , condannato negli anni '90 per gli omicidi di 5 donne. Lasciò un breve biglietto in cui rivendicava il delitto di una di loro, ma senza alcun pentimento, anzi affermava che "aveva dovuto farlo” .
Ma è evidente che la probabilità che uno stupratore omicida decida dopo 3 giorni dal delitto di inviare una poesia di contenuto religioso alla famiglia della propria vittima è più o meno pari a quella che una banda di rapinatori che abbiano trucidato le guardie giurate di un furgone portavalori, dopo 3 giorni devolvano in beneficenza il provento della loro sanguinosa rapina: pari a 0!
E peraltro, contrariamente a quanto affermato dagli inquirenti, quella poesia aveva un contenuto chiarissimo, che nulla aveva a che fare con una presunta "confessione" del delitto, o col "pentimento" di esso.
Nelle strofe finali, infatti, l’autore (o autrice) manifesta a Gesù Cristo la propria indignazione, per l’ingiustizia della morte sua (di Cristo) e della ragazza innocente: “Come puoi rimanere appeso al leg(n)o. In nome della giustizia. Nel nome deH'uomo. Nel nome del rispetto per l'uomo, passi da noi il calice.”
Quindi non vi era nessun "pentimento", né "compiacimento” per quel delitto orrendo, ma solo indignazione e ribellione di un credente a fronte di un’ingiustizia così grande.
C) La tempistica dell'aggressione a Lidia dimostrava che era stata aggredita da uno sconosciuto.
Infine, c’era un ulteriore elemento che - subito dopo la scoperta del delitto - avrebbe dovuto convincere gli inquirenti che l’assassino di Lidia era uno sconosciuto, e non certamente una persona del suo gruppo di amici o conoscenti. Ciò che è strano è che questo elemento non è stato evidenziato neppure dai difensori di Stefano Binda.
L'elemento scaturiva dal raffronto e dal coordinamento delle testimonianze delle due persone che erano lì all’ospedale di Cittiglio, nel momento in cui Lidia uscì dalla camera della sua amica Bonari e ritornò al posteggio dove aveva lasciato la Fiat Panda.
Lidia uscì dalla camera dell’amica alle ore 20,15. In quei momenti, una testimone - Liliana Maccario - che si trovava in un’altra camera ad assistere la suocera, e che attendeva con impazienza l’arrivo del marito in auto per riportarla a casa, e pertanto controllava spesso l’ora e guardava fuori dalla finestra, nel cortile del posteggio, disse di avere visto, poco dopo le ore 20, un’auto bianca "3 volumi, di grossa cilindrata" che giungeva da via Marconi ed entrava nel parcheggio dell’ospedale, e si era fermata vicino alla Panda di Lidia. Poi, stranamente, quell’auto era rimasta coi fari accesi 2-3 minuti. Poi i fari si erano spenti, ma il conducente non era sceso, come se aspettasse qualcuno. Dopodiché la signora Maccario si era ritratta dalla finestra. Una decina di minuti dopo - dirà la Maccario - quindi attorno alle 20,16/20,18, la signora si era affacciata nuovamente sul cortile, e aveva visto la Fiat Panda di Lidia che si allontanava "a passo d'uomo" dal posteggio.
Questa è la prova inequivocabile che la ragazza in quel momento era già sotto la minaccia del coltello del suo aguzzino, e usciva guidando l’auto a passo d’uomo, o perché paralizzata dalla paura, oppure per lanciare un ultimo disperato segnale a coloro che potevano assistere alla scena e venire a salvarla, forse per richiamare la loro attenzione.
Ma se la ragazza era uscita dall’ospedale di Cittiglio verso le ore 20,16 (calcolando un minuto circa per percorrere i corridoi e scendere le scale), e - dalla testimonianza della Maccario - era stata aggredita dal criminale tra le 20,16-20,18 - ciò significa che chi l'aggredì lo fece subito, quindi non poteva essere un amico, o un conoscente!
Proprio le regole dell’esperienza ci dicono infatti che quando 2 persone che si conoscono si incontrano inaspettatamente, trascorrono sempre almeno 3’-4’ in saluti, discorsi e convenevoli vari.
Quindi se Lidia avesse incontrato all’uscita dell’ospedale un amico, allora la Maccario affacciandosi poco dopo le 20,16 avrebbe visto la ragazza intenta a conversare con lui, e non avrebbe visto la Fiat Panda che già si allontanava a passo d’uomo.
Va poi osservato che nessuno degli amici di Lidia sapeva che lei si era recata dalla Bonari dopo
le 19. Nel 1987 non esistevano ancora cellulari, internet ed e-mail, si comunicava solo coi telefoni fissi. Il 5 gennaio Lidia telefonò la mattina a diversi amici per farsi dare un passaggio in auto a Cittiglio, ma con esito negativo. Poi, solo la sera dopo le 17,30 i genitori della ragazza e la cugina (Nadia Bettoni) con la Fiat Panda rientrarono inaspettatamente a Varese dalla vacanza , e la ragazza potette usufruire all’ultimo momento della Panda della cugina.
Ma nessuno, nemmeno la stessa Lidia, lo seppe se non all’ultimo minuto, e quasi certamente la ragazza si era rassegnata a recarsi dall’amica in treno il giorno dopo, per l’Epifania.
Infine, il comportamento dell’individuo a bordo dell’auto bianca, all’arrivo in quel posteggio, dimostra chiaramente che quello era l’assassino, e non era certo un conoscente della ragazza, o di Paola Bonari.
L'accusa e i giudici di Varese scriveranno apoditticamente nella sentenza che l’uomo dell’auto bianca era sicuramente Binda (che possedeva una Fiat 131 bianca, auto peraltro di media - non di grande - cilindrata) che andava a trovare Paola Bonari. Ma se così fosse non si capisce perché Binda sarebbe andato a visitare una semplice conoscente (Binda aveva solo un rapporto di conoscenza occasionale con Paola Bonari) ben oltre l'orario di visita dei parenti (che terminava alle ore 19,30) , e senza nemmeno poi scendere dall’auto!
Queste circostanze dimostrano che l’uomo a bordo dell’auto bianca non era un conoscente di Lidia, o di Paola Bonari, ma era il maniaco del posteggio che si era appostato e attendeva il ritorno dell’ultima visitatrice (era rimasta solo l’auto di Lidia, lì nel posteggio, a quell’ora), per poterla aggredire.
2) Le indagini e la pista sbagliata per oltre 26 anni.
Tra le numerose affermazioni errate contenute nella sentenza del 2018 di Varese, ve n’è una che riguarda le prime indagini, argomento che i giudici, a p. 29, peraltro liquidano in meno di tre righe - delle 198 pagine di motivazioni - sostenendo che la prima pista seguita fu quella del maniaco, ma le indagini non ebbero "sbocco positivo".
Falso! La realtà è che non fu proprio svolta alcuna seria indagine, a parte un unico sopralluogo dei CC attorno all’ospedale, con l’identificazione "prò forma” di qualche clochard e sbandato. Ma la ricerca dell’uomo dell’identikit segnalato dalle 3 donne fu rapidamente interrotta dopo pochi giorni, su disposizione del Pm Abate, che invece si concentrò solo sull’ambiente e sugli amici della ragazza, nella convinzione che l’omicida fosse l’autore della poesia e un amico della ragazza.
Abate ricorse a metodi intimidatori e polizieschi, arrestando per alcuni giorni - senza neppure iscriverlo nel modello 21 del registro degli indagati - il sacerdote che aveva benedetto la salma di Lidia, don Antonio Costabile (solo perché il suo alibi per la sera del delitto era sembrato non convincente), e interrogando con metodi inquisitori tutti gli amici di Lidia del gruppo di CL di Varese.
Don Costabile dopo l’arresto per molti anni si trovò ad essere sospettato di un crimine infamante, senza peraltro nemmeno potersi difendere, poiché poi le indagini di Abate si erano arenate, ma lui di fatto era sempre sospettato del delitto, di cui peraltro formalmente non risultava nemmeno indagato.
Abate è stato sanzionato nel 2017 dal CSM con la perdita di 8 mesi d’anzianità, e con il trasferimento ad altra sede (Como) e ad altra funzione (giudice civile), per la negligente gestione del caso Macchi, con violazione dei diritti degli indagati, ed in particolare per la sua responsabilità nella sparizione di alcuni reperti, che Abate conservava indebitamente nella sua cassaforte.
Ma il fatto sicuramente più grave fu la sparizione e la distruzione dei reperti più importanti del delitto, avvenuta nel 2000, con l’inescusabile distruzione degli importantissimi 11 vetrini nei quali era conservato il liquido seminale dello stupratore assassino della Macchi, e che sicuramente, nel 2000 e negli anni successivi, avrebbe potuto fornire il DNA per identificarlo.
Ma per tornare alle indagini della prima fase del delitto Macchi, la falsa pista perseguita dal Pm Abate inevitabilmente condusse ad un vicolo cieco, e le indagini si arenarono per ben 26 anni, fino al 2013.
3) L'individuazione di Giuseppe Piccolomo. nel 2013.
Nel 2013 accadde un fatto imprevedibile, che condusse alla ripresa delle indagini sul delitto di Lidia, ormai considerato un "colà case" con scarse speranze di sviluppi.
Filomena e Nunzia, le due figlie di Giuseppe Piccolomo - un criminale condannato all’ergastolo per l'efferato delitto di una pensionata, Carla Molinari, che Piccolomo aveva ucciso a coltellate per rapina nel 2009, e alla quale aveva tagliato ed asportato le mani, dopo essere stato graffiato al volto - avevano accusato il padre di essersi vantato con loro di essere l'assassino di Lidia Macchi, mimando sadicamente il gesto delle coltellate.
Inoltre le due donne avevano rivelato alla sostituta Pg Carmen Manfredda - che aveva avocato le indagini su Piccolomo - che il padre le aveva sottoposte per anni, già da bambine, a violenze sessuali e maltrattamenti, e si dissero altresì certe che l'incendio dell'auto che aveva provocato la morte della loro madre, Marisa Maldera - e per il quale Piccolomo era stato condannato per omicidio colposo, per avere trasportato una tanica di benzina nell'auto - era stato in realtà premeditato da Piccolomo per incassare due polizze sulla vita della moglie, oltre che per liberarsi di lei, avendo da tempo una relazione con un’altra donna. La dr.ssa Manfredda, riaprendo le indagini sul delitto Macchi, aveva così scoperto che l’identikit del maniaco , delle donne molestate nel posteggio dell’ospedale di Cittiglio a gennaio 1987, corrispondeva in modo impressionante alle foto di Piccolomo in quel periodo di fine anni '80. Piccolomo in quel periodo risiedeva a Caravate, a poche centinaia di metri dal luogo in cui era stato ritrovato il cadavere di Lidia.
noltre, la Manfredda indagando scoprì che il cartone che ricopriva il cadavere di Lidia era stato prodotto da una fabbrica di mobili in legno di tiglio per camerette per bambini, e Piccolomo aveva un figlio piccolo e aveva comprato quel tipo di mobili, un anno prima del delitto.
Infine, il modus operandi (numerose coltellate, con tagli profondi alla gola e colpi a "tripletta”) dell'assassino della Molinari era del tutto simile a quello dell’assassino di Lidia.
(identikit del maniaco del posteggio, e a destra la foto di Giuseppe Piccolomo in quel periodo)
Quindi, a fronte di ben 5 indizi chiari e precisi, la Pg Manfredda nel 2015 aveva chiuso le indagini, e stava per rinviare a giudizio Piccolomo anche per lo stupro e l’omicidio Macchi. Piccolomo peraltro è stato condannato nel 2019 ad un secondo ergastolo anche per l’omicidio premeditato della moglie.
Tuttavia Piccolomo non venne rinviato a giudizio, poiché - su istanza del suo avvocato - venne effettuato un test del DNA sui reperti ancora disponibili del caso Macchi, e poiché non venne trovato il DNA di Piccolomo, la Manfredda chiese la sua archiviazione.
Errore palese!
In realtà quella perizia era inutile, poiché nel 2015 gran parte dei reperti più importanti erano spariti dall’ufficio corpi di reato di Varese. Mancavano molti indumenti della ragazza (jeans, collant, stivaletti, maglione), mancava il sedile posteriore della sua auto, e soprattutto mancavano gli 11 vetrini col liquido seminale dello stupratore assassino, il solo reperto biologico che avrebbe potuto scagionare i sospettati il cui DNA fosse risultato differente. Pertanto - a fronte di reperti incompleti - quella perizia si rivelava inutile, quale ipotetica prova dell’estraneità al delitto dei sospettati di esso.
Quindi Piccolomo ben poteva e doveva essere rinviato a giudizio, a fronte di indizi davvero gravi, precisi e concordanti a suo carico.
Dopodiché la dr.ssa Manfredda, probabilmente nell’impazienza di risolvere a tutti i costi il caso, dopo averlo seguito così a lungo, commise l’errore più grande, che rovinò tutto il suo ottimo lavoro d’indagine su Piccolomo, incriminando nel 2016 uno degli amici di Lidia, Stefano Binda, che era stato "riconosciuto” da una compagna di liceo dell’epoca. Patrizia Bianchi, quale autore della famosa poesia.
4) Il processo contro Binda a Varese, e la condanna all'ergastolo del 2018
Ma più in dettaglio, quali erano gli indizi, o le prove, a carico di Binda? Per quanto incredibile, non solo non esisteva alcuna prova, ma - a differenza di Piccolomo - non vi era neppure un solo indizio a suo carico, che tecnicamente potesse definirsi grave e preciso!
Infatti, scartata come irrilevante la famosa poesia, di cui abbiamo già parlato.
L'accusa aveva esibito nel processo a Varese quelli che - a suo dire - costituivano indizi gravi della colpevolezza di Binda.
Nel corso della perquisizione a casa dell'imputato nel 2016 era stato trovato un foglio di protocollo con una vecchia versione di greco dei tempi del liceo, chiosata da persona diversa da Binda, e su cui era apposta la frase: "Stefano è un barbaro assassino”.
Secondo l’accusa tale frase si riferiva al delitto di Lidia Macchi.
Tuttavia, Binda aveva disconosciuto di avere scritto quella frase, che peraltro poteva benissimo essere stata scritta per scherzo, e riferirsi a tutt’altro che a Lidia Macchi, ad esempio chi l’aveva scritta poteva riferirsi al fatto che Binda avesse "assassinato” la versione di greco, traducendola male!
Ben lungi dall’essere grave e preciso, in relazione al delitto, quell’indizio era del tutto vago e generico.
La polizia aveva anche sequestrato a casa di Binda un vecchio blocco/quaderno ad anelli, con fogli staccabili bucati, e l’accusa aveva stabilito , con una perizia merceologica, che quel blocco aveva la carta con una composizione del tutto simile a quella del foglio forato su cui era stata scritta la poesia.
Sennonché anche qui fu facile per la difesa ribattere che di quei blocchi a fogli bucati ne esistevano e ne esistono a milioni, di formati standard, con la carta prodotta con lavorazioni industriali altrettanto standard, e quindi quel blocco non provava proprio nulla.
In un altro foglio sequestrato in casa di Binda era scritta la frase: "Caro Stefano sei fregato, dovresti strapparti gli occhi per quello che hai fatto”, ma Binda la spiegò come riferita alla sua condizione di tossicodipendente che invano voleva smettere con l’assunzione della droga, e alla sofferenza che provocava in famiglia e a sé stesso.
Nel corso del processo, la sua accusatrice ed ex amica di liceo Patrizia Bianchi testimoniò che alla fine del funerale di Lidia, Binda le aveva detto: "non sai che cosa sono stato capace di fare!"
Ovviamente, nell’irriducibile pregiudizio colpevolista della Corte di Varese, tale frase era stata interpretata dai giudici come riferita al delitto di Lidia. E tuttavia, con una riflessione minimamente distaccata, chiunque può subito capire che quello non è certo il genere di frase che pronuncerebbe un brutale stupratore assassino. La frase di Binda, semmai, è la tipica frase che chiunque di noi pronuncia se è riuscito a compiere qualcosa di insolito e curioso. Ad esempio. Binda (che peraltro non si ricordava di avere detto quella frase, dopo oltre 30 anni) poteva riferirsi al fatto banale di avere trovato un posto per parcheggiare l’auto in extremis, nella ressa del funerale, oppure si riferiva al fatto di essere arrivato in tempo alla cerimonia funebre, pur essendo in ritardo, correndo in auto a tempo di record! Insomma, una frase del tutto banale e irrilevante, che chiunque di noi può pronunciare in mille circostanze, nella fervida fantasia accusatoria della Bianchi e della Corte di Varese assurgeva grottescamente a prova del delitto!
La Bianchi riferì poi che Binda si era innervosito al telefono e aveva troncato la conversazione, dopo il funerale di Lidia, poiché lei gli aveva parlato dell’arma del delitto e del coltello, e il giorno dopo Binda aveva gettato in sua presenza un involucro in un parco di Varese (che fu fatto inutilmente e tardivamente perlustrare, 30 anni dopo il delitto, nella vana speranza di ritrovare "l’arma del delitto”).
Ma anche in questo caso, è palese l’irrilevanza indiziaria dell’episodio, ad una valutazione rigorosa. Binda poteva benissimo essersi innervosito al telefono non perché temesse che gli trovassero l’arma del delitto, ma semmai perché era irritato per le affermazioni della ragazza, che non condivideva. Qualsiasi persona si altera se vede che l’interlocutore insiste con un’opinione da cui dissente, e allora si innervosisce e cerca di troncare la conversazione. E per quanto attiene al sacchetto gettato nel cestino al parco, è del tutto evidente a chiunque che se Binda fosse stato l’assassino di Lidia, e avesse voluto sbarazzarsi del coltello, avrebbe potuto farlo in mille modi, da solo, di sera al buio, gettandolo nel lago, in un tombino, ecc., ma si sarebbe ben guardato dal farlo "coram populo” in un parco, davanti alla Bianchi e a dozzine di persone!
Quindi è evidente che quell’involucro non conteneva null’altro se non cianfrusaglie, lattine, cartacce, bucce di frutta, avanzi di cibo, ecc., come tutti gli involucri di rifiuti che la gente getta nei cestini della spazzatura.
In conclusione: un'analisi rigorosa degli elementi presentati dall'accusa contro Stefano Binda a Varese dimostra che NESSUNO dei presunti indizi a suo carico poteva realmente definirsi grave e preciso.
Si trattava di circostanze ambigue, interpretabili in svariati modi, e che pertanto difettavano dei requisiti essenziali della gravità e precisione. Per non parlare dell’imbarazzante "architrave" su cui era stato edificato l’intero processo: la famosa poesia che, ben lungi dall'essere indizio di provenienza dall’assassino, si rivelava semmai forte indizio di provenienza da uno dei tanti amici della ragazza, che l’aveva scritta per ricordarla con affetto, colmo di orrore e di tristezza per quella morte ingiusta e crudele. E tuttavia, nel clima di accanimento accusatorio contro Binda - alimentato dal clamore mediatico - nel quale il processo di Varese venne celebrato, il verdetto del 2018 fu di ingiusta e assurda condanna all’ergastolo.
5) L'assoluzione con formula piena del 2019. della Corte d'assise d'appello di Milano
Non è certo fatto comune, nelle cronache giudiziarie, che un verdetto di condanna al massimo della pena in 1° grado venga ribaltato totalmente in appello, e dopo appena un anno. Ma se questo è avvenuto nel luglio 2019 , con l’assoluzione di Stefano Binda, a ben vedere l’esito non può certo sorprendere, ed è tutt'altro che clamoroso (attendiamo le motivazioni della sentenza).
Semmai clamorosa era, nella sua assoluta infondatezza, la condanna di Binda all’ergastolo, fondata sul nulla, e su imbarazzanti congetture, tra cui l’interpretazione di una poesia che chiunque avrebbe ben potuto scrivere, e su pseudo "indizi” privi di reale consistenza, tali da lasciare sospettare che i giudici di Varese si fossero semplicemente lasciati influenzare dal clamore mediatico e dal clima accusatorio scatenato attorno al povero Stefano Binda, e avessero voluto compiacere le tesi dell’accusa.
Un avvocato affermava giustamente che quando un delitto diventa un "caso mediatico", e l'imputato finisce sotto i riflettori, per lui le probabilità di venire condannato aumentano esponenzialmente, perché sono pochi i giudici che se la sentono di rischiare l'impopolarità, assolvendo un imputato che per l'opinione pubblica è già stato dipinto come il "mostro" su cui accanirsi.
Per fortuna ogni tanto accade, quindi un sentito elogio e ringraziamento alla Corte d’assise d’appello di Milano, che ha avuto il coraggio, l'indipendenza di giudizio e l’onestà intellettuale di porre rimedio ad una mostruosità giuridica, che costituiva un arretramento al medio evo della civiltà del diritto.
Alberto Miatello
6 settembre 2019
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