Il Consiglio di Stato fissa i paletti della discrezionalità della PS - Sent. 14-7-2022
Nessun automatismo per guida in stato di ebrezza
N. 07830/2022
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1620 del 2019, proposto da ***, rappresentato e difeso dagli avvocati Antonio Sala della Cuna, Antonio Bana, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Antonio Bana in Milano, via Larga, 23;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione Prima) n. 1598/2018, resa tra le parti
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 luglio 2022 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
In data 22 novembre 2016, l’appellante ha presentato alla Questura di Milano una istanza volta al rilascio della licenza di porto di fucile ad uso tiro a volo.
Nel corso dell’istruttoria è emerso che all’istante, in data 18 marzo 2013, era stata revocata la patente perché sorpreso alla guida del suo autoveicolo in evidente stato di ebbrezza alcolica, in violazione dell’art. 186, comma 2, del Codice della strada. Da tale circostanza, la Questura he dedotto l’insussistenza dei requisiti di completa e assoluta affidabilità, previsti dalla legge ai fini del rilascio di autorizzazione di polizia in materia di armi.
La Questura ha comunicato al richiedente i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, in risposta ai quali l’appellante ha depositato osservazioni volte a far determinare l’Amministrazione in senso a sé favorevole. In particolare, l’appellante ha eccepito la non pertinenza del motivo posto alla base della comunicazione rispetto alla richiesta del porto d’armi; inoltre, ha sottolineato come il tasso alcolemico rilevato in quella sede non fosse elevatissimo, essendosi trattato peraltro di un episodio isolato.
Con provvedimento emesso il 16 giungo 2017 e notificato il successivo 1 agosto, la Questura ha negato l’istanza, ritenendo che le osservazioni dell’appellante non fossero in grado di scalfire il giudizio di inaffidabilità formulato alla luce dell’episodio richiamato.
L’interessato ha proposto ricorso innanzi al Tar Lombardia, contestando l’illegittimità del decreto per violazione e falsa applicazione degli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S., nonché l’eccesso di potere, sotto i profili della falsità dei presupposti, del travisamento dei fatti, dell’illogicità e del difetto di istruttoria e di motivazione, per aver l’Amministrazione richiamato a fondamento del diniego un solo comportamento, senza tuttavia svolgere ulteriori approfondimenti o indagini circa la personalità del soggetto.
Il Tar ha rigettato il ricorso, ritenendo il provvedimento avversato immune dai prospettati vizi. Il Giudice di prime cure ha, in via preliminare, ribadito che il diniego del porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando invece un’eccezione al generale divieto di detenere armi, che può ammettersi solo in favore di persone riguardo alle quali esista la completa e perfetta sicurezza circa il buon uso delle stesse. Il primo Giudice ha poi sostenuto che l’episodio posto a fondamento del decreto supportasse adeguatamente il giudizio di pericolosità sociale dell’interessato per l’ordine e la sicurezza pubblica.
L’appellante ha impugnato la citata pronuncia, riproponendo essenzialmente le doglianze non accolte in primo grado, in chiave critica nei confronti della gravata sentenza.
Si è costituito in giudizio il Ministero dell’interno, senza tuttavia articolare memorie difensive.
Nella camera di consiglio del 19 marzo 2019 il Consiglio di Stato ha rigettato l’istanza cautelare.
Alla pubblica udienza del 14 luglio 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
L’appello è fondato.
La materia del rilascio del porto d’armi è disciplinata dagli artt. 11 e 43 di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il legislatore nella materia de qua affida all’Autorità di pubblica sicurezza la formulazione di un giudizio di natura prognostica in ordine alla possibilità di abuso delle armi, da svolgersi con riguardo alla condotta e all’affidamento che il soggetto richiedente può dare.
Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti».
Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che - entro il limite della non manifesta irragionevolezza - mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi».
La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. St., Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972; Cons. St., Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435).
Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone una analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici.
Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa si connota in modo peculiare rispetto al giudizio che tradizionalmente l’Amministrazione compie nell’adottare provvedimenti permissivi di tipo diverso. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato, tanto più nei casi di impiego dell’arma per attività di diporto o sportiva.
L’apprezzamento discrezionale rimesso all’Autorità di pubblica sicurezza involge soprattutto il giudizio di affidabilità del soggetto che detiene o aspira a ottenere il porto d’armi. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo di abuso delle armi, che deve essere desunta da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo di abuso delle armi è valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di abuso delle armi.
È in questa prospettiva, anticipatoria della difesa della legalità, che si collocano i provvedimenti con cui l’Autorità di pubblica sicurezza vieta la detenzione di armi, ai quali infatti viene riconosciuta natura cautelare e preventiva (ex multis, Cons. St., sez. III, 2 dicembre 2021, n. 8041). Ne è prova il costante orientamento di questa Sezione, secondo cui l’inaffidabilità all’uso delle armi è idonea a giustificare il ritiro della licenza, addirittura senza che occorra dimostrarne l’avvenuto abuso (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2017, n. 1814).
Tale esegesi è peraltro confermata sul piano legislativo dalla formulazione dell’art. 39 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773, laddove, nel prevedere che «il Prefetto ha facoltà di vietare la detenzione delle armi, munizioni e materie esplodenti, denunciate ai termini dell’articolo precedente, alle persone ritenute capaci di abusarne», considera sufficiente l’esistenza di elementi che fondino solo una ragionevole previsione di un uso inappropriato.
Delineata in questi termini la natura latamente discrezionale dei provvedimenti in esame, occorre indagare le implicazioni che da essa derivano sul piano dell’intensità del sindacato giurisdizionale.
È noto che dal tradizionale approccio del giudizio amministrativo, teso ad escludere ogni forma di sindacato sulla attività discrezionale, si è passati alla possibilità di riconoscere la piena cognizione dei fatti oggetto dell’indagine e del percorso intellettivo e volitivo seguito dall’Autorità amministrativa, con il solo limite dell’ottica del merito, preclusa al giudice, e comunque del sindacato non sostitutivo. Solo in questo modo, infatti, si garantisce il principio di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale, imposto dall’art. 113 Cost.
Consegue che la natura dei provvedimenti in esame non esclude né può legittimare un indebolimento del sindacato giurisdizionale. Al contrario, quanto più si estendono le maglie della discrezionalità dell’Autorità amministrativa, tanto più è necessario un sindacato penetrante da parte del giudice amministrativo volto ad evitare che sotto il mantello della discrezionalità possa celarsi un esercizio arbitrario della funzione amministrativa.
In questa logica, si pone del resto la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che, sia pur con riferimento alla discrezionalità tecnica delle Autorità amministrative indipendenti, ha affermato che la tutela giurisdizionale, per essere effettiva, non può limitarsi ad un sindacato meramente estrinseco, teso a riscontrare vizi di manifesta illogicità e incongruenza, ma deve consentire al giudice un controllo intrinseco, attraverso la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e il controllo sull’attendibilità tecnica della valutazione compiuta dall’Amministrazione, salvo il limite rappresentato dall’oggettivo margine di opinabilità (ex multis, Cons. St., sez. VI, 10 dicembre 2014, n. 6050).
A maggior ragione, una forma penetrante di sindacato si impone a fronte di un’attività amministrativa che vede una scelta di opportunità afferente alla valutazione dei requisiti di legge. Anche qui la tutela giurisdizionale piena ed effettiva richiede un sindacato del giudice amministrativo pieno e particolarmente penetrante, che può estendersi sino al controllo dell’analisi dei fatti posti a fondamento del provvedimento, al fine di verificare se il potere attribuito all’Autorità amministrativa sia stato correttamente esercitato o presenti elementi di irragionevolezza o di erronea assunzione dei fatti.
Nel caso di specie, il giudice amministrativo è chiamato a valutare la consistenza dei fatti posti a fondamento della determinazione dell’Autorità prefettizia in ordine all’esistenza dei requisiti di legge e al pericolo di abuso delle armi, di modo che il suo sindacato sull’esercizio della funzione amministrativa consenta non solo di vagliare l’esistenza o meno di questi fatti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da essi secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva - e non sanzionatoria - della misura in esame.
In questa prospettiva, si chiede al giudice una valutazione sull’esercizio del potere amministrativo che, muovendo da un accesso pieno ai fatti rivelatori del pericolo, ne dimostri la ragionevolezza e la proporzionalità.
È opportuno rilevare che il principio di proporzionalità - compreso tra i principi di diritto europeo, ma già insito nella Costituzione, quale corollario del buon andamento ex art. 97 Cost. - si compone di tre elementi: idoneità, necessarietà e proporzionalità in senso stretto. È idonea la misura che permette il raggiungimento del fine, il conseguimento del risultato prefissato. La misura deve essere poi necessaria, vale a dire l’unica possibile per il raggiungimento del risultato prefissato. La proporzionalità in senso stretto richiede, invece, che la scelta amministrativa non rappresenti un sacrificio eccessivo nella sfera giuridica del privato.
Il principio di ragionevolezza postula, invece, una coerenza tra la valutazione compiuta dall’Amministrazione e la decisione assunta.
Alla luce di quanto fin qui esposto e dei fatti valorizzati dal provvedimento gravato in primo grado, ritiene il Collegio che la decisione di prime cure e la prognosi inferenziale compiuta dall’Amministrazione non consentano di evidenziare elementi qualificati idonei ad accreditare il giudizio di inaffidabilità formulato dall’Autorità di pubblica sicurezza.
Il provvedimento impugnato in primo grado, dato atto che, in data 18 marzo 2013, l’appellante è stato sorpreso alla guida del suo autoveicolo in stato di ebbrezza, si fonda sulla ritenuta carenza dei requisiti di completa e assoluta affidabilità, prescritti per il rilascio di autorizzazioni di polizia in materia di armi.
Deve altresì rilevarsi che tale profilo motivazionale è stato attinto dalle censure formulate con il ricorso di primo grado, che si rivela fondato.
Rileva infatti il Collegio che, nel caso di specie, il giudizio prognostico di pericolosità sociale dell’appellante non sia stato sorretto da una attenta e adeguata istruttoria, risultando agli atti diverse circostanze astrattamente idonee a dimostrare l’inattendibilità dell’inferenza prodotta dall’Autorità di pubblica sicurezza.
In particolare, l’appellante sottolinea - senza essere smentito dal Ministero costituito in giudizio - che l’evidente stato di alterazione psicofisica assunto dall’Amministrazione a sostegno del giudizio di inaffidabilità nell’uso delle armi non sarebbe supportato da alcuna prova in atti, risultando al contrario sconfessato dal tasso alcolemico accertato nel corso del controllo, pari a 0,69 g/l, dunque sotto la soglia di rilevanza penale. Parimenti, l’interessato contesta l’erronea valutazione della Questura in ordine al possesso dei requisiti psicofisici minimi per il rilascio della licenza, non solo perché l’Autorità adita avrebbe omesso di porre in essere tutti gli accertamenti opportuni al fine di verificare la sussistenza o meno di una situazione di dipendenza da alcool, ma anche perché sussisterebbero prove contrarie, evidenziate da certificazioni sanitarie rilasciate da pubbliche strutture.
Sul punto, occorre valorizzare la circostanza per cui l’appellante, a seguito del ritiro della patente, è stato sottoposto ad alcuni esami di routine, volti a verificare l’effettiva dipendenza da alcool, che hanno escluso qualsiasi possibilità di abuso di alcool. Da ultimo, l’appellante mette in rilievo l’unicità dell’episodio e il fatto che, in data 3 settembre 2013, gli è stata rilasciata una nuova patente, la cui validità decennale è stata confermata il 5 giugno 2014, a seguito dell’accertamento della sussistenza dei requisiti fisici e psichici di idoneità alla guida.
Ne segue che la sentenza gravata, nella sua rigidità preclusiva, ha errato nel considerare adeguatamente motivato il provvedimento reiettivo basato esclusivamente sulle condotte illecite sanzionate a livello contravvenzionale dall’art. 186 del Codice della strada.
Deve infatti osservarsi che il carattere del tutto isolato dell’episodio contestato, nonché gli esami specifici effettuati dall’appellante al fine di verificare la sussistenza di una situazione di dipendenza alcolica, non consentono di desumere una dedizione al consumo non moderato di sostanze alcooliche, cui potrebbe effettivamente connettersi un deficit di affidabilità in ordine all’uso delle armi. Né la vicenda posta a fondamento del provvedimento reiettivo - per quanto elevato sia il disvalore correlato alla condotta di guida in stato di ebbrezza - presenta alcun collegamento con l’esercizio della pratica sportiva, cui la licenza è nella specie esclusivamente funzionale, ovvero in generale con la disponibilità delle armi da parte dell’appellante, tale da consentire di inferire che quell’episodio sia indicativo del pericolo di abuso da parte del medesimo.
Corollario della discrezionalità della valutazione fatta dall’Amministrazione nella materia del rilascio del porto d’armi è che dal provvedimento emergano chiaramente le ragioni per le quali la valutazione della personalità complessiva del soggetto, della sua storia di vita pregressa e delle presumibili evoluzioni del suo percorso di vita, ha condotto l’Autorità a determinarsi nel senso di vietargli la detenzione e l’uso delle armi, avendolo ritenuto allo stato pericoloso o comunque capace di abusarne. Non può, invece, ritenersi sufficiente una motivazione scarna, apodittica, fondata su un singolo elemento non corroborato da ulteriori indizi.
Nella specie l’Amministrazione si è limitata ad affermare la non affidabilità dell’appellante, senza indicare le ragioni sulle quali si fonda tale giudizio, essendo sempre necessario, sul piano motivazionale, che da un determinato comportamento, specialmente se isolato e privo di connessioni dirette con l’uso delle armi, siano evincibili i tratti della personalità dell’interessato che non depongano per il suo pieno affidamento e, quindi, giustifichino il diniego del titolo di polizia.
Tutto ciò chiarito in fatto e in diritto, l’appello deve essere accolto e conseguentemente annullato, in riforma della sentenza appellata, il provvedimento impugnato in primo grado.
In considerazione della originalità dell’oggetto della controversia, sussistono giuste ragioni per compensare le spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla il provvedimento in quella sede impugnato, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione.
Spese del doppio grado di giudizio compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 luglio 2022 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente, Estensore Massimiliano Noccelli, Consigliere Giulia Ferrari, Consigliere Raffaello Sestini, Consigliere Antonio Massimo Marra, Consigliere.
NOTA
Il Consiglio di Stato ha chiaramente fissato quali sono il limiti della discrezionalità amministrativa, la quale incide pesantemente sulla eguaglianza fra i cittadini.
Mai automatismi e mai applicazione meccanica di vuote formulette di stile inventate a tavolino per risparmiare lavoro, mai ottuse decisioni rivolte solo ad evitare anche il sia pur minimo rischio personale, mai scelte suggerite da veline di superiori che vogliono realizzare loro politiche personali. E specialmente occorre una motivazione puntuale basata su fatti concreti e su valutazioni di esperti; non certo sulle sparate del agente Cacace per il quale ogni persona al buio è in atteggiamento sospetto! Nel caso in esame un semplice accertamento di un tasso alcolico dello 0,7 per mille (che, fino a non molto tempo, fa era del tutto lecito) era diventato uno "stato di evidente ebrezza" ! Di evidente c'è solo molta stupidità e molta mala fede: il funzionario sa di non avere nulla in mano ed allora, per soddisfare il suo istinto oppressivo verso il cittadino, trasforma le scartine in assi!
In altri casi il Ministero, di fronte a sentenze favorevoli, si è precipitato a fare circolari romanzate per far sapere ciò urbi et orbi. Son curioso di vedere, ora che il Consiglio di Stato ha insegnato loro come si devono comportare, se si muoveranno per segnalare a prefetti e questori che ogni giorno producono atti illegittimi!
EM
17-9-2022