Enciclopedia delle armi - a cura di Edoardo Mori
     
 

 

 

Il fascino del delitto (Edoardo Mori)

PREFAZIONE al libro di Paolo Cagnan, Delitti & Misteri - I trenta casi di cronaca nera più clamorosi misteriosi e intriganti dal dopoguerra ad oggi in Alto Adige - Ed. Curcu & Genovese, Trento, 2000.

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Il fatto truce, la vicenda che tiene l’animo in sospeso, sottoponendo i personaggi a disavventure varie ad opera di un cattivo, fino al lieto fine che allenta la tensione quando il cattivo trova la sua giusta punizione, sono alla base dell’antica favolistica; qui l’orco è la figura simbolica, adeguato sostituto del moderno serial killer. L’omicidio quale caso criminale compare dapprima nella letteratura greca, ove trova ampio spazio come omicidio familiare. Il delitto misterioso, vero o immaginario, preso in considerazione come elemento letterario, fa invece il suo ingresso nella letteratura molto più tardi; il primo grande esempio è contenuto nell’Amleto la cui trama ruota attorno alla scoperta e punizione degli autori di un omicidio, che sarebbe rimasto perfetto senza l’intervento soprannaturale del fantasma della vittima.
Però è solo nel Settecento che i casi criminali delle corti di giustizia escono dagli atti processuali e dai pochi testi in cui essi vengono riferiti, ad uso degli avvocati apprendisti, per diventare un genere letterario a sé che avrà enorme fortuna di pubblico e che, nella seconda metà dell’ottocento, sfocerà nel romanzo gotico prima (Matthews G. Lewis, Il Monaco, 1796) e poi nel romanzo giallo (Enfile Gaboriau, Il caso Lerouge del 1866 e Wilkie Collins, La pietra della luna del 1868).
Nel 1734 infatti François Gayot de Pitaval (1673-1743), avvocato di Lione, pubblica il primo dei 22 volumi delle sue Cause celebri e interessanti, contenenti, per l’appunto, l’esposizione dettagliata di famosi processi svoltisi avanti alle Corti del Regno di Francia. Egli, per primo, non si limita ad un’arida esposizione delle carte processuali, ma indaga la psicologia dei personaggi, ricerca le cause del delitto, sa tenere il lettore in ansia fino alla fine del processo e così il suo successo è grande. Anch’egli, con il suo desiderio di chiarezza, con il suo stile logico e brillante, con la messa a nudo dei meccanismi perversi della giustizia, contribuirà non poco allo spirito illuministico, all’idea che l’intelligenza dell’uomo può risolvere ogni mistero e liberarci dall’ingiustizia.
Il successo dell’opera, continuata poi da altri scrittori meno noti, farà sì che ogni raccolta di casi criminali, fino all’ottocento, sia in Francia che in altri paesi, venga semplicemente chiamata “Pitaval”. In Germania l’opera venne tradotta (1791) per l’intervento di Schiller che la riteneva “un contributo alla storia dell’umanità”. Giudizio centrato perché le carte processuali forniscono un quadro esatto e realistico della società del loro tempo, non deformato dalle passioni o dagli interessi personali che si riscontrano nei memorialisti.
Lo studio dei casi criminali non soddisfa perciò curiosità morbose, ma ha una solida giustificazione culturale, quale strumento di indagine sociale e psicologica; esso, prima ancora che lo dicessero i criminologi, ci insegna che certi comportamenti non sono anomalie individuali, ma il risultato di condizioni sociali ed umane.
L’aggressività verso i propri simili è una tipica caratteristica umana che sta alla base stessa della evoluzione del- l’uomo, da normale primate ad homo sapiens (Anthony Storr, Human Aggression, 1968). La scimmia, nelle savane dell’Africa, ha iniziato la sua diversificazione nel momento in cui ha compreso che pietre e bastoni potevano servire come armi ed è divenuta una scimmia cacciatrice e guerriera; e non deve essere passato molto tempo perché accadesse un fatto del tutto anomalo in ogni altro gruppo sociale animale: che una delle tante baruffe rituali per il comando del gruppo o la divisione del cibo finisse con la testa spaccata di uno dei due contendenti, invece che con la fuga del più debole. E l’arma era la causa di questo cambiamento perché, aumentando la distanza tra l’armato e la sua vittima, non faceva scattare quei meccanismi istintivi che impediscono ad ogni animale di affondare le zanne nella gola del suo simile (Robert Ardrey, The hunting Hypothesis, 1976).
Questo aspetto dell’animo umano è stato ben colto dalla Bibbia che all’inizio della storia dell’uomo pone un fratricidio per invidia (una delle più potenti molle dell’animo umano, come ben studiato da Helmuth Schoeck, L’invidia, 1980), e fa sorgere in noi il legittimo dubbio di appartenere alla stirpe di Caino. Per inciso si noti come nella Bibbia si trovi la prima traccia di una inchiesta di polizia là dove il Signore chiede a Caino “dov’è tuo fratello Abele?” (tipica domanda insidiosa, perché il Signore sapeva benissimo che cosa Caino aveva fatto, e anzi era stato lui stesso a farlo peccare, suscitando in modo un po’ avventato la sua invidia). La Bibbia, del resto, aveva inizialmente una concezione ben limitata del valore della vita umana: il quinto comandamento si limitava ad imporre di non assassinare (la parola “uccidere” è una traduzione volutamente equivoca che sembra ricomprendere ogni tipo di uccisione, anche quella legittima o in guerra) l’appartenente alla propria comunità, mentre il resto dell’opera incitava a far fuori chiunque fosse un nemico (Wolfgang Wickler, Die Biologie der Zehn Gebote, 1971). Anche il diluvio universale è, secondo il moderno modo di vedere, un atto un po’ estremo. Giustamente disse Jean Rostand: “Uccidi un uomo e sei un assassino; uccidine milioni e sei un conquistatore; uccidili tutti e sei Dio”.
Con queste premesse si comprende perché l’uomo sia tanto interessato ai fatti di sangue. Normalmente l’uomo ha dentro di sé dei potenti meccanismi che gli impediscono  di uccidere (accade spesso che chi provoca la morte di altri, anche senza colpa, cada in un grave stato di shock nervoso), eppure anche l’uomo normale, quando scruta entro di sé, sente che altri suoi istinti lo spingono ad immaginare sanguinarie vendette contro i suoi nemici, sente che essi possono riemergere in qualunque momento, che il limite tra onestà e crimine è apparentemente sottilissimo. Egli vorrebbe comprendere ove si pone questo limite e pensa forse di trovarlo studiando chi lo ha superato; spera, studiando, di scoprire che l’omicidio è una anormalità e che quindi egli può fare affidamento su quella normalità illusoria su cui si fonda la società (Colin Wilson, Lo studio del delitto, in Enciclopedia del delitto, 1961).
Orbene, tutti gli studi in materia hanno dimostrato che l’omicidio è, nella stragrande maggioranza dei casi, un fatto banale, dovuto ad una momentanea perdita di controllo psichico, ad una scarica di adrenalina, alla suggestione del gruppo; un fatto cioè di scarsissimo interesse per il pubblico e per la scienza. E questa banalità impedisce di individuare in anticipo chi perderà il controllo, anche perché ciò non è in rapporto diretto con l’aggressività: si può essere aggressivi eppure mantenere il perfetto controllo delle proprie azioni. L’aggressività è una caratteristica dell’animale forte; il non saper controllare la propria aggressività, è una caratteristica del debole. Come disse un filosofo “il delinquente vince la paura con l’odio invece che con l’amore" (Otto Weininger, Intorno alle cose supreme, 1914)
Ma quando invece un omicidio diventa interessante?
Vediamo di proporre, prima di tutto una rapida suddivisione degli omicidi volontari, esclusi ovviamente quelli commessi da persone prive della ragione, che solo per finzione giuridica possono essere definiti come voluti dal soggetto:
- omicidi commessi da criminali nell’ambito di diversa attività criminosa, al fine di raggiungere i propri scopi, economici o politici. Essi dimostrano solo a quali livelli può giungere l’indifferenza per la vita umana.
-     omicidi occasionali, non premeditati, commessi da persone in stato d’ira, nel corso di una lite o di una aggressione; l’autore poi è pentito, ma al momento non ha saputo controllare i suoi istinti.
-     omicidi premeditati, ma che sono la conseguenza di una sofferenza psichica pregressa (uccisione di un familiare dopo lunghe tensioni, uccisione di una persona di cui si ritiene doversi vendicare, uccisione per gelosia, ecc.); sono ricollegabili a disturbi caratteriali e mentali perché è anomalo il scegliere una soluzione così finale. L’autore in genere non è pentito, non tenta di nascondere il suo gesto, ma ritiene di aver commesso un atto inevitabile e giustificato.
-     omicidi premeditati commessi da persone insospettabili per interesse; talvolta si intrecciano con la categoria precedente (omicidi passionali).
-     omicidi commessi da psicopatici (soggetti tarati, ma lucidi); se non vengono subito catturati, è probabile che agiscano nuovamente (sono i tipici serial killer che, nella stragrande maggioranza dei casi vengono presi dopo il primo omicidio, ma la cui pericolosità potenziale rimane intatta). In questa categoria rientra la maggior parte degli omicidi sessuali. Sono talvolta omicidi con moventi così anomali, da apparire all’osservatore come omicidi privi di movente.
Se ora ripensiamo alle cronache giornalistiche dell’ultimo secolo vediamo che l’interesse del pubblico per un certo caso, piuttosto che per un altro, dipende da vari fattori, variamente e casualmente combinati: un caso che faccia nascere interesse umano per i sospettati, un caso che consenta al pubblico di appassionarsi per le vicende delle parti come ad una telenovela, un caso che appassioni per la vicenda processuale, che fa apparire controversa la responsabilità dell’imputato. Tutti casi in cui il morto finisce in genere per avere il ruolo minore e per essere dimenticato, mentre tutto l’interesse ruota attorno alle emozioni delle parti coinvolte. Può accadere così che il caso Calabresi sollevi ben poco interesse, salvo in coloro che lo sfruttano politicamente, per la scarsa simpatia umana verso gli imputati, e che il caso Marta Russo occupi invece per mesi giornali e televisioni, perché la gente si appassiona alla vicenda di chi potrebbe essere condannato ingiustamente, ed alla lotta tra accusa e difesa.
Questo conferma la nostra premessa, secondo cui ben difficilmente l’omicidio di per sé è interessante ed è invece normalmente del tutto banale (ed accettato dal pubblico così come si accetta una morte in un incidente stradale), destinato a diventare interessante solo per le successive vicende dei vivi.
Ed in effetti i casi giudiziari veramente interessanti, tali da poter fornire materia per un libro giallo, sono veramente pochi e ben individuabili.
Ovviamente l’omicidio più interessante da studiare sarebbe il delitto perfetto (disse Hitchcock “certo che vi sono omicidi perfetti; la prova migliore è che di essi noi non ne sappiamo nulla!”), ma questo tipo di delitto non ci può fornire, per natura di cose, grande materia di argomentazione! L’omicidio mascherato da infortunio o da morte naturale o da suicidio (ed a Bolzano abbiamo avuto, a mio ricordo, due casi di morti assassinati e che stavano per essere sepolti, con tanto di certificato medico, come morti per cause naturali), l’omicidio realizzato facendo sparire il corpo della vittima, l’omicidio dello psicopatico che uccide una persona con cui non ha alcun legame, possono essere scoperti solo per un concorso fortunato di circostanze e quindi ben di rado suscitano interesse, superata l’iniziale fase poliziesca.
Ben più interessante è l’omicidio in cui vi è una ben precisa cerchia di sospetti, in cui si sa che l’assassino è fra di noi e potrebbe colpire ancora, in cui l’investigatore è come un cacciatore che segue l’usta dell’assassino e questi è la fiera che ha usato ed usa ogni mezzo per far svanire le tracce pericolose, in cui vi è sempre il dubbio se l’assassino sia imprendibile per la sua abilità o solo perché la fortuna lo ha aiutato. Tipico esempio il delitto di Tulve, in Val di Vizze (12 ottobre 1988), in cui vi è una ragionevole certezza che l’assassino si trovi in un gruppo di persone viventi in pochi casolari di una piccola frazione di montagna, ma senza il minimo indizio per individuarlo. Prova questa, per inciso, che la campagna è molto più favorevole all’omicida della città: in campagna non vi sono occhi indiscreti che possono testimoniare, non vi sono orecchie che sentono grida d’aiuto, sugli alberi e sul terreno non rimangono impronte digitali; peli e capelli e tutte quelle cellule che ora possono rivelare il DNA scompaiono nel terreno, i proiettili si perdono chissà dove, il cadavere viene trovato a distanza di tempo, e così via.
Possiamo perciò concludere che i casi criminali che possiedono i requisiti per sollevare interesse nel pubblico sono quelli delle ultime due categorie sopra viste, in cui l’assassino, o presunto assassino, entra nella vicenda con tutta la sua personalità di soggetto capace e responsabile, in grado di lottare con la giustizia. Vale a dire, in fin dei conti, che il pubblico sposta l’iniziale interesse per il delitto, all’interesse per la caccia al suo autore.
E questa fase, individuato il presunto responsabile, culmina nel processo, che più di ogni altra situazione si presta alla teatralità, che è già di per sé spettacolo, amplificato poi a dismisura dai mezzi di comunicazione. Il delitto, messo in pubblico nell’aula di udienza, nei resoconti giornalistici e televisivi, diventa perfetta opera letteraria in divenire. Del dramma possiede tutti i requisiti: l’aderenza al canone dell’unicità di tempo e di luogo, tipico della tragedia greca, la lotta tra il bene e il male (accusa e difesa), la tensione crescente fino alla soluzione finale, i  colpi di scena, la possibilità di parteggiare per l’uno o per l’altro, il coinvolgimento di alti principi, ecc.
Il pericolo è ovviamente che venga elevato a dramma ciò che invece è del tutto banale e l’impressione è proprio che la maggior parte dei processi di Corte di Assise, che potrebbero essere risolti a tavolino, siano soltanto un desiderato palcoscenico per pubblici ministeri ed avvocati. Il pubblico ministero si lascia sovente andare a sostenere accuse manifestamente gonfiate e la difesa, quando non sa più a che santo votarsi, avrà buona presa sulla giuria (il coro dell’antica tragedia greca?) se saprà inventarsi qualche trama misteriosa, del tipo servizi segreti o complotto di nemici occulti, se saprà far balenare l’immagine di un qualche deus ex machina, utile a far vacillare la già malferme convinzioni dei giurati. È poi diventato ormai un rito, inutile come ogni altro rito, di perdere tempo e danaro per indagare con psichiatri e psicologi nella mente del reo (vero o presunto che sia), quando si sa, o si dovrebbe sapere, che la responsabilità può essere esclusa o ridotta solo per malattie psichiche talmente gravi da essere praticamente evidenti. Se poi la difesa ha la fortuna di riuscire ad eccitare la pubblica emotività, potrà contare anche a piene mani su mitomani pronti a sostenere con la loro testimonianza le più inverosimili ipotesi.
Il giornalista Cagnan, appassionato studioso di casi criminali, ha ora raccolto in agili schede i casi di omicidio più interessanti accaduti in Alto Adige nel dopoguerra e che, proprio in base ai criteri appena esposti, più hanno interessato il pubblico, tanto da essere ancora nella memoria collettiva. La loro notorietà li ha fatti diventare parte e patrimonio della nostra cultura ed è un piacere rileggerne la trama. Per chi non li ha vissuti, è utile scoprire l’universalità dell’omicidio che, pur nella diversità e curiosità dei singoli casi, si ripete senza preferenza alcuna per tempi e luoghi, come immutabile espressione delle passioni umane o, come diceva Dante, di “mal protesi nervi”.
Bolzano, maggio 2000

 


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