LA MODIFICA DELL’ART. 43 DEL T.U.L.P.S. - STORIA E ATTUALITÀ
L’art. 43 del T.U.L.P.S., relativo ai requisiti ostativi al rilascio delle licenze di porto di armi, in questi ultimi anni, è stato oggetto di particolare attenzione da parte del Ministero dell’Interno, attesa l’importanza delle licenze di polizia regolamentate per la tutela della sicurezza pubblica, tenuto anche conto che il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare le armi e che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse (Corte Costituzionale, 16 dicembre 1993, n. 440).
Tale attenzione era scaturita dalla constatazione della mancanza di una giurisprudenza amministrativa univoca, così da causare il sorgere di orientamenti differenti da un’Autorità locale di P.S. ad un’altra, con l’ulteriore rischio di incertezza generata da prevedibili conflitti giurisprudenziali (Circolare Min. Int., 28 novembre 2014).
Infatti, nelle decisioni del Consiglio di Stato si erano delineati due orientamenti interpretativi. Il primo di tipo rigoristico, basato su un’interpretazione letterale dell’art. 43 del T.U.L.P.S., per cui, in presenza di condanne per i reati elencati in quest’ultimo articolo, alla pubblica amministrazione non residua alcuna discrezionalità, perché il legislatore ha preventivamente escluso ogni ulteriore valutazione, considerando quei reati di particolare allarme sociale, tali da non dare sufficienti garanzie sulla circostanza del non abuso delle armi (Consiglio di Stato, n. 3719/2013, Parere n. 3257/2014).
Il secondo orientamento più elastico, relativo ad una lettura evolutiva dell’art. 43, prendeva in considerazione gli effetti della riabilitazione soprattutto laddove si tratti di condanne molto risalenti, successivamente alle quali l’interessato non sia più incorso in episodi tali da far dubitare della sua affidabilità (Cons. St., n. 3719/2013, Parere n. 3257/2014).
Constatato il perdurare di tale problematica interpretativa, il Ministero dell’Interno, nel 2014, ritenne opportuno richiedere un parere al Consiglio di Stato, parere con il quale fu affermato che il testo della disposizione non lascia alcuna alternativa al diniego, o alla revoca, della licenza di porto d’armi in ipotesi di condanna per i reati ivi indicati, né vi sono altre disposizioni, in particolare quelle sugli effetti della riabilitazione, che consentano deroghe (Cons. St., Parere n. 3257, 16 luglio, 2014). Questa interpretazione lasciava, così, spazio all’orientamento rigoristico nell’applicazione dell’art. 43, peraltro condiviso dallo stesso Ministero (Circolare 28 novembre 2014).
Purtroppo, a distanza di soli sei mesi da tale parere, lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1072, del 4 marzo 2015, adottò, nuovamente, la interpretazione più elastica, per la quale la riabilitazione estende i propri effetti anche ai procedimenti amministrativi relativi alle licenze in materia di armi, soprattutto laddove si tratti di condanne molto risalenti, successivamente alle quali l’interessato non sia più incorso in episodi tali da far dubitare della sua affidabilità. Quindi, veniva riaffermato un principio di portata generale, nel senso che l’effetto preclusivo, vincolante ed automatico, proprio di quelle condanne penali, viene parzialmente meno una volta intervenuta la riabilitazione (ovvero l’estinzione ex art. 445 c.p.p.); più precisamente viene meno l’automatismo. La condanna, per quanto remota e superata dalla riabilitazione, non perde la sua rilevanza in senso assoluto, ma perde l’automatismo preclusivo (Cons. St., n. 3719/2013).
Il Ministero, nel 2016, preso atto di questa sentenza, nonché di altre di alcuni Tribunali Amministrativi, ritenne nuovamente opportuno richiedere un ulteriore parere al Consiglio di Stato, in particolare un chiarimento sugli effetti della riabilitazione in merito alle condanne per i reati elencati nell’art. 43 del T.U.L.P.S.. Con l’occasione, furono formulati anche alcuni specifici quesiti, cioè in merito alla sorte delle licenze di porto d’arma rilasciate in adesione all’interpretazione evolutiva, che andrebbero revocate in adesione al parere del 16 luglio 2014; se alle persone beneficiate di reiterati rinnovi debbano essere applicate le disposizioni ostative previste dal primo comma dell’art. 43, o se debba essere valutata la situazione personale e la loro condotta successiva al compimento del reato; se la condanna con effetto preclusivo al rilascio della licenza di porto d’arma debba intendersi riferita anche a quella conseguente al patteggiamento, nonché nei casi in cui la pena è stata condizionalmente sospesa (Circolare 2 agosto 2016).
Il Consiglio di Stato espresse l’ulteriore parere (11 luglio 2016, n. 1620, n. affare 00275), riconfermando, con più approfondite motivazioni, l’orientamento rigoristico, già espresso nel 2014.
In particolare fu ribadita l’inefficacia della riabilitazione per le condanne di cui all’art. 43, siccome non è possibile applicare la deroga al divieto contenuto nel primo comma dell’art. 11 del testo unico (possibilità di concedere le autorizzazioni di polizia, in deroga al fatto ostativo costituito da determinate condanne, quando sia intervenuta la riabilitazione), perché, come risulta dalla stessa sistematica del testo unico, le autorizzazioni di polizia, concernenti svariate attività assoggettate al controllo di polizia, e la materia delle armi, nella quale vige il generale divieto di circolare armati e la licenza di porto d’armi costituisce eccezione a tale divieto, sono materie distinte e soggiacciano a normative diverse. Pertanto, secondo le chiare disposizioni legislative dei citati artt. 11 e 43, in presenza di condanne per reati preclusivi, la riabilitazione consente di rilasciare al riabilitato le autorizzazioni di polizia in generale, mentre non consente di rilasciargli la licenza di porto d’armi. In altre parole gli effetti della riabilitazione si esauriscono nell’ambito dell’applicazione della legge penale ma, salvo diverse, specifiche disposizioni di legge (come previsto nell’art. 11), essa non ha rilievo su altre conseguenze giuridiche della condanna (Parere n. 1620/2016).
In merito ai quesiti specifici, il Consiglio di Stato precisò che, per le licenze già rilasciate in adesione dell’interpretazione evolutiva, se c’è un giudicato che ha obbligato l’Amministrazione a rilasciare senz’altro la licenza, la licenza non può essere revocata. Diverso è il caso di licenze rilasciate a persone che si trovano nelle condizioni preclusive previste dall’art. 43, senza che avessero impugnato un precedente diniego: in tal caso ben può l’Amministrazione revocare la licenza, con l’avvertenza però che, quando la licenza sia stata rilasciata motivando sull’attuale affidabilità del richiedente, la revoca non è esente da rischio di annullamento.
Per le persone che abbiano ottenuto reiterati rinnovi, pur in presenza di condanne per reati preclusivi di cui all’art. 43, anche se datati e riabilitati, debbono essere applicate, con il diniego o con la revoca, le disposizioni dell’art. 43, senza considerare la loro situazione personale e la loro condotta successiva al compimento del reato.
In merito all’ultimo quesito, cioè sugli effetti del patteggiamento, il Consiglio di Stato rilevò che è pur sempre una condanna e i suoi effetti vantaggiosi si esauriscono nell’ambito degli effetti penali. Essa pertanto non influisce sulle disposizioni dell’art. 43. Analoga precisazione fu esplicitata per la sospensione condizionale della pena (Parere n.1620/2016).
Nonostante il Ministero dell’Interno avesse ritenuto che il conflitto giurisprudenziale sull’applicazione dell’art. 43 potesse, oramai, considerarsi risolto dopo i due pareri conformi del Consiglio di Stato, tuttavia, nel 2017, constatò, nuovamente, che in sede di applicazione concreta sono state rilevate alcune incertezze applicative. Il Ministero, preso atto del fatto che la questione continua a formare oggetto di consistente contenzioso, ritenne opportuno emanare ulteriori direttive, con una dettagliata esauriente circolare, per riepilogare in un quadro organico le diverse ricadute che derivano dal predetto orientamento rigoristico sul piano delle funzioni autorizzatorie riconosciute dalla legge in tema di porto d’armi (Circolare 31 agosto 2017).
Quest’ultima, oltre ad essere riassuntiva delle precedenti circolari (2014, 2016), evidenziò anche i limiti alla valenza ostativa delle condanne per i reati di cui all’art. 43, primo comma, T.U.L.P.S. Infatti, fu rilevato che le condanne per i reati di cui all’art. 43, possono in taluni casi non produrre un effetto automaticamente ostativo per il conseguimento delle licenze in materia di porto d’armi. L’automatismo ostativo non si determina nell’ipotesi in cui il giudice abbia disposto la sostituzione della pena detentiva con una sanzione di ordine pecuniario, indipendentemente dal fatto che sia intervenuta o meno la sentenza di riabilitazione. In presenza, dunque, di una simile fattispecie l’Autorità non può denegare, in via automatica, il rilascio del permesso di porto d’arma, ma dovrà far ricorso alla potestà di valutazione discrezionale per rilevare l’affidabilità, o meno, del soggetto all’uso delle armi.
Analogamente si dovrà procedere nel caso di sentenza con cui il giudice dichiara l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, a termini dell’art. 131-bis del c.p.. Quindi è opportuno procedere in sede di istruttoria, ad una attenta verifica delle condanne e delle altre pronunce giurisdizionali emesse nei confronti dell’interessato per taluni dei reati elencati nel primo comma dell’art. 43.
Nonostante gli espliciti pareri del Consiglio di Stato, la giurisprudenza di alcuni Tribunali amministrativi regionali (T.A.R. Lombardia, n. 1089, 3 aprile 2019) e di alcune Sezioni dello stesso Consiglio (Sez. III, n. 3303, 24 maggio 2018), ha ricominciato, per la seconda volta, a discostarsi da tale indirizzo rigoristico. Infatti, è stato rilevato che la problematica meriterebbe forse un intervento ponderato e ben selettivo del legislatore (Cons. St., n. 0658/2017), siccome nel vigente quadro ordinamentale, l’automatismo possa apparire irragionevole (Cons. St., Parere 3257/2014), in particolare per reati ostativi datati e riabilitati.
Lo stesso Consiglio di Stato ha richiamato l’attenzione sulle evidenti esigenze di certezza del diritto che devono caratterizzare la delicata materia dell’ordine pubblico interno, nel quale l’attività delle istituzioni deve evitare per quanto possibile incertezze interpretative e disparità di trattamento (Cons. St., n. 4660/2016).
Si è sentita, anche, la necessità di interessare la Corte Costituzionale. Infatti, il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, nonché quello per il Friuli Venezia Giulia, in presenza di ricorsi per rifiuto di rinnovo della licenza di porto d’armi per reati ostativi, anche se riabilitati, hanno ritenuto di sollevare la questione di costituzionalità dell’art. 43 per contrasto con i principi di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui prevede un generalizzato divieto di rilasciare il porto d’armi alle persone condannate, senza consentire alcun apprezzamento discrezionale all’Autorità amministrativa competente ( T.A.R. Toscana, Ordinanza n. 56, 19 dicembre 2017; T.A.R. Friuli Venezia Giulia Ord. n. 190, 7 febbraio 2018).
La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità. Infatti, il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, eccezione al normale divieto di portare armi. Quindi, deve riconoscersi ampio margine di discrezionalità al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa tale licenza, riconfermando, nel contempo, rigidi criteri restrittivi da cui deriva che il controllo dell’Autorità amministrativa deve essere più prenotante. Pertanto, non può ritenersi irragionevole una disciplina, pur particolarmente severa, che sancisce un divieto assoluto di concessione della licenza di porto anche nei confronti di chi sia stato condannato e abbia ottenuto la riabilitazione. Resta naturalmente libero il legislatore, entro il limite della non manifesta irragionevolezza, di declinare diversamente il bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco, ad esempio attraverso previsioni che attenuino la rigidità della preclusione, allorchè sia intervenuta la riabilitazione (Corte Costituzionale, n. 109/ 2019).
Il suggerimento della Corte Costituzionale sembra aver sensibilizzato in merito il legislatore. Infatti, quest’ultimo, nel 2018, dovendo dare attuazione alla Direttiva UE, n. 853, del 17 maggio 2017, relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi, ha colto l’occasione per modificare l’art. 43, con il D. L.vo n. 104, stabilendo che all’art. 43, secondo comma, dopo le parole può essere ricusata, sono inserite le seguenti: ai soggetti di cui al primo comma qualora sia intervenuta la riabilitazione (Art. 3, c. 1, lett. e).
Con tale modifica si è voluto superare l’interpretazione rigoristica dell’automatismo preclusivo relativa ai reati ostativi di cui all’art. 43, richiamando espressamente, anche per questi ultimi, la validità della riabilitazione.
Con tale riforma, auspicata da più parti, si è voluto evitare la disparità di trattamento tra coloro che richiedevano le licenze di polizia previste dall’art. 11, per le quali è espressamente previsto il valore della riabilitazione e coloro che, invece, richiedevano le licenze di porto d’armi, siccome nell’art. 43 non vi era nessun riferimento alla riabilitazione (Cons. St., n. 4660/2016). Infatti, in precedenza, il Consiglio di Stato al fine di attuare parità di trattamento degli interessati e perché sarebbe stato palesemente irrazionale non estendere al peculiare settore delle armi le regole minime sul rilascio dei titoli abilitativi, prendendo in considerazione il richiamo nell’art. 43 all’art. 11 (oltre a quanto è stabilito nell’articolo 11), aveva attribuito alla riabilitazione il medesimo rilievo non solo quando si tratti di titoli concernenti lo svolgimento di attività lavorative (art. 11), ma in ogni caso, anche quando l’autorizzazione di polizia sia specificamente una licenza di portare armi, però con la limitazione che non si tratti di reati ostativi, specificamente considerati tali dall’art. 43 (Cons. St., n. 4660/2016; n. 2312/2019).
In merito, il Ministero dell’Interno ha chiarito che, con tale modifica, le condanne per i reati al primo comma sono ostative al conseguimento dei titoli di polizia in parola, salvo che non sia intervenuta la sentenza di riabilitazione (Circolare 12 settembre 2018). Quindi, si lascia spazio alle Autorità di P.S. di valutare l’affidabilità del richiedente anche nel caso di condanne per reati ostativi, quando, però, siano stati successivamente riabilitati. Comunque, il Ministero, con la medesima circolare ha precisato che la condanna per cui è intervenuta la riabilitazione, pur non avendo più un effetto di automatismo preclusivo, non perde la sua rilevanza in senso assoluto. Essa, infatti, può essere presa a base di una valutazione discrezionale che deve comunque tenere conto degli ulteriori elementi emersi nel corso dell’istruttoria. Gli elementi in grado di conferire rilevanza alla condanna devono riferirsi, in linea di principio, a fatti o circostanze verificatisi successivamente alla sentenza di riabilitazione, ovvero deve trattarsi di situazioni di cui sia stato verificato che il Giudice non abbia potuto tenerne conto, non essendo note.
La stessa Corte Costituzionale, pur dichiarando infondata la questione di costituzionalità sopra richiamata, ha osservato che, con tale riforma, il legislatore attenua la rigidità della preclusione posta dal primo comma dell’art. 43 nei confronti di chi abbia riportato condanne per i delitti ivi menzionati, ripristinando un potere discrezionale dell’autorità amministrativa nella valutazione dei presupposti della concessione della licenza di portare armi allorché il condannato abbia ottenuto la riabilitazione (Corte Cost., n. 109/2019).
Anche il Consiglio di Stato, di recente, ha evidenziato che, con la modifica dell’art. 43, l’Amministrazione competente al rilascio o rinnovo del porto d’armi può, e non più deve, rifiutarlo ai soggetti condannati per i delitti di cui al primo comma per i quali sia intervenuto il beneficio della riabilitazione, così configurando come discrezionale e non più vincolata) la valutazione rimessa all’Autorità di pubblica sicurezza. Con la conseguenza che in una situazione in cui le condanne penali risultino superate dalla concessione del beneficio della riabilitazione, l’Amministrazione dovrà procedere a considerare se la situazione complessiva del richiedente sia favorevolmente apprezzabile per l’assenza di ulteriori condanne e recidive, per la risalenza nel tempo delle condanne riportate, per l’esistenza di rinnovi pregressi del titolo e, più in generale, per la buona condotta tenuta negli anni (Cons. St., n. 7901/2019).
Dunque, finalmente, anche se ci sono voluti anni, il legislatore ha scritto la parola fine alla contrastata interpretazione dell’art. 43, contemperando le aspettative del privato con la esigenza di tutela della sicurezza pubblica.
Quanto era meglio intervenire prima!... Quanto tempo sprecato dagli addetti ai lavori e dagli stessi magistrati, ma, soprattutto, quanto tempo e denaro sprecati dalla solita vittima sacrificale, cioè l’uomo della strada. ANGELO VICARI